Giugno 2007

riflessioni sul futuro

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La cultura
della socialità
Giuseppe De Rita  
 
 

 

 

Il Mediterraneo
è stato sempre
il luogo
della diversità,
la cultura italiana
è stata sempre
figlia del rispetto
e del bricolage
della diversità.

 

Vorrei cominciare con una riflessione di metodo, proprio per delimitare un tema che certamente non sarà né facile né breve: il rapporto tra i popoli del Mediterraneo e il ruolo della cultura italiana.
Il rapporto fra i popoli del Mediterraneo è sempre stato segnato non tanto da una convergenza, quanto da una differenziazione profonda. Il Mediterraneo è sempre stato un mare chiuso, un mare sul quale hanno gravitato milioni di persone, un mare in cui la diversità si è espressa in maniera assolutamente brutale: non c’è popolo mediterraneo che sia uguale all’altro nel corso dei secoli. Il marocchino è estremamente diverso dal tunisino; il libico e l’egiziano non hanno molto a che vedere tra loro. Se osserviamo gli israeliani, i libanesi, i turchi, i siriani, i greci, gli albanesi, i popoli slavi, gli ex cecoslovacchi e, passando per l’Italia tutta intera come Penisola, andiamo verso la Francia e la Spagna, troviamo popoli diversi. E se pensiamo a illustri antenati, le diversità fra gli antichi greci e i fenici, fra i cartaginesi e gli etruschi, erano molto forti. Invece di avere una forza aggregante, il bacino del Mediterraneo ha sempre espresso il senso della diversità.

Anche coloro i quali hanno pensato al Mediterraneo come al luogo di riferimento e di unità di una cultura non hanno mai potuto negare che il Mediterraneo sia fonte di diversità. E probabilmente, se ci pensiamo bene, la cultura è diversità, non omologazione. La cultura autentica è la capacità di esprimere una differenziazione, un’articolazione di valori, di idee, di comportamenti: altrimenti, l’unica cultura sarebbe quella dei mass media. La televisione omologa, uniforma, rende tutti uguali, semi-bambini e semi-rimbambiti. E questa sarebbe cultura? No. La cultura consiste nello sforzo che ciascun popolo e ciascun segmento sociale ha fatto proprio per essere diverso dall’altro. Per questo l’unificazione del Mediterraneo non si è realizzata mai. Non con i fenici, con i cartaginesi, con gli egizi, con i greci. Non con la potenza spagnola né con quella francese. Noi italiani, per fortuna, forse, non siamo mai stati potenti, se non quando eravamo romani, quando cioè abbiamo lasciato in retaggio le basi delle lingue romanze e del diritto. Ma nessuna delle grandi forze che hanno attraversato il Mediterraneo negli ultimi tremila anni ha mai saputo dare unità totale a una realtà, come quella continentale, tanto complessa. Non c’è stata un’idea di Mediterraneo unitario derivante dalla forza o dal potere.
Questa assoluta diversità di popoli mediterranei è una ricchezza da conservare, non un pericolo da evitare con l’omologazione o con presunti primati di altre culture. La ricchezza dei popoli consiste nella loro diversità culturale. Ciò significa, naturalmente, che i rapporti devono essere molto più forti: non l’unificazione, ma la crescita delle relazioni diventa l’elemento fondamentale della cultura moderna.
Esprimere tutti la medesima cultura, essere tutti “alla Dallas”, tutti rampanti, tutti vestiti allo stesso modo, tutti American way of life… Non è lì la cultura! Fare cultura significa sviluppare relazioni tra modi di pensare diversi, creare un tessuto i cui fili si fanno trame e orditi di una realtà sempre nuova, mantenendo tuttavia la forza, il colore, il sapore originali. Questo, a mio avviso, è il punto cruciale.
E, se ci pensiamo bene, i nostri grandi, quelli che ci hanno insegnato a capire e a vivere, quelli che consideriamo i maestri della cultura mediterranea, avevano questa visione, possedevano la capacità di rispettare la diversità, mettendo in relazione le varie realtà culturali.
Ricordo la mostra sui fenici proposta a Palazzo Grassi qualche anno fa. Si poteva leggere su una parete una frase che recitava: – I cartaginesi e gli etruschi sono popoli fratelli –. Nessuno ci aveva mai pensato. Certo, poi erano indicate le tracce, oggi ricostruite, dei fenici che erano andati verso Cartagine, dei fenici venuti in Sicilia, in Sardegna, poi anche in Francia e in Spagna; ma che gli etruschi e i cartaginesi fossero popoli fratelli, in quanto figli dei fenici, sinceramente non lo sapevamo.

Il testo proseguiva: – Sono popoli fratelli perché i naviganti e i commercianti ci raccontano che hanno le stesse abitudini alimentari, gli stessi usi funerari, le identiche consuetudini abitative e di organizzazione della vita sociale; e poiché sappiamo che hanno gli stessi comportamenti, mettiamo in relazione questo dato e li consideriamo fratelli –.
Questo concetto non appartiene a un ricercatore italiano dei giorni nostri, è di Aristotele; il quale, alcune centinaia di anni prima di Cristo, possedeva la capacità di vagliare le notizie provenienti dai commercianti e dai naviganti mettendo in relazione popoli diversi come i cartaginesi e gli etruschi, che avevano una radice comune nei fenici.
Mi domando quanti dei nostri ragazzi, quanti di noi hanno questa capacità di mettere in relazione le notizie di cui si dispone. Supponiamo che basti attivare il telecomando per sapere tutto; in realtà, non sappiamo nulla: perché possediamo tante informazioni, ma non sappiamo metterle in relazione. La cultura consiste nell’unificare ciò che è diverso. Noi, al contrario, tendiamo a credere che la cultura debba determinare la realtà. Quella mediterranea è cultura della combinazione, dell’informazione, dell’accettazione e della messa in relazione delle diversità, non dell’imposizione di una cultura particolare. E questo rispetto della cultura come rapporto combinato delle diversità, come rispetto delle diversità, in fondo oggi ci serve più di prima, perché oggi non possiamo più ritenere che il Mediterraneo sia un luogo dove vincerà un’unica cultura, un’unica religione, un unico schema sociale.
Chi conosce il Mediterraneo attuale sa quale diversità radicale ci sia tra una cultura emotiva e una cultura razionale. Una parte del Mediterraneo è fatta di cultura emozionale, di forza emotiva che travolge ogni razionalità; e ce n’è un’altra che, invece, vuole imporre una cultura razionale, più mitteleuropea, per certi versi più medioevale. Non vincerà nessuna delle due. Dobbiamo abituarci a convivere nella diversità di emozione e di razionalità, di religioni diverse, di economie diverse. Non possiamo pensare a tutta la realtà mediterranea come ad un’area di grandi città industriali o ad un’area di piccole imprese del Nord-Est.
Chiunque abbia girato per il Mediterraneo sa che non c’è la possibilità di un’unificazione economica: c’è l’esigenza di rispettare non tanto le vocazioni economiche dei singoli Stati, quanto le diversità di economie che via via si faranno. In alcuni casi, partendo quasi da zero.
Penso al lavoro che noi del Censis stiamo facendo all’università del Libano, vivendo in una sorta di apnea (anche intellettuale); penso ai numerosi piccoli imprenditori che girano il Nord Africa, tentando di investire anche lì. Però nessuno turberà la differenziazione, la diversità: perché il Mediterraneo non è unificabile. Non lo era tremila anni fa, ai tempi di Omero; non lo è oggi. Non è unificabile dagli attuali processi religiosi, economici, e neppure dai mass media.
Si dice che la televisione italiana venga vista in Albania, nella Penisola balcanica, nell’Africa del Nord, e che dunque potremmo illuderci di unificare attraverso il teleschermo almeno la lingua… Neppure questo è vero. Si può essere d’accordo con chi sostiene l’ipotesi di una lingua universale. Però sappiamo benissimo che la lingua non rappresenta un fattore unificante. Se c’è un mondo estremamente diversificato, attualmente, è l’America del Nord: che, pur possedendo una lingua comune, presenta diversità assolute tra Stato e Stato. Pensiamo alla giurisdizione, alla cultura, all’economia, ai modi di pensare, alla stessa pena di morte. Allora, il nostro problema è capire qual è la realtà italiana, che cosa la cultura italiana può dare a un rapporto con i Paesi del Mediterraneo. Questo è lo snodo cruciale della nostra riflessione per i prossimi anni.
Come si fa cultura di massa in relazione ai diversi, rispettandoli, ma avvicinandoli sempre di più? Certo, non riaffermando il primato della cultura italiana rinascimentale, pre-rinascimentale, post-rinascimentale, e meno che mai romana: non si fa con duemila anni di storia. Si fa soltanto cercando di capire quali sono i germi della nostra cultura che stanno in questo bisogno di mettere in relazione le diversità, o che possono aiutarlo. Non è l’orgoglio della nostra cultura che mette in relazione le diversità, anche se la nostra è sempre stata una cultura di combinazione. Non per niente abbiamo saputo coniugare per alcuni nostri monumenti stele egizie, colonne greche, e quant’altro. La maggior cultura che possediamo consiste nella capacità di mettere in relazione molecole diverse. Chiamiamola socialità: ma non socialità intesa come solidarietà, bensì come capacità di sviluppare la figura del “socius”, cioè di colui che sta “in relazione con”.
Siamo un popolo di grandi individualisti, ma siamo anche un popolo in cui è vissuto bene il “paese”, è vissuto bene il “vicinato”, è vissuta bene la “piccola città”, è vissuta bene la “piccola e media impresa”, sono vissute bene le strutture in cui il rapporto interpersonale funziona: forse perché non abbiamo l’alterigia prepotente di altri, forse perché la nostra stessa storia è stata molto spesso una storia di dipendenza, di attraversamento di stranieri, a volte servile. Siamo stati abbastanza umili da non essere alteri e prepotenti. Abbiamo saputo vivere insieme nella diversità. Sapendo di essere individualisti, siamo stati capaci di creare il vicinato, di creare il paese e la piccola città. Non c’è nessuna cultura monumentale da esportare nel Mediterraneo, c’è la piccola cultura di chi ha fatto il piccolo paese, la media città, la piccola impresa, la società quotidiana. Questo è ciò che sappiamo fare bene, ciò che possiamo offrire ed esportare.
Guai a noi se dicessimo: – Esportiamo i maestri del colore del Seicento –. Non ci capirebbero, non entreremmo in relazione. Invece possiamo esportare la cultura della relazione, l’unica che oggi abbia una possibilità reale di stare al gioco. Tutti noi siamo figli della cultura giudaica, nella quale il rispetto del rapporto comunitario è quasi un obbligo morale. Recita il Talmud: – La colpa verso Dio ti sarà perdonata nel giorno del Kippur: la colpa verso l’altro non ti sarà perdonata nel giorno del Kippur –.
Questa è la deriva storica profonda, la tettonica continentale che sta dentro il Mediterraneo: la capacità di rispettare l’altro, di essere responsabile dell’altro, di andare avanti con l’altro. Lo abbiamo fatto per secoli nei nostri piccoli paesi, lo facciamo quotidianamente nei rapporti tra piccole e piccolissime imprese che fanno forte l’Italia, lo abbiamo fatto nella costruzione delle tante città simultaneamente d’arte e d’industria. E dobbiamo farlo ancora, perché è l’unica iniziativa che noi possiamo intraprendere.

Certo, se ci guardiamo in faccia, dobbiamo ammettere che questo rapporto con la diversità non ci piace. C’è dietro l’angolo il negro che ci infastidisce, c’è il gitano che ci ha fregato i soldi dalla tasca, c’è l’indonesiano o l’est-europeo che ci vuole lavare il parabrezza a tutti i costi, o il diverso, seduto di fronte alla nostra porta, che non vogliamo riconoscere. Però sappiamo benissimo che, mentre l’organizzazione della grande città espelle o criminalizza gli immigrati, i piccoli comuni in fondo riescono ad assorbirli e a diventare davvero accoglienti. L’accoglienza non è, o non è soltanto questione di amore cristiano. La Caritas fa bene a dirlo, ma l’accoglienza è la cultura di un porto che ha accettato la diversità. E l’Italia, in qualche modo, per tutta la sua storia è stata proprio questo: qualche volta subendo l’attraversamento di eserciti stranieri; altre, invece, esprimendo soltanto il suo rispetto per la cultura altrui.
Allora, accettare la diversità diventa il punto cruciale della nostra riflessione sul futuro, diventa l’offerta che possiamo avanzare affermando che la società italiana è la più sociale, non solo rispetto a popoli che sono, evidentemente, così fondamentalisti ed enfatici da non avere più socialità. La nostra socialità deriva dalla storia, dalla nostra capacità di mettere in relazione tutto, facendo addirittura dei collages di cultura.
La conclusione, quindi, non è una conclusione, ma un’apertura di discorso. Ricordando queste due piccole verità: il Mediterraneo è stato sempre il luogo della diversità, la cultura italiana è stata sempre – nelle forme migliori – figlia del rispetto e del bricolage della diversità. Se capiamo e facciamo totalmente nostri questi due concetti, forse il nostro contributo sarà meno enfatico, meno retorico, meno potente, meno prepotente, ma più concreto e fattivo.

 

   
   
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