Giugno 2007

problemi del nostro tempo

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Chi falsa (e ruba)
il nostro futuro
Richard Spogli Ambasciatore Usa in Italia
 
 

 

 

È fondamentale che le forze
dell’ordine
e la magistratura
riconoscano
che la pirateria
è un reato serio,
come lo spaccio della droga e la tratta di esseri umani, che frena la crescita in Italia.

 

Il governo italiano stima che pirateria e contraffazione causino alle aziende danni tra i cinque e i dieci miliardi di euro l’anno, con circa quarantamila posti di lavoro di qualità persi oppure non creati. La sola industria del copyright in Italia lamenta perdite per due miliardi di euro l’anno. Ciò è allarmante e insostenibile. Sappiamo che il crimine organizzato gestisce gran parte dell’illegalità in questo settore. I contraffattori guadagnano cifre immense. Evadono le tasse, frenano la crescita economica e creano un danno all’immagine del Paese. Mentre l’immigrato che vende prodotti contraffatti all’angolo della strada ci può anche ispirare simpatia, la verità è che dietro tutto questo vi è spesso la criminalità organizzata.
In Italia esistono buone leggi contro la pirateria e la contraffazione; le forze dell’ordine, come la Guardia di Finanza, danno un’alta priorità alla lotta a tali fenomeni; è stata anche creata la figura dell’alto commissario per la lotta alla contraffazione. Anche i sindacati cominciano a percepire il serio impatto negativo di tali crimini sul mercato del lavoro. Tutti condividono che il furto della proprietà intellettuale indebolisce l’economia, ha un impatto negativo sul mondo del lavoro ed è un pericolo per il consumatore.

Vi sono leggi che tutelano tutti i tipi di proprietà intellettuale. Perché non sono applicate? Mentre l’Italia ha capito l’entità del danno causato dalla pirateria e dalla contraffazione, ancora troppi, nel governo, in Parlamento, nelle forze di polizia e nella magistratura, lo percepiscono come un reato assolutamente minore, e magari anche come una sorta di ammortizzatore sociale.
È fondamentale che le forze dell’ordine e la magistratura riconoscano in pieno il fatto che la pirateria è un reato serio – parallelo allo spaccio della droga e alla tratta di esseri umani – che frena drammaticamente la crescita economica in Italia. È fondamentale anche che pene severe siano applicate ai trasgressori, come per altri reati gravi. Minimizzare tali crimini, solo in apparenza meno malvagi, è una rinuncia alla legalità e mette a rischio la nostra sicurezza. Una tolleranza male intesa erode il senso della legalità nella società, e distrugge le nostre economie.
Ma la protezione della proprietà intellettuale è una questione di livello internazionale. I falsi provenienti dalla Cina e da altri Paesi invadono l’Italia e minano l’attività delle aziende legali. La Cina, l’India, il Brasile e altre nazioni devono combattere la pirateria nei propri confini. Dobbiamo insistere perché questi Paesi, membri dell’Organizzazione mondiale per il commercio, osservino le regole.
Per molti anni si è ritenuto che la protezione del diritto di proprietà intellettuale fosse un interesse esclusivo degli Stati Uniti: oggi è evidente che la protezione di tali diritti è altresì importante per l’Italia ed è fondamentale per la sua crescita. Società evolute come Italia e Stati Uniti basano sempre più il loro futuro sull’innovazione, sulle idee e sulla qualità, sempre meno sulla produzione industriale di vasta scala. La pirateria è un danno economico immediato, ma ancor di più è il furto del nostro futuro.
Come ambasciatore americano, offro la collaborazione della missione diplomatica in Italia per promuovere, insieme alle autorità italiane, la protezione della proprietà intellettuale, in Italia e a livello internazionale, in modo da migliorare le nostre culture e il nostro futuro: insieme.

Le città invisibili
Se non ci avesse già pensato vent’anni fa il regista John Carpenter, quel che è accaduto a Milano si potrebbe giustamente intitolare “Grosso guaio a Chinatown”, proprio come il film, dove i due protagonisti, per liberare una bellissima ragazza dagli occhi verdi, si perdono nei labirinti di una “medina gialla” nella quale tutto può accadere. Proprio tutto. Perché il mistero e l’intrigo, così come il sospetto con cui si difendono dai ficcanaso, nelle Chinatown del mondo, sono un dato di fatto. Esattamente come l’odore di “wang tong” fritti che ti viene incontro nel capoluogo lombardo, in via Sarpi e dintorni, dove è scoppiata la rivolta. Non per nulla è nata qui, nel ‘68, la prima associazione commerciale e industriale dei cinesi. Presidente e fondatore, il signor Hu Xizhen. Gli asiatici residenti in Italia sono quasi 215 mila.
Da un rapporto della Facoltà di Scienze statistiche dell’Università di Milano Bicocca emerge che gli immigrati cinesi sono oltre 168 mila (irregolari e clandestini sono difficili da censire) e costituiscono il cinque per cento dei 3.357.000 stranieri residenti in Italia. Sono cifre, queste, che aiutano a tracciare una mappa che da Milano ci conduce direttamente negli altri grandi insediamenti cinesi nel nostro Paese: in Toscana, nel Lazio, nell’Emilia Romagna. In Toscana la comunità cinese è di oltre 35 mila persone. A Firenze, trionfo della griffe contraffatta, la presenza cinese è del 15,8 per cento. Il consolato di Firenze è più importante dell’ambasciata della Cina a Roma.
La maggior parte dei cinesi è arrivata in questa regione negli anni Ottanta ed è a Prato che si tocca l’81 per cento delle presenze, col rischio costante di una “collision course” con la popolazione locale, come è accaduto non molto tempo fa, quando due gruppi, uno cinese e uno italiano, si sono affrontati con bastoni e spranghe. Un segnale allarmante, confermato dall’Unione industriali dell’area: «I cinesi non rispettano le regole che noi siamo invece chiamati a non valicare. Loro si possono permettere di fare cose che noi non ci possiamo permettere. La comunità cinese ha tanto denaro: ma che colore ha questo denaro?».
Varcato l’arco di pietra arenaria della trecentesca Porta Pistoiese, ci si rende subito conto che la comunità cinese, a Prato, è una città nella città. In un Comune di 180 mila abitanti, i cinesi con regolare permesso di soggiorno sono 11.680, più che a Firenze (10.712), più che a Milano (10.716), più che a Roma (6.293). I bambini nati a Prato da genitori cinesi sono già 1.300.
Nella Chinatown, però, i pratesi non ci vanno volentieri. «È un po’ come sentirsi stranieri in casa propria», è la sintesi del pensiero generale. Tanto che il sindaco è stato costretto a firmare un’ordinanza contro la pessima abitudine di tanti orientali di sputare per terra e di orinare dove capita, spedendo i vigili a farla rispettare. I cinesi di giorno lavorano nei capannoni e la sera in via Pistoiese riempiono i locali con l’insegna del Drago. Già, perché la via Pistoiese è diventata l’arteria-simbolo delle Chinatown in Toscana. E Prato la capitale dei cinesi in Europa. Su 7.000 imprese della provincia, più di 1.500 sono cinesi: una concentrazione senza pari nel Vecchio Continente. Vittima della concorrenza cinese, che le è costata 4.800 posti di lavoro in due anni, Prato è turbata dagli imprenditori del sud della Cina.
Dalla Toscana all’Emilia Romagna. A Bologna, dove la Chinatown locale si estende fra via Dell’Arca, via Procaccini e via Corticella, i cinesi sono stati tra i primi ad arrivare. A Villa Tocchi, concessa dal Comune in zona Corticella, ci si occupa dell’organizzazione di feste e incontri, e si è aperto un centro di ascolto, ma in concreto non è che sotto le due Torri si faccia tutto alla luce del sole. Un ingente traffico di bevande cinesi illegali è stato scoperto di recente.
E non è stata la prima volta. I sequestri di merce cinese illegale a Firenze, come a Bologna e a Roma, riguardano soprattutto giocattoli, pelletteria, calzature, abbigliamento. Nascosti nelle Chinatown in capannoni intestati a prestanome.
In compenso, a Roma, dove la comunità cinese si concentra nel quartiere Esquilino, a ridosso della Stazione Termini, vige una tolleranza eccessiva: si vuol far credere che la Chinatown romana sia un esempio di integrazione e pacifica convivenza, ma la realtà è ben altra. All’Esquilino i cinesi hanno colonizzato l’intera area commerciale.
Vendono per lo più merci contraffatte, che arrivano con grossi container a Fiumicino o a Civitavecchia. E da qui parte l’intero smercio in tutta la Capitale. Il carico-scarico di merci è senza soluzione di continuità. Del resto, secondo stime dell’anno scorso, condotte dalla Questura, ci sarebbero a Roma 20.000 cinesi irregolari. Trecento sono i residenti all’Esquilino, anche se poi sono in 2.000 a lavorare abusivamente e a vivere in locali subaffittati.
La sorpresa, più che i pugni, i lanci di oggetti e i blocchi stradali emersi il 12 aprile nel corso della rivolta della Chinatown di Milano, è stata quella dei drappi rossi, le bandiere della Repubblica popolare cinese, comparse in pugno a una comunità ritenuta (evidentemente a torto) anche troppo tranquilla. Decine di negozianti immigrati di via Sarpi e di via Bramante le hanno tirate fuori dagli armadi in pochi secondi, per colorare di ideologia la protesta contro una pattuglia di agenti che intendeva imporre una multa. Gli eredi di chi anni fa era fuggito dalla Cina miserabile e isolata per motivi politici, o se ne era andato in cerca di libertà economica, si son voluti scontrare con la polizia di un Paese che li ha ospitati e che ha cercato di far applicare le proprie leggi.
Ora, è vero che in Italia la legalità è purtroppo un principio astratto, ma cercare di far rispettare alcune norme fondamentali è alla base di ogni civile convivenza. Per questo il “fil rouge” che collega le bandiere della sommossa milanese con la protesta ricattatoria del diplomatico cinese che presume di agire nelle città italiane come fosse dalle parti di Piazza Tien an-Men è il segnale che è cambiato il mondo e, con esso, i cinesi stanziati in Italia, i quali hanno visto la rinascita del loro Paese al modo di quella di un colosso ingombrante sulla scena economica e politica planetaria, e pertanto non si sentono più gli immigrati diseredati e famelici di un tempo, ma i figli di una nazione risorta dalle rovine della sua tragica storia. E tuttavia, da qui a proclamarsi intoccabili e a percepire se stessi come vittime di xenofobia, ce ne corre. Anche perché essi sanno, e l’ambasciatore cinese non può ignorare, che la Cina vince in casa e fuori grazie all’inarrestabile flusso di merci contraffatte, al lavoro oscenamente sottopagato, al lavoro minorile, al lavoro con orari indegni di una normativa umana, alle produzioni inquinanti, e a mafie (come le Triadi) al confronto delle quali quelle di casa nostra semplicemente impallidiscono. Napoli insegni: qui la mafia cinese si è accordata con la camorra, per gestire in parallelo il fiorentissimo mercato dei falsi. Poi si è alleata anche nel traffico e nello spaccio di droga. Infine è approdata nel lucrosissimo traffico di clandestini. Dunque, non manifesta né si rivolta, perché il business è gigantesco. Le bandiere rosse con le stelle dorate, qui, sono ancora riposte nei cassetti.

Galassie etniche
Quando vennero mandati via da Ponte Vecchio, a Firenze, anche su sollecitazione degli orafi che vedevano colare a picco il loro commercio di oreficerie raffinatissime, per via dei traffici di bigiotterie contraffatte e di “gioielli per modo di dire” venduti sottocosto, misero in scena furibonde manifestazioni, poi si spostarono poco più in là (non più di tanto), visto che altre celebri aree fiorentine erano già infestate da marocchini, senegalesi, egiziani, sudanesi, algerini, ivoregni, medio-ed-estremo orientali di tutte le etnie, persino tagiki, uzbeki e turcomanni. Siamo il più grande centro mondiale d’accoglienza, è vero, anche se non possiamo permetterci il lusso di mantenere tutti, sempre, e senza limite. Ma il problema non è solo questo. È che gli extracomunitari (quasi tutti ambulanti), in gran parte clandestini, ritengono di poter creare ovunque, a loro piacimento, e impunemente, delle zone franche, e a dir loro che non possono degradare zone di particolare interesse artistico, storico, paesaggistico, si corre il rischio di passare per razzisti, soprattutto a causa di un pilatismo becero messo in campo da istituzioni locali e nazionali, da associazioni caritatevoli e da predicatori di ideologie umanitarie ed egualitaristiche.

Così, nel nostro sciagurato Paese assistiamo all’allargamento a macchia d’olio degli scempi perpetrati in nome di una carità pelosa degna d’altra causa. Si faccia un breve giro di osservazione. A Ponte Sant’Angelo, in quel di Roma, a due passi da San Pietro, e nelle fasce adiacenti, è fiorito un enorme suq. Di fronte all’Arena di Verona, idem: gli ambulanti sono stati mandati via più volte, e puntualmente si sono riorganizzati e ripresentati, incuranti delle ingiunzioni di espulsione ricevute. Piazza dei Miracoli, a Pisa, poi: un multiplo assolo unico al mondo, già imbrattato nelle strade che ne costeggiano le mura, e dentro, al cospetto del Duomo, del Battistero e della Torre Pendente, un’interminabile serie di baracche con cianfrusaglie e merci falsificate, mentre per i prati e i marciapiedi vagolano altri venditori di tutto e del contrario di tutto: e questo non è solo un modo di banalizzare un paesaggio d’arte che un Paese civile (ma il nostro lo è più?) difenderebbe con i denti, è anche la presa d’atto (da parte degli occupanti, che ne sono consapevoli e orgogliosamente determinati a perseverare) della de-sacralizzazione progressiva del gran recinto cattolico. Provatevi a impiantare una baracchetta dentro l’area di una moschea, in qualunque terra musulmana: nel giro di pochi minuti, finite decapitati o massacrati nel nome di Allah.
È unilaterale, infatti, lo spirito di tolleranza predicato da chi informa di pensiero debole (se pensiero ha) e di pervicace agnosticismo il proprio e l’altrui comportamento. Accade così che chiunque approdi in qualche modo nelle nostre città si senta in diritto di creare enclaves etniche, quartieri-ghetto, repubbliche anarchiche, “down-town” eslege, zone franche mafiose, contando su una tracotanza messa in atto più per la nostra debolezza istituzionale e culturale che per la loro forza mercenaria. Smarrendo la nostra autorevolezza, il nostro orgoglio di civiltà, la nostra identità, continuiamo a consentire immunità, impunità, continuità di presenza e di azione a chiunque pretenda solo diritti (non è dato sapere in nome di che) e ignori doveri. È in questo modo che non c’è piazza intorno a un duomo, a una cattedrale, a un monumento d’architettura, a un centro storico (da Torino a Siena, da Venezia ad Ascoli Piceno, da Bologna a Pescara, da Bari a Cosenza, a Palermo, a Cagliari) che non sia butterato da mercati straccioni, da merci fasulle, da irregolari terzo-e-quartomondisti, che minano i sistemi di lavoro e di produzione regolari e leciti e alimentano – su piani paralleli – cartelli del crimine di cui proprio non sentiamo alcun bisogno.Rischio-banlieue
Almeno per ora, rischio limitato, ma non del tutto scongiurato, e dunque è necessario prevenire, prima di dover affrontare situazioni di emergenza, come potrebbe accadere già in quartieri-ghetto come quello in via Anelli, a Padova. Qui, ma anche in altre città, quel tipo di quartieri, nei quali la separazione dal resto del mondo è totale, ci sono già, squallidi esempi di “autismo urbano”.
Eccole, queste aree di confine. Torino: Barriera di Milano, quartiere simbolo dello sviluppo industriale della città e roccaforte della classe operaia; l’afflusso di immigrati è divenuto imponente già dagli anni ‘50-‘60, ma è cresciuto a dismisura con l’arrivo di extracomunitari negli ultimi dieci anni. Genova: Begato, quartiere con forte divisione tra l’area di edilizia privata e il quartiere Diamante a residenza pubblica. Milano: ex Zona 13, che comprende quattro aree diverse (Bonfadini-Taliedo, Forlanini-Monluè, Ponte Lambro e Zama-Salomone) e ha una forte componente industriale-operaia e di immigrati. Bologna: Navile, zona ad elevata concentrazione di aree dismesse, con popolazione giovanile ad alti livelli di disagio. Firenze: Isolotto-Torri Cintoia, quartiere segnato da uno sviluppo urbanistico dalla logica funzionalista con blocchi abitativi di bassa qualità. Roma: Esquilino, con impronta multietnica marcata dalla presenza cinese; per i romani il quartiere – centrale Piazza Vittorio – è un rione di “periferia in centro”, mentre per gli immigrati è un “centro delle periferie”. Napoli: Scampia, con declino simbolizzato dal fallimento delle Vele, unità abitative di concezione razionalista, oggi icona dell’abusivismo e dell’illegalità. Bari: San Paolo, centro di edilizia popolare edificato in una logica di pura monofunzionalità, diventato presto mero dormitorio e area di emarginati. Palermo: Zen, nel quale non è stata mai completata la fase di urbanizzazione, sicché il quartiere soffre sia della carenza di servizi essenziali sia di vuoto istituzionale, riempito dalla mafia. Catania: Librino, nato negli anni Settanta come città satellite e pretenzioso progetto avveniristico, immediatamente colato a picco.
Qui, e altrove, gli errori e i fallimenti delle pianificazioni urbane degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso rischiano di sommarsi agli errori già compiuti e ripetuti di politiche urbane parziali oppure banalmente miopi, in un quadro complessivo di povertà economica, urbanistica, istituzionale, socio-culturale e di relazione.

 

   
   
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