Giugno 2007

Società AVANZATE

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La ricchezza è iniqua?
J. Bradford DeLong Economista, docente Berkeley University
 
 

 

 

Per avere scenari alternativi che avrebbero reso
il Sud del mondo più ricco,
ci sarebbe voluta una rivoluzione di vasta portata della psicologia umana.

 

La disuguaglianza è un problema? Prima che a questa, occorre rispondere a un’altra domanda: – Qual è il termine di paragone? –. Qual è, cioè, l’alternativa rispetto alla quale valutare il livello di disuguaglianza? La Florida, ad esempio, ha una forte disuguaglianza rispetto a Cuba. Ma il modo giusto per valutare la situazione non è dire che la Florida ha troppa disuguaglianza, ma che Cuba è decisamente troppo povera.
A livello globale, non ci sono ragioni valide per sostenere che la disuguaglianza è uno dei maggiori problemi politico-economici del pianeta. È difficile, almeno per quel che mi riguarda, immaginare sistemi politici alternativi o politiche economiche alternative, negli ultimi cinquant’anni, che avrebbero potuto trasferire una frazione significativa della ricchezza di quelle che oggi sono le Nazioni ricche a quelle povere.
Mi vengono facilmente in mente scenari “altri”, come le vittorie dei partiti marxisti in Italia e in Francia nelle prime elezioni del dopoguerra, che avrebbero reso più povere Nazioni che adesso fanno parte del ricco Nord del mondo.

Mi vengono in mente anche scenari alternativi che avrebbero reso più ricche Nazioni oggi povere, come ad esempio l’ascesa al potere in Cina di Deng Xiaoping vent’anni prima della data in cui è effettivamente accaduto, nel 1956 invece che nel 1976.
Ma per avere scenari alternativi che avrebbero reso il Sud del mondo più ricco, al prezzo di ridurre il benessere del Nord, ci sarebbe voluta una rivoluzione di vasta portata della psicologia umana.
Il fatto che alcune persone siano più ricche di altre, poi, non è qualcosa che dovrebbe farci perdere il sonno. Alcuni lavorano sodo, sono più abili ad applicare la propria intelligenza, o semplicemente sono sufficientemente fortunati da trovarsi al posto giusto al momento giusto. Ma non vedo sistemi politico-economici alternativi che siano in grado di stabilire una corrispondenza fra la ricchezza relativa degli individui e i loro meriti relativi, morali o di altro genere.
I problemi che si possono affrontare sono quelli della povertà e della protezione sociale – mettere a disposizione una rete di sicurezza – non quelli della disuguaglianza.
A livello di singole società, tuttavia, sono del parere che la disuguaglianza possa rappresentare un grave problema politico-economico. Negli Stati Uniti, chi aveva un titolo di studio universitario quadriennale trent’anni fa mediamente guadagnava il 30 per cento in più di chi non aveva frequentato l’università, mentre oggi guadagna il 90 per cento in più: questo, perché il sistema dell’istruzione non riesce più a sfornare in numero sufficiente lavoratori dotati delle competenze richieste dal mercato.
La conseguente scarsità di lavoratori con le qualifiche richieste è alla base dell’allargamento del divario salariale, che a sua volta costituisce il fondamento di una distribuzione più iniqua del reddito e della ricchezza.
Secondo alcuni studiosi dell’università di Princeton, nulla lascia pensare che quelli che ricevono un’istruzione inadeguata non studino perché l’istruzione non dà loro nessun vantaggio; anzi, un anno in più di scuola risulta più proficuo per le persone con un basso livello di istruzione che per quelle molto istruite. Se fossero stati fatti sforzi maggiori per elevare il livello medio di istruzione in America, il Paese sarebbe stato più ricco e avrebbe prodotto una distribuzione meno iniqua del reddito e della ricchezza, aumentando il numero di lavoratori istruiti e rendendo più difficile trovare lavoratori meno qualificati, che di conseguenza avrebbero visto crescere il proprio valore di mercato.
In modo analogo, amministratori delegati e simili, negli Stati Uniti, oggi guadagnano dieci volte di più rispetto a una generazione fa. Questo non perché l’impegno, le capacità amministrative e negoziali di uno di essi oggi valgano dieci volte più di un tempo, ma perché gli altri soggetti della comunità aziendale non sono più in grado di impedire ai top manager e ai finanzieri di accaparrarsi una fetta maggiore del valore aggiunto.
Schemi analoghi sono riscontrabili anche in altri Paesi. All’interno di ogni Stato, l’aumento della disuguaglianza che ha caratterizzato la passata generazione è in primo luogo il risultato del fallimento degli investimenti sociali e dei cambiamenti della normativa e delle aspettative, e non è stato accompagnato da alcuna accelerazione del tasso di crescita economica generale. Sembra che questi cambiamenti dell’economia e della società non abbiano prodotto maggiore ricchezza, ma solo una ridistribuzione della ricchezza verso l’alto: una lotta di classe vinta dai conservatori.
Questo tipo di disuguaglianza dovrebbe costituire ragione di preoccupazione. Milionari e miliardari in dollari sono brillanti, grandi lavoratori, intraprendenti e giustamente ricchi. Ma solo il primo ventesimo della loro ricchezza può essere giustificato come incentivo economico per incoraggiare l’intraprendenza e l’iniziativa. Il restante creerebbe molta più felicità e opportunità se fosse diviso equamente fra i cittadini americani, che se fosse consumato, non importa in quale misura, da coloro i quali lo detengono. Una società disuguale non può essere altro che una società iniqua. La ricchezza della merce che un genitore cerca di acquistare, in qualsiasi società, è una posizione di vantaggio per i propri figli. E più è ricco il genitore, più grande sarà questo vantaggio. Per questo le società che promettono uguaglianza di opportunità non possono permettere che la disuguaglianza di successo diventi troppo grande.

 

   
   
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