Dicembre 2006

L’inno italiano

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Mameli?
Sergio Bello
 
 

 

 

 

Con chi ce l’ha?
Quasi senza dubbio con Mameli.
Che il professore non accusa
apertamente
del furto per pietà cristiana.

 

Proprio niente da fare: neanche la sedicesima legislatura italiana ha messo un sigillo sull’inno ufficiale. Quello di Mameli era e rimane un inno provvisorio. Infatti, adottato come puro e semplice inno militare, in sostituzione della “Marcia reale” sabauda il 12 ottobre 1946, vale a dire quattro mesi dopo la partenza del re Umberto II per l’esilio in terra portoghese, da un provvedimento d’urgenza del governo di Alcide De Gasperi, l’inno era rimasto per circa mezzo secolo di storia repubblicana senza un ruolo e senza una precisa definizione istituzionale. Al punto che, nel settembre 2002, alcuni deputati della maggioranza del tempo presentarono una proposta di legge di un unico articolo: “La Repubblica Italiana riconosce l’Inno di Mameli quale inno ufficiale della Nazione”. La formulazione era leggermente infelice, dal momento che un inno non è mai “della Nazione”, ma dello Stato. Comunque, era tutt’altro che difficile porre rimedio allo svarione.
I proponenti ritenevano di avere il vento in poppa e di poter procedere celermente, anche perché dall’elezione alla presidenza della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi stava spendendo tutto se stesso per rivalutare il Risorgimento e i simboli dell’Unità del Paese e dello Stato italiano: altare della Patria, bandiera tricolore e, appunto, il nostro inno. Sicché il 10 gennaio 2003 un parlamentare presentò alla stampa lo stringato disegno di legge, sicuro di andare immediatamente in porto con decisione unanime (o comunque con stragrande maggioranza) e con la benedizione del Colle.

E invece no. Soltanto il 17 novembre 2005 un altro parlamentare lo illustrò alla Commissione Affari Costituzionali del Senato. Dopo di che, calma piatta. La discussione del disegno di legge comparve nell’ordine del giorno del Senato alla vigilia dello scioglimento delle Camere, il 10 febbraio. Ma altri provvedimenti erano ritenuti più urgenti, e l’Inno di Mameli rimase al palo. Con una serie di conseguenze per lo meno curiose, a partire dal mondo sportivo. Ad esempio, gli azzurri premiati alle Olimpiadi di Torino non solo non sapevano di cantare, sul podio, un inno che era rimasto provvisorio, ma ignoravano persino che, con ogni probabilità, l’autore non è per nulla quello che avevano imparato a conoscere (se avevano studiato la lezione) sui banchi di scuola.
Tradizione vuole che l’inno sia stato scritto nell’autunno 1847 da Goffredo Mameli. Ma chi era costui? Di famiglia nobile, nacque a Genova il 5 settembre 1827. Il nonno, il cagliaritano don Antonio Vincenzo, nato nel Palazzo di Corte il 7 maggio 1784, venne riconosciuto cavaliere e nobile da Vittorio Amedeo III, re di Sardegna.
Intrapresi gli studi nel collegio genovese dei Padri Scolopi (le scuole pie fondate dallo spagnolo San Giuseppe Calasanzio), Goffredo progredì regolarmente fino ai 15 anni. Il 29 giugno 1843 venne alle mani con il diciottenne Giuseppe Lullin, sicché fu sospeso dagli studi. Li riprese il 15 novembre di due anni dopo. Nell’agosto 1846 fu ammesso al primo anno di Legge.
E a questo punto veniamo a conoscenza del primo dato interessante. Cioè a un dettaglio stranamente taciuto da tutti i suoi biografi, da Anton Giulio Barrili (che per primo ne pubblicò le poesie) a Giosuè Carducci e a Giulio Cesare Abba: a metà del mese di settembre del 1846 Goffredo fu condotto da padre Raffaele Ameri al collegio scolopio di Carcare, presso Cairo Montenotte (in quel di Savona). Carcare ebbe allievi illustri, dall’economista Piero Sbarbaro a Luigi Einaudi, poi presidente della Repubblica. Si ambientò presto e bene, come lo stesso padre Ameri ebbe occasione di scrivere al confratello Muraglia. E Goffredo stesso, il 9 settembre 1846, lo confermò a Giuseppe Canale. Proprio a Carcare Mameli frequentò padre Atanasio Canata (1811-1867), un intellettuale di grande spessore culturale, sul quale vale la pena di soffermarsi un po’.
Nativo di Lerici, in provincia di La Spezia, Canata aveva temperamento focoso. Autore di prose e tragedie, scrisse anche poesie, nel 1889 raccolte in due volumi.
I suoi versi grondavano Cristianesimo liberale e amor di patria. Ispirato da Vincenzo Gioberti e dall’ideologia guelfa, Canata scommetteva sull’indipendenza e sull’unione degli italiani. Infatti, nei suoi componimenti ricorrono tutti i materiali che troveremo presenti nel canto nazionale (attribuito a Mameli) e che fa riferimento ai fatti del 1846: la sanguinosa repressione austriaca dei polacchi in Galizia e il festeggiamento di Balilla a Genova (settembre 1846).
Torniamo a Mameli. Il 10 novembre 1847, il baldo studente mandò il canto nazionale all’amico compositore Michele Novaro, che lo ebbe mentre era a Torino, in casa del democratico Lorenzo Valerio. Con il cuore in tumulto, Novaro si precipitò a musicarlo. Corse a casa, scrisse le note di quello che dovrebbe di conseguenza essere l’ “Inno di Novaro”. Concitatissimo, versò la lucerna, danneggiando irrimediabilmente il foglio dell’amico, perduto per sempre.
Del canto abbiamo un paio di versioni. Esaminate senza paraocchi apologetici, risultano copie di un originale non pervenuto. La prima, conservata al Museo del Risorgimento di Genova, inizia: “Evviva l’Italia, l’Italia s’è desta...”. Nella seconda copia (al Museo del Risorgimento di Torino), si legge invece a sinistra “Fratelli d’Italia…” e, a destra, nella stessa pagina, “Evviva l’Italia, dal sonno s’è desta…”. Fra le prime edizioni a stampa, (Modena, 1848), quella della tipografia Andrea Rossi precisa: «Parole di Mammelli, musica del Maestro Novella (Piemontesi)».
In attesa della visita di leva, da Novi Ligure, il 15 ottobre 1847, cioè proprio quando avrebbe scritto il canto nazionale, Goffredo spiegò alla madre il suo ideale di vita: «Io mangio per quattro, dormo molto, non faccio nulla, penso meno». Rifiutò l’arruolamento e si fece surrogare. Poi partì volontario, accorse a Roma. Nella difesa della Repubblica il 3 giugno 1849 venne colpito da un commilitone alla gamba sinistra (mai chiarito se con baionetta o proiettile). La ferita suppurò. Giuseppe Mazzini benedicente, l’arto venne amputato. Il 4 luglio i francesi entrarono in Roma. Il 6 Goffredo morì. Padre Ameri gli impartì il viatico e ne curò la sepoltura. Il Risorgimento era e rimaneva cristiano.
È a questo punto che dobbiamo tornare a padre Canata. Infatti, a leggere la sua opera più importante, Inferno, Purgatorio e Paradiso d’Italia, ci si accorge che il poeta lamenta un duplice disinganno: la rottura dell’unità d’azione di papisti e patrioti, e il furto di una poesia. Parlando di sé in terza persona, scrisse: “A destar quell’alme imbelli / meditò robusto un canto, / ma venali menestrelli / si rapina dell’arpe il vanto: / sulla sorte dei fratelli / non profuse allor che pianto, / e aspettando nel suo cuore / si rinchiuse il pio cantore”. Il testo è chiaro: Canata accusa “venali menestrelli” di avergli rubato il testo del canto. Con chi ce l’ha?
Quasi senza dubbio con Mameli. Che il professore non accusa apertamente del furto per pietà cristiana e per rendere omaggio al conforto religioso chiesto dal giovane nel momento della morte, visto che il patriota veniva dipinto come massone anticlericale. Del resto, dovette pensare Canata, l’inno parla da sé. Esprime un pensiero adulto: “Uniamoci, amiamoci; / l’unione e l’amore / rivelano ai popoli / le vie del Signore”. Parole di pedagogo. Nella versione conservata alla Società economica di Chiavari, il canto inizia: “Oh, Figli d’Italia…”. Non è voce di un ventenne scapestrato e sgrammaticato, com’era Mameli. La vera storia dell’inno resta dunque ancora tutta da scrivere.

 

   
   
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