Giugno 2007

Il ruolo sociale dell’impresa

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Scandalosa perfect storm
Daniel Yankelovich Sociologo e manager
 
 

 

 

È ironico pensare che il business americano, la cui tradizione è
radicata nell’etica dell’interesse
illuminato, si trovi ora prigioniero
in una girandola di miopi interessi di breve periodo.

 

La proliferazione recente degli scandali nel mondo degli affari ha sollevato un’ondata di diffidenza verso la corporate America. Diffidenza e sfiducia, a ruota, hanno portato a una serie di onerose nuove regole, all’umiliazione e alla carcerazione di leader del mondo delle imprese prima ammirati, e ad un automatico preconcetto che attribuisce al mondo degli affari la patente di malafede. Oggi pochi leader d’impresa ottengono il beneficio del dubbio quando le loro società si trovano in acque difficili. Il giudizio immediato è che «devono avere combinato qualche imbroglio».
Gli scandali coprono un vasto spettro di (cattivo) comportamento manageriale. Vanno dalla criminalità vera e propria (Enron, WorldCom, Tyco, Adelphia), ai miseri imbrogli legali di Martha Stewart, alle pesanti multe e alle imbarazzanti rivelazioni che hanno macchiato alcuni nomi del gotha imprenditoriale, come Fannie Mae, Citigroup, Merck, Aig, Boeing, Shell, JPMorgan/Chase, Marsh & McLellan.

Come mai la nostra cultura si è trovata ad affrontare improvvisamente così tanti misfatti o cattivi comportamenti? Quali forze hanno agito? Con il passare del tempo e mentre acquisiamo prospettiva sul primo mega-scandalo (l’implosione nel 2001 di Enron-Arthur Andersen), le cause degli scandali aziendali cominciano ad essere più chiare.
Gli scandali non sono il risultato di un’esplosione nazionale di avidità, di disprezzo per la legge, di arroganza del potere, o di una falla vistosa nella corporate governance, anche se qualcosa di tutto questo è presente. La causa principale è l’eccezionale convergenza di tre tendenze, quel tipo di rara convergenza che produce quel che molti sono abituati a definire la perfect storm, la “tempesta perfetta”.
Una tendenza è la deregulation. L’ardore liberatorio che ha dominato gli anni Ottanta e Novanta ha avuto numerose conseguenze non volute. Rimuovendo le costrizioni legali che impediscono evidenti conflitti di interesse, la deregulation ha indotto alcuni dei guardiani dell’interesse pubblico a sacrificare i principi della loro professione per il proprio guadagno economico. La deregulation ha avuto la perversa conseguenza di trasformare i custodi – le società di certificazione, le banche d’investimento, gli studi legali, le authorities – in consulenti su scelte dubbie. Invece di dire un secco no ad iniziative discutibili, molti di questi presunti guardiani (come la molto rispettata, un tempo, società di certificazione Arthur Andersen) hanno invece detto: – Potreste fare in questo modo, e cavarvela –.
Insieme alla deregulation, c’è stato un secondo trend: l’abitudine crescente di legare la parte più sostanziosa del compenso di un top manager agli ondeggiamenti del mercato azionario. Quella di legare gli incentivi al valore delle azioni della società è diventata una pratica diffusissima. L’intenzione è di fondere gli interessi di chi governa l’azienda con quelli dei proprietari, cioè gli azionisti. È il modo più diffuso tra quelli che hanno trasformato in realtà la dottrina economica della shareholder value, del creare valore per gli azionisti.

In pratica, però, pagare i top manager con stock options che valgono potenzialmente decine di milioni di dollari, oltre a ottimi salari e benefit vari, si è dimostrato uno svilimento della teoria. Perché con somme così grandi in gioco, i top manager sono fortemente tentati di prendere scorciatoie, o addirittura di imbrogliare.
La pressione subita da un amministratore delegato per mettere il valore a breve termine delle azioni al primo posto, e contro eventualmente gli interessi di lungo termine dell’impresa, dei suoi dipendenti, e della società più in generale, diventa quasi irresistibile.
La terza, e più intangibile, tendenza è la continua immissione, nella vita dell’impresa, di comportamenti sociali dal contesto più vasto. È ironico pensare che il business americano, la cui tradizione più profonda è radicata nell’etica dell’interesse illuminato, si trovi ora prigioniero in una girandola di miopi interessi di breve periodo.
Tradizionalmente, l’interesse illuminato ha portato i leader d’impresa a cercare strategie che beneficiavano altri, oltre a loro stessi, ma le norme culturali degli ultimi anni hanno celebrato un’etica di vittoria solitaria – una concezione di vittoria intrisa di un darwinismo sociale a somma zero, dove se io vinco, tu perdi. La paura delle conseguenze della sconfitta fa parte di questa visione, e così ne fa parte una tendenza nascosta a “fregare il sistema”.
Molti dei grandi manager ritengono oggi una sfida – o addirittura un divertimento – riuscire a trovare astuzie e metodi per aggirare il sistema a proprio personale vantaggio.
Le considerazioni della perfect storm, o tempesta perfetta, nascono dalla convergenza fra queste norme “elastiche” provenienti dalla più ampia società, con la deregulation e la perversione del principio della shareholder value. La combinazione di queste forze crea una macchina da scandali. E la loro convergenza li ha resi quasi inevitabili.
Quale la cura? Sarebbe molto bello poter dire che adesso, alla luce della nostra esperienza con così tanti scandali, il nostro business sta finalmente prendendo la medicina in grado di guarirlo. Sfortunatamente, non è affatto così. La medicina che stiamo prendendo – una pesante dose di azioni legali e di nuova regulation – può essere necessaria, ma è ben lontana dall’essere sufficiente.
Leggi e regole di comportamento da sole non assicurano la buona condotta. Uno degli aspetti più frequenti degli scandali è stata la circonvenzione del sistema – l’uso di mezzi astuti per aggirare leggi e regole. Specialisti della contabilità e della certificazione cercano il modo di “limare” gli utili e aggirare regole ferree di contabilità. Gli esperti legali scoprono presto che un parere contrario all’uso di sistemi dubbi non procura né parcelle né gratitudine. Uno studio legale prospera solo quando i suoi avvocati sanno consigliare i clienti su come aggirare la legge. Senza un clima normativo che incoraggi l’osservanza di leggi e regole, chi è pronto e svelto sarà sempre più tentato di pattinare su un ghiaccio via via più sottile, con il rischio di sprofondare.
La storia dimostra che non si possono combattere cattivi comportamenti solo con la legge. Il fallimento del proibizionismo negli anni Venti – il tentativo piuttosto improbabile di usare la legge per impedire il consumo di alcolici – è soltanto uno degli esempi. Gli scandali recenti ci offrono una combinazione letale di cattivi comportamento e di cattive regole. La chiave per una riforma efficace sta nel combinare le regole e i comportamenti attesi – cioè i valori sociali – in modo che si supportino a vicenda nell’incoraggiare le imprese e i controllori a fare le cose giuste, e non quelle sbagliate.

 

   
   
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