Dicembre 2006

Un altro mondo

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Il purismo
del profeta satrapo
Gianfranco Ferrari  
 
 

L’islamismo
khomeinista si era presentato fin dagli anni Ottanta come l’erede legittimo
e protervo
del comunismo agonizzante.

 

Poco più di un quarto di secolo fa, nel 1979, scoppiava in Iran la più strana rivoluzione del XX secolo. Il nome stesso di “Repubblica Islamica”, che l’ayatollah Ruhollah Khomeini volle dare al regime teocratico da lui fondato, appariva una contraddizione in termini. Dai tempi di Platone la parola repubblica, “res publica” e non divina, evoca un ordinamento politico laico, secolare, magari autoritario, in ogni caso sottratto alla volubile volontà degli dei o dei monarchi che si incoronavano e governavano “per grazia di Dio”. L’altra grossa trovata di Khomeini fu la dottrina della “velayat-e-faqih”, letteralmente “giurisprudenza dei dottori della legge”: una dottrina rivoluzionaria che mescolava il sacro al profano, la religione alla politica, affidando al clero sciita il compito di sostituirsi ai governanti ordinari e di reggere in presa diretta lo Stato in nome dell’Islam.
Da allora in poi studiosi e analisti videro, nella repubblica islamica, un ritorno alle origini del tradizionale fondamentalismo iraniano. Ma le cose erano sottilmente diverse. In realtà, si trattava di una rottura della tradizione, la quale mai, prima di Khomeini, aveva combinato in maniera così diretta e così ambigua la moschea col Parlamento, mettendo nelle mani dei preti tutto il potere politico. La forza e l’attrazione dell’Iran sciita moderno, dell’Iran cosiddetto fondamentalista, la cui nascita nel ‘79 doveva conferire una dinamica svolta antioccidentale all’intero mondo musulmano, dapprima del Vicino Oriente e poi planetario, sono derivate dalla miscela del verbo coranico con il nazionalismo di matrice socialistoide e baathista; in sostanza, da un ardito e occulto innesto del laicismo autoritario arabo (con l’egiziano Gamal Abdel Nasser, l’iracheno Saddam Hussein, il siriano Hafez Assad) nel purismo religioso sciita.
Su un piano irregolare e asimmetrico ritroviamo anche nel “geoterrorismo scientifico” di al-Qaeda una medesima combinazione di precetti coranici e di tecniche occidentali nell’uso dei media e degli arsenali distruttivi.

L’impeto religioso e teocratico degli ayatollah al potere ha infatti ricongiunto, per tanti aspetti, la loro politica ultraislamica a quella che il secolarizzato liberal-nazionale Mohammed Mossadeq praticava mezzo secolo fa contro l’imperialismo petrolifero e il “Grande Satana” americano. L’aspirazione iraniana, che tanto turba l’America, a diventare una grande e temuta potenza regionale, munita di esercito efficiente, di deterrente nucleare, di servizi segreti collegati con cellule terroristiche, la dice lunga sulle ambiguità di uno Stato che strumentalizza e degrada la religione a ideologia totalitaria imperante sulla società, sull’economia pianificata, sulla cultura appiattita.
Il discorso ci riporta sempre al genio equivoco e megalomane del fondatore Khomeini. L’Islam rivoluzionario teorizzato dal grande vecchio era assai meno pio e tradizionalista di quanto volesse apparire. Egli ideologizzava l’Islam ai fini di un progetto politico che avrebbe dovuto fare dell’Iran il vessillifero di una sovversione prima regionale e poi mondiale. Secondo l’islamista Ramine Kamrane, «l’appello al retaggio religioso islamico gli serviva soprattutto per giustificare artificialmente un sistema di idee che non aveva alcun legame con la vera religiosità». La rivoluzione iraniana è stata e in parte resta essenzialmente ideologica, essenzialmente moderna, e difatti non si richiama solo a Maometto e ad Alì: si richiama anche alle dottrine rivoluzionarie atee, di tipo marxista-leninista o terzomondista, delle quali ha conservato la forza di mobilitazione e la straordinaria capacità operativa.
È quindi spesso sviante, analizzando l’Iran teocratico inventato da Khomeini, mettersi a esplorarlo solo con erudite ricerche sui fondamenti mistici e culturali dello sciismo. Sarà meglio aguzzare lo sguardo su quello che allo sguardo non si palesa subito: un sistema di potere la cui organizzazione e volontà di dominio sulla società civile sono proprie di tutti i sistemi rivoluzionari del Novecento.
Nell’ambiziosissimo progetto di mettere l’Iran, magari con l’atomica, alla guida dei popoli diseredati della Terra, l’islamismo khomeinista si era presentato fin dagli anni Ottanta come l’erede legittimo e protervo del comunismo agonizzante. Bisognerebbe rileggere, in proposito, la lettera che il profetico pontefice degli sciiti inviò poco prima di morire a Mikhail Gorbaciov [per comodità dei lettori, la riportiamo di seguito, N.d.R.]. In essa, il superbo teocrate iraniano imponeva all’ultimo segretario del Pcus di riconoscere pubblicamente che il comunismo ateo era ormai una mummia archeologica, destinata come il capitalismo ateo a svanire nel nulla. Insomma, il povero Gorbaciov, già prossimo allo sfacelo, avrebbe dovuto passare il testimone e ammettere che sulla scena mondiale restava una sola invincibile potenza spirituale in grado di liberare l’umanità dalla «prigione dell’Occidente e del Grande Satana»: l’Islam marxistizzato, con la benedizione di Khomeini e di Allah.

 

   
   
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