Giugno 2007

MERCATI DI IERI E DI OGGI

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Equilibrio globalizzato
Jeffry A. Frieden Docente Harvard University
 
 

 

 

Per non fermare
il treno della
globalizzazione,
indispensabile sarà un delicato gioco di equilibrio, simile a quelli
il cui fallimento
ha già provocato
tante calamità.

 

Il capitalismo globale è sostenibile nella sua forma attuale, oppure sono necessarie nuove regole di governo a livello internazionale? Guardare alla globalizzazione del passato può aiutarci a rispondere. Nei cinquant’anni che precedettero il 1914 l’economia mondiale si era integrata, e soltanto di recente siamo tornati ai livelli di allora. Perché la globalizzazione ha impiegato tanto tempo prima di farsi rivedere in scena? La globalizzazione odierna è forse più fragile? Se così fosse, si dovrebbe dedicare una maggiore attenzione ai delicati equilibri tra potenziali vincitori e potenziali vinti, tanto negli Stati Uniti che in Europa.
La prima globalizzazione funzionava in modo semplice quanto brutale. La partecipazione di quasi tutti i Paesi, tranne la Cina e la Persia, al gold standard rendeva salari e prezzi estremamente flessibili: non era insolito che scendessero del 30-40 per cento in tre-cinque anni. Allora predominavano le imprese di piccole dimensioni, e i lavoratori non erano organizzati; quando la domanda scendeva e la disoccupazione aumentava, prezzi e salari diminuivano.

Prima del 1914 la democrazia era l’eccezione, non la regola, e anche gli ordinamenti politici più rappresentativi limitavano il suffragio a una parte (un terzo, e in alcuni casi ancora meno) della popolazione. Negli anni Venti il meccanismo di aggiustamento classico si inceppa. I progressi in campo economico e politico ostacolano ora, invece di agevolarli, i processi di aggiustamento che adattavano le economie nazionali alle condizioni internazionali. Nei Paesi industriali predominano le grandi aziende e si affermano le organizzazioni dei lavoratori; gli operai si sono conquistati il diritto alla contrattazione collettiva. Sia le aziende sia i lavoratori sono così in grado di contrastare l’azione delle forze di mercato: questo era lo scopo dichiarato dei sindacati e l’effetto reale dell’oligopolio.
Cambiamenti analoghi erano avvenuti in politica. L’estensione del suffragio cambia in modo radicale l’equilibrio politico delle moderne società industriali. Gli operai in Europa ormai erano rappresentati da grandi partiti socialisti e comunisti; molti partiti socialisti europei negli anni Venti partecipavano alle coalizioni di governo. I leader non potevano più aspettare che l’economia andasse a posto per conto suo; ora dovevano fare i conti con le richieste degli operai, dei contadini e dei ceti medi (ci fu chi le ignorò, ma con le ripercussioni terribili che sappiamo).
Oggi per vincere le resistenze alla globalizzazione ci si affida soprattutto al tentativo di convincere la gente che le difficoltà non sono niente in confronto ai benefici a lungo termine portati dall’integrazione economica internazionale. I benefici complessivi, però, sono accompagnati da costi pesanti. Nei Paesi sviluppati i lavoratori qualificati temono l’abbattimento delle barriere commerciali verso i Paesi ricchi di manodopera non qualificata.
Negli Stati Uniti due tendenze importanti hanno implicazioni gravi per il ruolo dell’America nel mondo, e di conseguenza per il futuro della globalizzazione. La prima è il deterioramento nella distribuzione del reddito: dopo decenni di arretramento della disuguaglianza, la sperequazione è cresciuta in modo pressoché continuo dal 1973 ad oggi. Negli ultimi quindici anni la posizione relativa dei lavoratori non qualificati si è stabilizzata (a un livello molto più basso di un tempo), ma il reddito delle fasce medie continua a diminuire rispetto alle fasce ricche. Il fattore che più ha inciso è determinato dai compensi ai manager.
L’ostilità verso l’immigrazione e le importazioni dai Paesi poveri è motivata in parte dai timori dei lavoratori americani non qualificati, che vanno a unirsi all’apprensione diffusa nella classe media, soprattutto ora che sono a rischio anche molti posti di lavoro nel settore dei servizi, prima considerati al riparo dalla globalizzazione. I lavoratori a medio reddito potrebbero risentire dell’afflusso di immigrati qualificati, specialmente nei settori ad alta tecnologia. Questa pressione rafforza ulteriormente la tradizionale ostilità nei confronti degli incrementi delle tasse, soprattutto quando è abbinata alla percezione che i ricchi «non stanno facendo la loro parte».
La seconda tendenza importante dell’economia Usa è quella che il resto del mondo chiama “squilibrio macroeconomico globale”. Due componenti, la politica fiscale e l’afflusso di capitali dall’estero, hanno giocato un ruolo fondamentale nell’espansione economica americana. Questo afflusso di capitali, fra le altre cose, ha mantenuto il dollaro più forte. La forza relativa del dollaro è stata associata, negli ultimi dieci anni, a un incremento dei prezzi di beni non scambiabili, in particolare degli immobili. L’espansione del mercato immobiliare, a sua volta, ha contribuito a un generale sentimento di prosperità, che ha in parte mitigato l’insoddisfazione per l’aumento della disuguaglianza. Il boom dell’immobiliare ha avuto un effetto importante in termini di benessere, consentendo a molti americani della classe media di ottenere soldi in prestito offrendo come garanzia il valore sempre maggiore dei loro immobili.
Gli squilibri attuali consentono agli Stati Uniti di vivere al di sopra dei propri mezzi, ma sono insostenibili. Quando non reggeranno più, le tensioni latenti relative alla globalizzazione quasi certamente aumenteranno.
Che cosa occorre fare, allora, per non far fermare il treno della globalizzazione? Innanzitutto, evitare di far troppo affidamento sulla capacità del mercato di risolvere tutti i problemi, e sul sostegno di chi trae beneficio dall’economia globale. Ma è necessario anche evitare di arrendersi ai fautori del protezionismo. Sarà indispensabile un delicato gioco di equilibrio, simile a quelli il cui fallimento ha già provocato tante calamità.
La prima cosa da fare è costruire e mantenere in funzione un ordine politico ed economico internazionale funzionante e integrato. Sarà sottoposto a minacce continue, sia da parte dei tradizionali avversari economici, sia da parte di una vasta gamma di forze geopolitiche, ideologiche, religiose, che si oppongono all’economia globale per principio o per interesse. I fautori di un’economia internazionale aperta debbono lavorare di concerto per costruire una struttura di governo stabile ed efficace per le interazioni economiche internazionali.
La seconda parte del gioco di equilibrio consiste nel creare e mantenere condizioni politiche ed economiche interne che consentano un sostegno duraturo agli impegni internazionali. Questo comprende la consultazione dei gruppi sociali interessati, l’introduzione di compensi per i gruppi ai quali viene richiesto di sacrificarsi, interventi mirati per rendere più facili le transizioni, e tutto ciò che occorre per mantenere la stabilità politica e sociale necessaria perché le economie politiche nazionali possano raccogliere i frutti dell’integrazione economica internazionale.
Non esiste una formula magica che renda facile ai governi combinare impegno all’apertura economica e attenzione ai timori legittimi degli elettori nazionali danneggiati dall’economia internazionale. È impossibile individuare in anticipo le politiche ideali per un qualsiasi gruppo o Paese: questo è un compito che spetta ai sistemi politici nazionali. In base all’esperienza del secolo passato, però, sappiamo che la posta in palio è nientemeno che la pace e la prosperità di milioni di persone in tutto il pianeta.

 

   
   
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