Dicembre 2006

L’idra delle riforme e la cultura del declino

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Il derby infinito
Claudio Alemanno  
 
 

 

 

Per una società aperta
e competitiva
c’è bisogno
di innovare nei contenuti della
politica, uscendo dal pantano
che ci obbliga
a galleggiare
tra patriottismo
di partito e oblio della nazione.

 

«Colui che non prevede le cose lontane si espone a infelicità ravvicinate». Dedichiamo questa massima di Confucio alle armate della conservazione, ai nuovi gladiatori, custodi dei “diritti acquisiti”. Il canovaccio non cambia. Con ogni maggioranza di governo vince sempre il partito del rinvio, la vocazione a scaricare sulla maggioranza di riserva l’onere impopolare del cambiamento. Impopolare per carenza di messaggio e di coinvolgimento.
Gli italiani della mia generazione hanno trascorso gran parte della loro vita a confrontarsi e dividersi tra un Dio-Capitale e un Dio-Stato, cercando di accaparrarsi una tranquilla collocazione nel conflitto quotidiano tra le classi marxiste. Questo spartito è ingiallito ma non defunto, scavalcato da un pluralismo borghese che essendo chiamato ad elaborare nuovi punti di equilibrio tra welfare e workfare usa ancora cornice politica, organizzazione e registri di comunicazione ancien régime. Non c’è più la guerra ma neanche la pace, domina il cinico disincanto delle rivoluzioni mancate. Senza martiri, senza eroi, senza fedeli. Le liberalizzazioni imposte dalla globalizzazione hanno ibridato i motivi di divisione e annacquato il confronto. Ma lo spartiacque resta quello di sempre: da una parte i promotori di una volontà riformatrice, dall’altra i sostenitori dell’ordine costituito che vedono in ogni tentativo di mutamento un vulnus tecnico e giuridico, cioè un attacco al feudo dei micropoteri.

Si usa dire che la società civile viaggia con passo più spedito della società politica. Questo luogo comune trova l’ultima smentita nelle grida manzoniane di tassisti, notai, avvocati, farmacisti e altri aderenti a gruppi e ordini professionali. Su questo nuovo e inedito fronte caldo l’umore popolare resta neutro, essendo tutti abituati a subire con distacco le anomalie prodotte dalle logiche di apparato.
Se questo è il menu occorre lavorare parecchio per dare concretezza alla mission impossible, alla necessità di creare le infrastrutture del cambiamento superando l’ennesimo nulla di fatto. Il governo ha provato a gettare un sasso nello stagno, ma si è trovato subito sul tavolo un contenzioso insidioso. In termini di sistema, gli ordini professionali sono corporazioni importanti sotto il profilo organizzativo ma modeste rispetto ai potentati che gestiscono i servizi pubblici essenziali (acqua, luce, gas, trasporti). Sono il fiore all’occhiello di una società parcellizzata, la proiezione fedele di un centralismo interessato al controllo di ogni interesse organizzato. Si capisce perché la decretazione d’urgenza (un ukase a freddo) abbia prodotto effetti traumatici introducendo nel sistema politico-istituzionale fantasmi lasciati sempre fuori dalla porta.
In verità, bisogna ancora vederci chiaro. Bisogna capire se l’iniziativa del governo è dettata da un’esigenza catartica dovuta a crisi di coscienza, con virata decisa verso schemi organizzativi di società aperte e competitive, o se si tratta di un semplice tassello della comunicazione per dare forza al messaggero più che al messaggio.
Comunque, non si può chiedere improvvisamente di diventare eretici agli iscritti e ai responsabili degli ordini professionali. Il campanello d’allarme dovrebbe però allertarli, portandoli a fare qualche riflessione sul tasso di rendimento sociale dei loro organi istituzionali.
La responsabilità d’istituto dovrebbe poi sollecitare queste cittadelle ad aprirsi ad un forte dibattito interno per valutare a mente fredda vantaggi e rischi di una navigazione in mare aperto. Elaborando istruzioni per un ammaraggio morbido degli iscritti e una sorta di “agenda della pace” da discutere con l’interlocutore politico. Potrebbero gestire in prospettiva importanti centri di formazione, elevando il livello delle qualità professionali, assumendo il ruolo inedito e prestigioso di key manager.

Manca la sensibilità per qualcosa che Guido Calogero chiamava «civiltà del dialogo».
L’interesse del governo è un segnale importante se si legge nella prospettiva di una svolta di costume. Perciò ha destato la nostra curiosità, subito raffreddata da forti perplessità di metodo. L’approccio a questa riforma (le altre sono meno visibili) risulta palesemente maldestro se ha per obiettivo la rimozione di un simbolo dell’Italia parcellizzata. In una democrazia complessa i problemi di metodo sono questioni di sostanza. Con l’avvertenza che il mito della concertazione non può essere applicato a senso unico, come una sorta di sindacalizzazione permanente del percorso di formazione delle regole. Nelle società competitive sono salvaguardati pluralismo e autonomia degli attori sociali che li portano a costituirsi in lobby (negli Usa non esiste la Confindustria-Sindacato come noi la conosciamo, ma tante libere lobby industriali che fanno sentire la loro voce, ma non hanno incidenza diretta sulle decisioni dell’Esecutivo).
Il cambiamento resta stella polare di ogni strategia di governo e pone tutti davanti ad un bivio. O viene imposto in modo ruvido dalla esasperazione delle diseguaglianze, oppure viene pilotato assicurando crescita, efficienza ed equità al sistema. Nel contesto di un radicalismo economico globalizzato il “fare niente”, immaginato con ottimismo, può condurre solo ad un Paese più ricco, con gente più povera (accade già con la delocalizzazione). Occorrono nuove sensibilità non abituate agli alambicchi del collage, per una cabina di regia coesa nelle finalità e nelle strategie.
A noi pare di vedere in ogni tentativo di nuovi percorsi politici l’ipotesi di vecchie incrostazioni. Un esempio è dato dalla voglia spasmodica di rivalsa. La regola “Papa bolla, Papa sbolla” ha vissuto intimi travagli conciliari e prudenti valutazioni di lungo periodo. Un segnale di continuità è sempre manifestazione di maturità nell’arte di governo. Andrebbe valutato con attenzione dalle nostre truppe parlamentari, facili prede del protocollo riforma/controriforma.
La pluralità degli interessi e dei centri di potere è fuori discussione, è un dato fisiologico delle moderne democrazie. L’anomalia italiana nasce dal fatto che il dato fisiologico non coincide con quello funzionale, insidiando e rallentando sotto ogni bandiera l’azione di governo. La società civile usa ancora il “noi” e il “loro” rendendo difficile l’approdo a logiche razionali di comportamento dove il disincanto non sia sinonimo di disimpegno.
Un altro esempio riguarda le difficoltà di comunicazione e le metafore di effetto sull’immaginario. Un tema per linguisti e cultori di semiologia. Imposte e tasse procurano afflizione e senso d’impotenza, un impatto deprimente per il cittadino. L’idea di un fisco tradizionalmente vessatorio potrebbe essere sostituita da altre idee più educative. Si potrebbe parlare di “quote associative” e si potrebbero costruire utili relazioni tra ricchezza tassabile e impegno sociale (musei, sanità, scuole, ecc.).
Per una società aperta e competitiva c’è bisogno di innovare nel linguaggio e nei contenuti della politica, degli interessi e della solidarietà collettiva, uscendo dal pantano che ci obbliga a galleggiare tra patriottismo di partito e oblio della nazione.
Qualche animo nobile sostiene che per andare in questa direzione si deve liberalizzare il bipolarismo, in vista di un “cartello civico” che esprima una leadership con caratura diversa dall’attuale formula di concerto dei capipopolo. Non sappiamo se questa sia la strada da battere. Possiamo solo testimoniare che nei salotti smart, una sorta di Olimpo “de noantri”, frequentati da vogatori della politica e da borghesi in blazer, trovi sempre un bue che dà del cornuto all’asino offrendo il brivido di una mondanità di quart’ordine e la certezza di rissosità e spaccature insanabili.
La modernizzazione può attendere se le riforme brillantemente disegnate quando approdano in Parlamento (caso ancora raro) entrano in groppa a un dromedario ed escono in groppa a un cammello. Non a caso il pensiero sociologico ci cataloga tra i nuovi ultimi quando studia l’antropologia della globalizzazione. Sempre in bilico tra peccato e santità, assimilati ai bari del Caravaggio più che ai tranquilli paesani di Cézanne.
Il primato del cittadino-consumatore resta una conquista lontana in una società in cui è più facile parlare di marchi che di persone, di evasione fiscale più che di erosione sociale. Far passare il messaggio di una natura plurale e non corporativa dei gruppi organizzati che danno vita al mercato e alle nostre istituzioni è compito della politica. Come il chirurgo estetico che di fronte ad una bella donna segnata dal tempo per avere successo deve trasformarsi in medico dell’anima. Nei corpi sociali un sentimento collettivo conta più delle utopie politiche.
Ancora una volta ha ragione il saggio per il quale non contano le carte che si hanno ma come si gioca la partita. Previsioni per il futuro? Citiamo un pensiero che Norberto Bobbio era solito ripetere spesso: «Non tutti gli ottimisti sono imbecilli, ma tutti gli imbecilli sono ottimisti».

 

   
   
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