Dicembre 2006

La rivolta degli intoccabili

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Dalle caste al futuro
Mabel  
 
 

 

 

Dal Messico alla Bolivia, dal Perù al Guatemala,
gli indigeni
conquistano
posizioni di potere, in terre spesso ricche di materie prime, di petrolio, di gas.

 

Stanchi di dover pulire le latrine, a metà ottobre poco più di diecimila “intoccabili” indiani si sono convertiti, abbandonando l’induismo e abbracciando il buddismo (la più gran parte) e il cristianesimo (una cospicua minoranza). Migliaia di gesti simbolici che, se comunque non faranno loro cambiare lavoro e meno che mai li faranno uscire dal rigido sistema delle caste, tuttavia rappresentano una denuncia fortissima della condizione ancora terrificante in cui versano, sebbene il sistema di discriminazione, legato proprio all’induismo, sia stato formalmente abolito negli anni Cinquanta del secolo scorso. Una conversione in massa, dunque, ricca di significati non soltanto religiosi, ma anche sociali e politici.
Nagpur, Stato del Maharashtra, è la città al cuore dell’India, proprio nel centro del Paese, lo “zero point” dal quale è necessario partire per misurare tutte le distanze. La cerimonia che vi si è tenuta è stata straordinaria. I monaci buddisti, nelle tradizionali tuniche color arancione, cantavano i loro mantra, mentre invitavano i neofiti a non adorare più alcun dio hindu e a non frequentare più alcun tempio legato a quella religione. I preti cristiani battezzavano altri, in piscine adattate lì per lì sul posto, mentre dozzine di agenti di polizia in tenuta anti-guerriglia proteggevano il parco in cui si celebravano le cerimonie.
La clamorosa protesta è stata un intreccio di politica e di religione. La data scelta era quella del cinquantesimo anniversario della conversione al buddismo di Bhimrao Ramji Ambedkar, un padre della patria, principale estensore della Costituzione indiana, un intoccabile, radicalmente critico del Mahatma Gandhi, che passò la vita a lottare contro le caste e le innumerevoli sottocaste previste dalla tradizione indù. Ma l’obiettivo dichiarato era molto attuale: denunciare le leggi che, in alcuni Stati dell’India, cercano di impedire le conversioni, le quali, se non liberano i dalit – in questo modo sono attualmente chiamati gli intoccabili – da un ampio disprezzo sociale, almeno danno a chi le compie la libertà interiore per ribellarsi alla schiavitù delle caste. In sette Stati governati dal Partito nazionalista Hindu, il Bjp, in tempi recenti sono state votate leggi che pretendono certificati e permessi dai tribunali prima delle conversioni, per stabilire che queste non siano state forzate o estorte, ma frutto di una reale libera scelta. Qualcosa di anticostituzionale, dicono molti.
Il problema è estremamente serio. Tant’è che alcuni mesi prima (a metà maggio, per la precisione) papa Benedetto XVI si era detto preoccupato per i «segni di intolleranza religiosa che si registrano in alcuni Stati indiani». Delle parole del Pontefice romano, il ministro degli Esteri di Nuova Delhi si era detto “dispiaciuto”; i politici del Partito Hindu avevano anche protestato con una certa decisione. Ma la manifestazione della conversione di massa indica che papa Ratzinger aveva colpito nel segno: il problema esiste ed è sentito. Anche se non è soltanto di natura religiosa.
Del miliardo e 100 milioni di indiani, il 16 per cento sono dalit, la casta inferiore (sulle migliaia di caste e sottocaste catalogate dall’induismo) sulla quale possono, per tradizione di tre millenni, infierire tutti gli altri, in particolare gli appartenenti alle altre quattro caste previste: quella brahmin, che è al vertice della società indiana, e quelle kshatriya, vaishya e shudra, irraggiungibili dai dalit perché considerati “impuri”. Anche se in taluni casi si tenta di favorire una qualche forma di integrazione, agli intoccabili spettano i lavori più umili.
Secondo dati ufficiali, per esempio, 676 mila dalit vivono pulendo a mano le latrine e caricandosi i sacchi di escrementi sulla testa per portarli alle discariche. È una condanna che passa di padre in figlio. In molte parti del Paese, soprattutto tra gli 800 milioni di abitanti dei villaggi, la discriminazione è spesso ancora totale. Nel senso che, per esempio, le donne dalit non possono attingere acqua dai pozzi: devono aspettare, «a testa bassa e con postura supplichevole», che qualcuno lo faccia per loro. Ai figli devono insegnare il comportamento appropriato rispetto alle caste superiori, soprattutto che non devono, nemmeno accidentalmente, toccarle.
Nell’India che diventa grande potenza, fornita fra l’altro di armi atomiche, nelle metropoli tecnologiche del tipo Bangalore, fra le più sviluppate e intraprendenti al mondo anche sotto il punto di vista della ricerca scientifica e della registrazione di brevetti, nelle fabbriche di software, nei laboratori sperimentali e nelle università, la discriminazione è sempre meno drammatica.
Nelle periferie e nelle campagne, dove è ancora fortissima, cresce invece la ribellione, e con la ribellione cresce l’emigrazione, che fornisce in modo particolare agli Stati Uniti quantità impressionanti di materia grigia, dal momento che gli indiani hanno speciale versatilità nelle scienze matematiche, fisiche, chimiche, e nei settori dell’informatica e delle telecomunicazioni. Allora, per emergere realmente in tutta la sua grandezza, la nuova India deve liberarsi del tutto dal sistema delle caste. Non c’è divinità che tenga.

 

   
   
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