Giugno 2007

piccole e medie imprese

Indietro
Declinisti contraddittori
Enrico M. Visconti  
 
 

 

 

I dati statistici
dimostrano che tra il 2001 e il 2005, più che cambiare pelle, molte
imprese l’hanno
lasciata sul campo, con parecchia
soddisfazione
da parte dei
sostenitori della “selezione
darwiniana”.

 

Tema del momento, la ripresa: una specie di ritorno di fiamma, o, come è stato definito, un nuovo innamoramento, nei confronti di soggetti che per una lunga epoca nel dibattito politico, economico e sociale sono stati considerati perdenti, come le piccole e medie imprese, i distretti industriali e i settori considerati “maturi” del made in Italy. Anche molti “declinisti” sembrano essersi ravveduti, folgorati al modo di San Paolo sulla via di Damasco. Anche se alcuni non ci vogliono stare, e puntualizzano, esaltando quella che ritengono una “selezione darwiniana”, che si sarebbe verificata con l’uscita di scena delle aziende più deboli e con la ripresa agganciata dall’emersione delle imprese migliori, cioè quelle che hanno cambiato pelle.
In altre e più concrete parole: abbiamo fatto bene a non porre barriere doganali contro la Cina, perché è stato proprio questo Paese a costringerci a diventare migliori; per di più, non avendo contrastato il dumping, ce lo siamo mantenuto amico, e questo fatto costituirebbe un cospicuo investimento per quel futuro in cui le nostre piccole e medie imprese troveranno finalmente il coraggio di puntare su quel mercato, che è un vero e proprio Eldorado.

È un discorso che mette a nudo una gran confusione di idee, non solo perché si continua a credere che la Cina costituirà uno sbocco straordinario per le nostre aziende esportatrici, se queste diventeranno virtuose come, ad esempio, quelle tedesche. Con ciò sopravvalutando la Cina (mentre il nostro vero Eldorado è l’Est europeo) senza sapere, fra l’altro, che anche la Germania oggi esporta in Cina la metà di quel che esporta in Austria (così come noi esportiamo a Pechino la metà di quello che vendiamo alla Svizzera). Ma anche perché ci sembra che pochi avevano capito prima perché l’economia italiana non cresceva (e la concorrenza della Cina c’entrava parecchio) e pochi hanno compreso ora perché dall’autunno del 2005 il nostro Paese abbia ricominciato a crescere.
Nella confusione in cui sembra essere precipitato il dibattito, la fioritura di luoghi comuni è stata straordinaria. L’ultima campagna elettorale, per esempio, è stata giocata in tutto e per tutto sul tema dell’Italia allo sfascio, grazie anche al contributo di organi di stampa stranieri considerati (ma questa volta a torto) “autorevoli”, e sull’esaltazione dei modelli di sviluppo di altri Paesi. Ora che c’è in atto una ripresa, non proprio recentissima, e che i conti pubblici non sembrano poi così drammatici (sebbene lo stock del debito resti un fardello insopportabile), la preoccupazione di molti commentatori sembra essere quella di adattarsi al nuovo clima euforico, magari con un po’ di contorsionismo. Tanto, che qualche noto economista è riuscito persino a smentire se stesso nello spazio di un mattino.
Come coloro i quali sostenevano tre anni fa che la colpa della bassa crescita dell’Italia era la sua specializzazione nei settori maturi, e ha invece poco fa affermato che la sua forza è proprio in quei settori. Oppure chi solo pochi mesi addietro sosteneva che le imprese italiane erano troppo manifatturiere e che l’Italia avrebbe dovuto disfarsi di una forte quota di industrie marginali, abbandonandole ai Paesi emergenti, mentre ora attribuisce il merito della ripresa proprio alle aziende manifatturiere, incluse quelle che operano nei settori maturi.

Noi non abbiamo mai creduto a un vero e proprio declino dell’Italia industriale. Abbiamo messo in evidenza più volte che i settori tipici del made in Italy (le cosiddette “4A”), anche dopo lo tsunami di una concorrenza cinese che non ha precedenti, generano uno straordinario surplus commerciale con l’estero di oltre 100 miliardi di dollari. Segno che, nonostante la forza dell’euro che non facilita l’export, questi settori sono rimasti in piedi e che probabilmente fra dieci anni saranno ancora vivi, quando la Cina avrà spostato il baricentro della pressione competitiva verso altre produzioni manifatturiere, come l’auto, la chimica-farmaceutica e l’elettronica di consumo.
A quell’epoca, quando il gigante asiatico sfiderà le multinazionali americane, giapponesi e tedesche in quei settori, si vedrà se anche l’hi-tech che ci manca e che altri hanno (quello che è stato mitizzato dai declinisti) saprà dimostrare la stessa capacità di assorbimento dello shock cinese che i nostri settori maturi hanno dovuto subire per primi.
I 100 miliardi di dollari di surplus del made in Italy dimostrano anche che la ricetta della delocalizzazione, che molti ci vorrebbero propinare in dosi da cavallo seguendo il modello tedesco, fortunatamente è stata seguita solo in minima parte dalle nostre imprese. E speriamo che continuino su questa linea, andando all’estero soltanto ove realmente sia utile per sopravvivere o per conquistare nuovi mercati. Anche in questa materia i luoghi comuni e gli slogan più o meno interessati si sono sprecati, anche perché alcune aziende quasi decotte sono state costrette a giustificare la scelta di chiudere gli stabilimenti italiani e andare all’estero, presentando questa decisione come modernismo anziché come ultima spiaggia.
Così, abbiamo sentito sostenere che «bisogna mantenere la testa in Italia e produrre fuori», oppure che «occorre puntare sul designed in Italy e non più sul made in Italy». Discorsi poco assennati, dal momento che la logica imporrebbe che un Paese capace di produrre nei confini nazionali 100 miliardi di dollari di surplus commerciale manifatturiero dovrebbe avere come interesse primario la tutela e promuovere il made in Italy (ciò che non solo è disegnato, ma viene anche prevalentemente prodotto in Italia, generando Pil e occupazione), e non il semplice designed in Italy di pochi delocalizzatori, per quanto potenti e persino influenti.
Siamo poi anche convinti che le nostre imprese non abbiano cambiato pelle più di tanto. Erano capaci di competere prima dello tsunami cinese e sono capaci di farlo anche ora. Certamente, hanno adottato qualche contromossa per adattarsi alla globalizzazione selvaggia. Ma se ora c’è la ripresa, non è perché disponiamo di battaglioni di imprese totalmente diverse da quelle che avevamo prima. È semplicemente perché, dopo aver subìto per lungo tempo un’emorragia di fatturati e posti di lavoro, era evidente che prima o poi si sarebbe toccato il fondo, per poi rimbalzare. Il fondo è stato raggiunto precisamente nella prima metà del 2005, e da allora l’industria ha ricominciato a crescere. Certo, sarebbe stato preferibile raggiungere questo traguardo facendo risparmiare un po’ di sofferenze alle nostre imprese (che pure ripetevano, inascoltate, che la Cina era il loro principale problema), ed evitando di perdere in quattro anni decine di migliaia di occupati e 10 miliardi di attivo commerciale nella moda e nell’arredo-casa per la concorrenza asiatica.
Perché, secondo gli organi responsabili del settore, le aziende italiane sono state lasciate in balia degli eventi. Non le ha aiutate un’Unione europea più disposta ad ascoltare le lobbies degli importatori dalla Cina. Non le hanno aiutate nemmeno i nostri governi, ad eccezione forse degli ultimi due ministri per il Commercio estero. Né hanno contribuito a fare chiarezza gli opinionisti italiani, che in questi anni hanno negato l’evidenza dei dumping cinesi e sono arrivati a stigmatizzare l’introduzione di modesti dazi sulle calzature provenienti da Pechino, a fronte di un concreto e clamoroso caso di dumping accertato dalla stessa Commissione europea. Le voci preoccupate sul tema Cina, infine, sono state isolate e criticate perché non politically correct.
Dunque: bentornata ripresa! Ma è bene ricordare quanto è stato duro per le nostre imprese affrontare il periodo 2001-2005. I Sistemi locali di lavoro (SLL) più colpiti, in quella fase, sono stati quelli calzaturieri, del tessile e dell’abbigliamento, dell’occhialeria, delle pietre ornamentali e dei casalinghi. Molti SLL, come Biella, Fermo, Trifase, Castrano, Verona, Lumezzano, Santa Croce, secondo l’Istat nel periodo critico hanno perso oltre il 10 per cento degli addetti.
Altri, come Prato, Arezzo, Barletta, Busto Arsizio, Belluno, Sassuolo, Carpi, Gorizia, Civitanova Marche, Vicenza, Montebelluna, nello stesso periodo hanno visto diminuire gli addetti nell’industria tra il 5 e il 10 per cento, esattamente come l’Sll di Torino, prima della cura Marchionne in Fiat.
Gli SLL meno concentrati su produzioni esposte all’aggressività asiatica o più diversificati hanno invece contenuto le perdite nell’occupazione industriale al di sotto del 5 per cento, o l’hanno addirittura accresciuta, sia pure di poco: Borgomanero, Pesaro, Chiari, Pordenone, Viareggio, Parma, Langhirano, Forlì, Altamura e Matera (questi ultimi due Sll hanno tuttavia avuto una crisi nel 2005-2006). Nel 2001-2004 in totale si sono persi 250 mila posti di lavoro nell’industria. L’occupazione ha poi subìto flessioni significative in molti Sll della moda e dei divani, mentre già si sono cominciati a manifestare i primi sintomi di ripresa in alcuni Sll della meccanica, delle piastrelle, dei mobili, dei prodotti in metallo e degli articoli in gomma e plastica.
In definitiva, i dati statistici dimostrano che tra il 2001 e il 2005, più che cambiare pelle, molte imprese l’hanno lasciata sul campo. Con parecchia soddisfazione da parte dei sostenitori della “selezione darwiniana”, che tuttavia è bene che si annotino un dato: a fine recessione, dopo le perdite di addetti, l’occupazione manifatturiera in molti Sll è ancora più del 40 per cento (se non più del 50-60 per cento) di quella totale. Segno che il modello di sviluppo italiano è più difficile da annichilire di quanto non pensino gli ammiratori dei modelli di altri Paesi.
Gli stessi che oggi inneggiano alla ripresa. Ma non ci meraviglieremmo affatto se, ai primi sintomi di rallentamento, tornassero a dare la colpa di tutto ciò che non va in Italia, come da copione, alle piccole e medie imprese e ai settori maturi.

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2007