Giugno 2007

IL PUNTO SULL’IMPERO

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Tramonto americano?
Niall Ferguson Docente Oxford (Uk) e Harvard (Usa)
 
 

 

 

Il presidente
americano ricorda l’imperatore Traiano, uno che oltre tutto avrebbe qualcosa da
insegnargli
anche sull’Impero Persiano.

 

Secondo i miei calcoli, l’Impero Romano, nelle sue diverse incarnazioni, è durato circa 829 anni; quello Ottomano 469, dal 1453 al 1922; quello Absburgico 392, dal 1526 al 1918; quello Britannico 336, dal 1620 al 1956; quello Russo dei Romanov 304, dal 1613 al 1917; quello Cinese Qing 267, dal 1644 al 1911; quello Moghul 235, dal 1526 al 1761; anche quello Persiano Safavid 235, dal 1501 al 1736; quello Egizio 365. Un minor numero di anni durarono altri Imperi (ma Impero, per alcuni, è termine improprio): 69 anni quello Russo-Bolscevico, dal 1922 al 1991; 49 anni quello Giapponese, dal 1895 al 1944; 6 anni quello Tedesco-Hitleriano, dal 1939 al 1945. È operante quello Cinese, iniziato nel 1949.

Poco più che centenario, (contando la guerra contro gli spagnoli del 1898 come data della sua nascita), l’Impero Americano invece sembra dare già segni di cedimento. Occhio di spia, il fenomeno più pericoloso, che è la negazione a tutti i livelli del proprio ruolo nel mondo. Tra i progressisti statunitensi è possibile parlare di Impero solo se si deplorano le azioni militari degli Usa; mentre con i conservatori si può menzionare l’aspetto benefico del potere americano, a patto che non lo si descriva come imperiale. Quello che non si può dire è che gli Stati Uniti siano un Impero, e che questa cosa non sia in fondo così terribile.
Va subito detto che uno dei più grandi problemi che affliggono l’America è l’incapacità di imparare dalla storia, che può insegnare molte cose. Prima fra tutte: l’Impero Americano è per molti versi l’erede di quello britannico. Basti pensare che, nel 1917, il generale Frederick Stanley Maude entrò a Baghdad e diffuse un proclama in cui disse di essere arrivato non come conquistatore, ma come liberatore del Paese.
Parole che ci suonano familiari. E per questa ragione è difficile credere al presidente americano quando dice che la missione democratizzatrice americana nel Vicino Oriente si differenzia da quella degli Imperi precedenti. I suoi ideali di libertà in realtà somigliano molto a quelli vittoriani di civilizzazione che ispirarono l’esperienza britannica.
Sebbene ne siano convinti, gli americani non rappresentano un’eccezione: da sempre gli Imperi anglofobi usano la parola freedom, libertà, per proclamare la propria diversità dagli Imperi precedenti. Ma d’altra parte, se avesse guardato bene alla storia, il presidente americano non si sarebbe stupito neanche della resistenza incontrata dai soldati della coalizione.
Accadde lo stesso agli inglesi. Nel 1920, in Mesopotamia, scoppiò una rivolta antibritannica molto simile a quella antiamericana esplosa nel 2004. Anche allora l’insurrezione ebbe origini religiose, ma presto trascese le divisioni settarie ed etniche, passando dalle moschee di Baghdad alla città sacra sciita di Garbala, dove contro i soldati di Sua Maestà era schierato un ayatollah, Muhammed Taqi al-Shirazi, che ricorda molto Moqtada al-Sadr di oggi.
Ma le similitudini non finiscono qui. Perché, mentre gli americani hanno esitato a combattere le milizie sciite e gli insorti nel triangolo sunnita, aprendo così la strada al caos che domina l’Iraq odierno, gli inglesi non si fecero molti scrupoli. Arrivarono rinforzi, e i villaggi ribelli vennero rasi al suolo dai bombardamenti. Churchill autorizzò anche l’uso di armi chimiche, se fossero state necessarie, ma non fu il caso. E nonostante questo, le sue truppe subirono perdite fortissime, oltre 2.000 tra uccisi e feriti. Dettaglio non trascurabile: i soldati britannici rimasero in Iraq fino al 1956. Ci vollero quarant’anni per rendere funzionante quel Paese!
La lezione più importante che si può trarre da questa esperienza è che non è possibile intraprendere un’impresa come la guerra in Iraq, pensando di poterla portare a termine nell’ambito di un ciclo elettorale, vale a dire nel giro di quattro anni.
Ma ritornando all’Impero, come descrivere quello americano? È un Impero informale. Non ha vasti territori all’estero, come l’Impero spagnolo-portoghese, ma può proiettare il proprio potere in una dimensione globale mai sperimentata prima nella storia. Non si tratta solo della volontà di esportare la propria cultura e il proprio modello economico: gli americani possono intervenire anche militarmente ovunque nel mondo.
Ci sono stati altri Imperi dalle frontiere poco definibili come quello americano. Ma la vera differenza è che mentre tutti gli Imperi del passato celebravano la propria esistenza, gli americani la negano.
Questo fenomeno dipende certamente dal fatto che gli Stati Uniti sono nati da una guerra antimperialista: è difficile accettare che ora si siano invertiti i ruoli. Ma a guardar bene, per i primi cent’anni della propria esistenza gli americani non avevano problemi ad annettere territori, mentre si espandevano a ovest. Ed è stato soltanto dopo il fallimento nel colonizzare le Filippine che presidenti come Woodrow Wilson e Franklin Delano Roosevelt hanno ripudiato apertamente il proprio ruolo imperiale.

Ora, nel corso della storia gli Imperi sono finiti o per la resistenza che hanno incontrato, oppure per l’emergere di altri poteri egemonici. Ebbene: nessuna di queste due condizioni rappresenta – almeno al momento – un ostacolo per gli americani. Il loro problema sono le costrizioni interne. Che sintetizzo in tre grandi deficit: quello militare, quello finanziario e quello di attenzione della sua opinione pubblica.
Per il primo deficit: è vero che gli Stati Uniti, da soli, sono responsabili del 40 per cento della spesa mondiale per la difesa. Ma se si vanno a contare i soldati, quello americano è l’Impero che ha l’esercito più piccolo della storia. Il Dipartimento della Difesa americano può contare su un personale di circa un milione e 400 mila persone, percentuale molto bassa se si conta una popolazione di 300 milioni. Cifra ancora più inaccettabile, se si pensa che la maggior quota di questa armata se ne sta a casa: in Iraq oggi c’è un soldato americano ogni 210 abitanti; i britannici, nel 1920, ne avevano uno ogni 23 iracheni. Gli americani, poi, “ruotano” in continuazione i loro soldati, che anche per questo non possono imparare la lingua o raccogliere intelligence.
Per quel che riguarda tutti i soldi stanziati per la difesa, se ne vanno in armamenti. Ma con aerei, tank e droni non si governa un Paese. E se si considerano realisticamente le cose, a partire dal 2001 gli Stati Uniti hanno speso molto più nei tre tagli delle tasse operati da Bush e per il welfare, che non per la guerra: solo un terzo dell’immenso deficit statunitense è ascrivibile alla spesa per gli interventi in Iraq e in Afghanistan. In termini storici, queste non sono guerre costose: quando l’economista Joe Stiglitz dice che l’intervento sta costando tra 1 e 2 mila miliardi di dollari, omette di menzionare che questa cifra in apparenza mostruosa corrisponde all’1,1 per cento del Prodotto interno lordo americano. Sempre in termini storici, queste guerre sono molto più economiche di quelle in Corea e in Vietnam, e non c’è paragone con la Seconda Guerra Mondiale.
Questa rappresentò l’apice dell’Impero Americano, almeno per quanto riguarda il potere economico e militare. Alla fine di quello sterminio planetario, gli Stati Uniti esercitavano un dominio imperiale non solo su vasti tratti del Continente europeo, ma anche in Asia. I due “regimi canaglia” della storia del XX secolo, Giappone e Germania, erano sottoposti all’occupazione americana il primo, a quella alleata l’altra. Eppure, proprio in quel momento, Roosevelt negò il proprio ruolo e diede inizio alla dinamica che marcò la guerra fredda: la rivalità tra due Imperi, l’Americano e il Sovietico, che comunque negavano di esser tali.
È piaciuto pensare al 1989 come al gran finale del XX secolo, come al momento che ha marcato il trionfo dell’Ovest in un gran lieto fine. Ma sono bastati pochi anni a smentire quella lettura degli eventi. Sicuramente l’11 novembre 1989 fu più importante dell’11 settembre 2001: gli attacchi contro New York e Washington non fecero altro che rivelare agli americani quello che gli europei già sapevano, e cioè che in tempi di globalizzazione il lavoro dei terroristi è sempre più facile e le loro imprese sono sempre più devastanti. E tuttavia io sostengo che un punto di svolta infinitamente più importante per la storia americana e mondiale è stato il 1979. Perché in quell’anno Deng Xiaoping visitò gli Stati Uniti, l’ayatollah Ruhollah Khomeini prese il potere in Iran e l’Unione Sovietica invase l’Afghanistan. Cioè: da un lato fu l’inizio della rivoluzione del libero mercato in Cina; dall’altro, si avviò l’espansione del radicalismo islamico.
La situazione nel Vicino e nel Medio Oriente oggi ricorda molto quella in Europa centrale nel 1939: non è arduo immaginare lo scoppio di una guerra molto maggiore dei conflitti cui ci hanno abituato quelle regioni del mondo, specie se l’Iran dovesse acquisire la bomba nucleare. Gli avvenimenti che hanno caratterizzato lo scoppio di grandi conflitti nel XX secolo ci sono tutti: volatilità economica, disgregazione etnica, e un Impero in declino, come gli Stati Uniti.
Si dice che senza l’America la situazione mondiale migliorerebbe. In realtà, la storia insegna il contrario: i periodi di apolarità sono quasi sempre preludio al caos. E non si intravedono per ora potenze emergenti in grado di sostituire il ruolo americano. Non l’Europa, che è appesantita dall’invecchiamento della sua popolazione. E io dubito anche della Cina: è molto difficile che superi questo periodo di rapida industrializzazione senza almeno una crisi finanziaria. La Russia potrà far pressioni con il petrolio. Ma dietro l’angolo già si profilano le fonti energetiche alternative...
Tornando alla lezione della storia. L’attuale presidente americano mi ricorda l’imperatore Traiano, uno che oltre tutto avrebbe qualcosa da insegnargli anche sull’Impero Persiano. Traiano fu quello che coniò la frase panem et circenses: lasciò che i romani si divertissero, mentre le sue legioni erano impegnate in guerre sanguinose. Fu lui ad espandere l’Impero Romano oltre le proprie capacità di controllo, fino alla Mesopotamia. Quando morì, gli successe Adriano.
E come Adriano, il prossimo presidente americano sarà costretto a ridimensionare il proprio Impero. Anche se questo non significa che l’Impero Americano sia necessariamente vicino alla data di scadenza: può continuare ad essere una forza egemonica per decenni, soprattutto se impara a fare le piccole guerre che finora si sono dimostrate le più difficili da vincere. Anche se dovette ritirare le proprie truppe, l’Impero di Roma fu ancora molto potente sotto Adriano. Credo che lo stesso accadrà per gli Stati Uniti.

 

   
   
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