Giugno 2007

L’Europa utile

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Cinquant’anni di amicizia
Mario Pinzauti  
 
 

 

 

La maggiore
prova di amicizia che milioni
di cittadini
dell’Unione
europea hanno avuto dalla loro Comunità è stata una garanzia
di pace e di
democrazia
durature.

 

In occasione delle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario dei Trattati di Roma, una domanda è stata costante nelle mille e una interviste realizzate, sull’argomento, dai mezzi di comunicazione: “Quali vantaggi e svantaggi l’esistenza dell’Unione Europea ha portato ai cittadini?”.
A nostro modesto avviso, tra le tante risposte date da personaggi più o meno illustri e più o meno informati sulla materia una non fa letteralmente una piega. È quella dell’ex Presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri, oggi senatore a vita, Giulio Andreotti, il quale, rispondendo al Tg 1, ha detto: «Non ci sono stati svantaggi».
Ed è quanto pensiamo anche noi che, come tanti, non nascondiamo le delusioni, talvolta notevoli, che il processo d’integrazione ci ha fatto soffrire – ad esempio, per il non raggiunto e ancora lontano obiettivo dell’unità politica e per l’insabbiamento del progetto di Costituzione – ma che ci vergogneremmo professionalmente e personalmente di noi stessi se chiudessimo gli occhi davanti all’immenso panorama dei vantaggi che l’Unione ha dato e continua a dare ai suoi cittadini, meritandosi ampiamente l’appellativo di Europa utile, o meglio ancora, amica.

Uno supera tutti gli altri per dimensione e significato e come tale ci è invidiato in tutti gli altri continenti. È, per dirla con le parole di un periodico raramente indulgente nei confronti dell’Europa e degli europei, il settimanale americano Time, la creazione del «più grande spazio di pace e di prosperità esistente al mondo». E anche, occorre aggiungere, la maggiore concentrazione di Paesi e popoli dove la democrazia non è in discussione e dove la pena di morte è ovunque abolita. Basta una veloce occhiata ai precedenti per far capire quanto questi risultati siano straordinari.
Fino al 1945 l’Europa è stata, per millenni, uno scenario di continue guerre alternate a pericolose tensioni. Vedendo sui giornali e in televisione l’immagine del commosso abbraccio tra il presidente francese Jacques Chirac e la cancelliera tedesca Angela Merkel al vertice di Berlino del 25 marzo di quest’anno, non possiamo non ricordare, con un misto di stupore e soddisfazione, che soltanto nel periodo 1870-1945, nel breve spazio di settantacinque anni, francesi e tedeschi si sono confrontati tre volte in guerre di sterminio costate decine di milioni di morti e che due di questi conflitti, la prima e la seconda guerra mondiale, hanno coinvolto Paesi di tutti gli altri continenti.
Scorrendo l’elenco dei ventisette Paesi che oggi fanno parte dell’Unione europea non possiamo inoltre non rilevare che fino al 1989, l’anno della caduta del Muro di Berlino, undici di questi Paesi, il quaranta per cento del totale, erano dominati dalla dittatura comunista e che tre di essi – l’Estonia, la Lettonia, la Lituania – facevano addirittura parte dell’Unione Sovietica.
Sicuramente, dunque, la maggiore prova di amicizia che i 483 milioni di cittadini dell’Unione Europea hanno avuto dalla loro Comunità è stata una garanzia di pace e di democrazia durature. C’è però stato altro, molto altro, non delle stesse dimensioni, ma importante, importantissimo: tale, si può dire, da modificare l’identità di interi Paesi e anche le abitudini e le condizioni di vita di grandi masse di cittadini.
L’Irlanda era un Paese povero. Dopo il suo ingresso nell’Unione (avvenuto nel ‘73), la sua economia ha preso a correre. Già da qualche anno l’Irlanda si è permessa il lusso di rinunciare ai fondi europei destinati a Paesi e regioni con un reddito inferiore al 75 per cento della media comunitaria. E oggi, come reddito medio pro capite, supera addirittura la prospera Svizzera. Senza arrivare a livelli altrettanto stratosferici, hanno fatto spettacolari balzi in avanti anche la Spagna, la Grecia, il Portogallo. La Slovenia, entrata nell’Unione solo due anni fa, si è già messa nelle condizioni di applicare il Patto di stabilità e quindi di adottare l’euro dal gennaio di quest’anno.

Grazie all’impegno soprattutto nel settore delle nuove tecnologie – di cui le istituzioni europee non si stancano di segnalare l’importanza – Paesi come l’Estonia, la Lettonia e la Lituania stanno uscendo dal sottosviluppo. Le Piccole e Medie Industrie, che da sole rappresentano oltre il 90 per cento dell’imprenditoria europea e occupano 75 milioni di lavoratori, ricavano dalle incentivazioni e facilitazioni offerte dalle istituzioni dell’Unione una spinta decisiva per contribuire alla ripresa dell’economia comunitaria e per sdrammatizzare il problema della disoccupazione. Nei 45 anni della vita della PAC, la Politica Agricola Comune, in attività dal 1962, sono stati commessi frequenti e anche gravi errori, ma si è ottenuto di far uscire dalla miseria questo settore dell’economia e anche buona parte dei suoi operatori, tra i quali coloro che, accogliendo gli incoraggiamenti comunitari, sostenuti da apprezzabili interventi finanziari, hanno accettato di impegnarsi in nuove forme di competizione, quali l’agricoltura biologica.
Altri incoraggiamenti e sostegni comunitari hanno permesso alla pesca di superare pericolosi momenti di crisi e hanno fatto rinascere economicamente zone montagnose che gli abitanti stavano abbandonando. Tutelando le coste, attraverso i periodici interventi della sua Agenzia per l’Ambiente, l’Unione ha favorito l’incremento del turismo, principale fonte di reddito per vaste zone dell’Europa.
L’elenco delle imprese dell’amica Europa è lungo e per ripercorrerlo occorrerebbero centinaia di pagine. È uno spazio che non abbiamo. E che, almeno per noi, che in ogni numero di questa rivista, da qualche anno, parliamo dei fatti dell’Europa utile, potrebbe determinare il rischio di numerose e noiose ripetizioni. Anche per evitare tale rischio, o ridurlo al minimo, ci limiteremo perciò a richiamare l’attenzione di chi ci legge con qualche richiamo a iniziative di particolare rilievo.

Dal 1980 ad oggi, l’Unione europea ha speso 480 miliardi di euro per la politica di coesione sociale, cioè per diminuire gli abissi economici che esistevano e in parte esistono ancora tra i cittadini delle varie parti dell’Europa comunitaria. Grazie a questo investimento si è ottenuto di ridurre di un sesto il divario tra le regioni più povere e la media europea. In qualche caso – abbiamo visto prima l’esempio dell’Irlanda – si è andati oltre, molto oltre.
E risultati ancora più apprezzabili ci si aspettano dal programma di coesione sociale per il periodo 2007-2013. Prevede una spesa di 308 miliardi di euro, proporzionalmente dunque molto più elevata di quella impegnata nei precedenti ventisei anni, quelli dal 1980 al 2006 e con il suo impegno principale, l’“Obiettivo convergenza”, si propone di dare un contributo decisivo alla crescita economica delle zone geografiche e dei settori sociali più disagiati.
A 84 regioni, abitate da 154 milioni di persone e tutte con un reddito inferiore al 75 per cento della media europea, e a 16 regioni, abitate da 16,4 milioni di persone e con un reddito medio di poco superiore alla media europea, andranno infatti 251 miliardi, pari all’81 per cento dell’intera somma disponibile per la nuova fase della politica di coesione. Sarà l’impresa di solidarietà sociale di maggiore spessore e significato mai avvenuta.
I suoi benefici dovrebbero dare una spinta senza precedenti ad alcuni Paesi dell’Europa centro-orientale da poco entrati nell’Unione, ma saranno positivamente influenti anche nelle aree meno sviluppate di tutti gli altri membri della famiglia comunitaria, compresa l’Italia, che avrà 19 miliardi.
Particolarmente rilevante sarà l’impegno per battere la disoccupazione. Si darà soprattutto attenzione all’enorme massa di senza lavoro privi di specializzazione, arrivati ad essere, nell’Unione, un disperato popolo di 80 milioni di persone. Con 9 miliardi di euro destinati al progetto “Lifelong learning”, “Apprendimento lungo tutto il corso della vita”, si conta di riuscire ad assicurare ad almeno una parte di essi (l’obiettivo minimo è il 12,50 per cento del totale) una formazione e aggiornamenti che facilitino l’ingresso o (nel caso di persone non più giovani) il ritorno nel mondo del lavoro. Recentemente Vladimir Spidia, commissario europeo per i problemi dell’Occupazione, degli Affari e delle Pari Opportunità, ha segnalato un dato che è un’indicazione di indubbia chiarezza sulle strade da seguire per vincere la disoccupazione. Negli ultimi cinque anni, ha detto Spidia, il 60 per cento dei nuovi posti di lavoro è stato trovato, nell’Unione, in settori di alta specializzazione.
Un altro esempio di grande, grandissima amicizia verso i cittadini l’Unione l’ha dato quando, in occasione del Consiglio Europeo dell’8 e 9 marzo di quest’anno, ha lanciato una vera e propria crociata per difendere i cittadini dell’Unione e, assieme ad essi, quelli di tutto il mondo, dagli annunciati disastri meteorologici ed ecologici.
Su questa materia l’Europa comunitaria aveva già fatto molto: con l’adesione al protocollo di Kyoto, con le norme sugli impianti di riscaldamento, con le campagne antinquinamento, con gli interventi contro i combustibili tossici e a favore delle auto “Euro Quattro”.
Con il Consiglio Europeo dell’8 e 9 marzo, preso atto della modestia dei risultati raggiunti e della crescita dei segnali di prossime, gravi catastrofi, l’Unione si è proposta come guida e motore di una mobilitazione mondiale che si concretizzi in seri impegni per salvare il pianeta dalle disastrose conseguenze che l’effetto serra sta già provocando con gli aumenti delle temperature, lo scioglimento dei ghiacciai, la desertificazione di vaste zone, la condanna alla siccità di altre parti del mondo e della stessa Europa. E per dare al resto del mondo il buon esempio l’Unione, sempre in occasione del vertice di marzo, ha promesso di arrivare entro il 2020 a una riduzione sensibile (un quinto del totale) delle sue emissioni inquinanti, aggiungendo di voler realizzare questo risultato con un risparmio energetico e con un apprezzabile incremento del ricorso alle fonti alternative, quali quelle che si ottengono dagli impianti a energia solare, eolica e idrica.
C’è chi dice e scrive, soprattutto nei Paesi dell’euroscetticismo, quali la Gran Bretagna, la Polonia e l’Olanda, che una parte consistente dell’opinione pubblica sta voltando le spalle all’Unione europea. È un fatto che, secondo i sondaggi di Eurobarometro, di solito molto accurati, quindi scientificamente attendibili, l’81 per cento dei cittadini dell’Unione – quattro contro uno! – oggi si dichiara soddisfatto delle proprie condizioni di vita. Bene, è lapalissiano, anzi elementare: che quell’81 per cento di europei lo sappia o no, le condizioni di vita da tanti apprezzate sono il risultato di cinquant’anni di lavoro e di amicizia dell’Europa comunitaria.
Da questo mezzo secolo di amicizia e di lavoro a favore dei cittadini sono usciti i benefici che abbiamo ricordato. E tanti altri ancora. Ad esempio, andando per telegrammi verso la conclusione del nostro articolo, la libertà che, con il Mercato Unico, abbiamo ottenuto nel ‘93, di abitare, lavorare, stabilire attività imprenditoriali, far circolare servizi e capitali, anche studiare in qualsiasi Paese della Comunità, con la conseguenza, tra l’altro, di aver dato la possibilità al milione e mezzo di giovani del programma “Erasmus” di seguire corsi di studio e fare esperienze di vita in università e città sparse su tutta la grande area dell’Unione. O anche il passaporto di colore uguale (bordeaux), per tutti i cittadini comunitari, patenti di guida, assicurazioni, carte sanitarie valide su tutto il territorio dell’Unione. E poi le norme che vietano i giocattoli pericolosi per bambini. E quelle che rendono obbligatorie le cinture di sicurezza per le auto. Il mandato di cattura europeo che toglie ai delinquenti la possibilità di trovare rifugio in altri Paesi.
Infine – ma dopo tanti altri benefici che unicamente per ragioni di spazio evitiamo di citare – tutte quelle prove di amicizia europea che ci troviamo davanti agli occhi ogni giorno: nei negozi, a casa, per strada, con le etichette dei prodotti alimentari e dei vini che garantiscono, a nome dell’Europa, il rispetto delle norme igieniche, la qualità, l’origine e con i cartelli e i manifesti che annunciano campagne e convegni dell’Unione contro i tumori, il fumo, la droga, per la difesa dei diritti delle donne, degli anziani, dei disabili, degli immigrati.
Nel preambolo della Costituzione dell’Unione si legge che l’Europa offre ai suoi popoli «le migliori possibilità di proseguire la grande avventura che ha fatto di essa uno spazio privilegiato della speranza umana». Dopo un lungo e sofferto percorso, iniziato al Consiglio Europeo di Nizza sette anni fa, la Costituzione non è ancora arrivata al traguardo della ratifica da parte di tutti i Paesi membri. Lo raggiungerà, forse, nel 2009, se l’accorato appello espresso il 25 marzo dal Consiglio Europeo di Berlino troverà, prima di tale data, quell’unanimità di consensi oggi inesistente.
In teoria, la Costituzione potrebbe dunque restare solo un prolisso elenco cartaceo di buone intenzioni. Anche se malauguratamente avvenisse, l’Europa amica dei cittadini, con le imprese che ha già all’attivo e quelle che promette per il futuro, manterrebbe tuttavia il diritto ad essere considerata «uno spazio privilegiato della speranza umana» e a meritarsi, come tale, la riconoscenza dei suoi cittadini, noi compresi.

 

   
   
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