Dicembre 2006

Un altro mondo

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La Silicon Valley cinese
Burt H. Reynold  
 
 

 

 

 

 

 

Col tempo
questo incubatore
tecnico-scientifico è riuscito
ad attrarre molte aziende straniere, che hanno deciso di insediare
qui le proprie
succursali e i propri laboratori
di ricerca.

 

In lingua cinese li chiamano “hai gui”, cioè “rimpatriati da oltreoceano”. Ma la pronuncia suona esattamente anche come “tartarughe di mare” (in inglese, “sea turtles”), perciò è stata scelta questa espressione più poetica per descrivere le migliaia di cinesi che, dopo aver studiato e lavorato in America, sono tornati nella madrepatria per aprire nuove attività e per fondare nuove imprese.
Sono proprio queste testuggini dagli occhi a mandorla ad aver contribuito allo sviluppo veloce e poderoso della Zhongguancun, la versione cinese della Silicon Valley californiana, dislocata nell’area nord-ovest di Pechino, nel distretto di Haidian, non lontano dal Palazzo d’Estate degli antichi imperatori della dinastia Qing e a quindici chilometri appena dalla celebre Piazza Tienanmen.
Nata come esperimento statale negli anni Ottanta, quando il governo cinese decise di far le prove controllate dell’economia di mercato, la Zgc (in questo modo viene chiamata più semplicemente dagli occidentali) ha avuto il suo pioniere in Chen Chunxian. Nel 1980, ispirato da una breve visita alla Silicon Valley californiana, lasciò il laboratorio di fisica nucleare all’Accademia delle Scienze per impiantare la prima organizzazione privata di Pechino in ambito tecnico-scientifico.

Dopo di lui, assecondando la parziale apertura del pugno socio-economico da parte del governo, studenti e docenti cominciarono a fondare piccole società nei dormitori e nelle aule in disuso, con la speranza di attrarre investitori stranieri e grandi aziende. Nel 1988 nasceva così ufficialmente la Zhongguancun Science & Technology Zone, il primo parco tecnologico a livello nazionale, che decollò definitivamente con l’arrivo delle “sea-turtles” provenienti dagli Stati Uniti, ricche di esperienze sul campo, ma anche di capitali propri e di ventura.
Come Charles Zhang, che dopo essersi laureato al Mit, nel 1994 tornò in Cina per lanciare, con un centinaio di migliaia di dollari, Sohu.com, il portale Internet, con servizi che vanno dalle agenzie immobiliari virtuali ai giochi di ruolo on line, e oggi vale 500 milioni di dollari; o come Ying Wu, che dopo essere sbarcato negli Usa nel 1985 con ventisette dollari in tasca, essersi laureato al New Jersey Institute of Technology e aver lavorato come senior manager presso i mitici Bell Labs della AT&T, tornò a Pechino per fondare la UTStarcom, definita oggi da Finance Asia una delle dieci più importanti aziende di telecomunicazioni del continente asiatico. Un flusso letteralmente esplosivo: già nell’ormai lontano 2002 le “tartarughe di mare” rimpatriate avevano fondato circa 1.900 nuove imprese.
All’inizio c’è stato chi dubitava che un’iniziativa partita e promossa dallo Stato potesse dare dei frutti, ma era sfiducia mal riposta. Oggi la Zgc, oltre a trentanove istituti accademici scientifici e 213 centri di ricerca, vanta la più alta concentrazione di aziende hi-tech del Paese: 14 mila imprese nel settore dell’information technology, così come nel biomedicale e nel biotech, che danno lavoro a mezzo milione di persone, di cui 100 mila sono ricercatori e scienziati, con un’età media di 29 anni.
Nel 2005 hanno generato introiti per 480 miliardi di yuan (48 miliardi di euro), «il 97,1 per cento in più rispetto all’anno precedente», come riferisce un blog statunitense interamente dedicato alle evoluzioni della Zgc. Aziende piccole, medie e grandi, tutte impegnatissime a fare concorrenza alle varie Silicon Valley del mondo, da quella californiana della Bay Area a quella indiana di Bangalore.
È qui che sono nate alcune stelle nel firmamento dell’hi-tech made in China, come Legend (oggi nota come Lenovo, il maggior produttore cinese di Pc, recente acquirente della divisione computer di Ibm), ma anche Stone e Founder, nata sotto l’ala dell’università di Pechino e creatrice del primo sistema di composizione a laser degli ideogrammi. È sempre qui che hanno preso vita megagruppi oggi in testa nella corsa a Internet, come Sina (il primo portale nazionale come numero di utenti) e Baidu (il più celebre motore di ricerca cinese); oppure nei videogames, come Ourgame.com (70 milioni di registrazioni e picchi di 600-800 mila giocatori impegnati contemporaneamente on line). «Non a caso le aziende che operano nella Zgc detengono il 40 per cento del mercato nazionale legato alle applicazioni software e il 50 per cento del mercato dei computer», dice Adam Segal, autore di Digital Dragon: High Technology Enterprises in China.
Inizialmente, le start-up nate fra le strade polverose di questo distretto suburbano ad alto tasso di cervelli erano tutte made in China e pescavano neolaureati dai due vicini colossi accademici, l’Università di Pechino e la prestigiosa Tsinghua University, che ogni anno apre le porte solo a duemila nuovi selezionati fra i sette milioni che sostengono gli esami di ammissione. Un binomio che sembra replicare l’accoppiata vincente californiana, con le università di Berkeley e di Stanford, pronte a sfornare materia grigia per la “Valle”. Tant’è vero che col tempo questo incubatore tecnico-scientifico è riuscito ad attrarre molte aziende straniere, incluse multinazionali come Microsoft, Sun Microsystems, Intel, Siemens, Mitsubishi, Nokia, Motorola, che hanno deciso di insediare qui le proprie succursali e i propri laboratori di ricerca e sviluppo. Negli ultimi dieci anni il processo di crescita della Zgc è stato addirittura frenetico. Interi palazzi di vetro e acciaio sono sorti come funghi nel giro di brevissimo tempo, ridisegnando il profilo dell’arteria principale, la Zhongguancun Electronics Street, lunga dieci chilometri. In pratica, un’intera città si è sviluppata, e continua ad espandersi intorno alle prime start-up e ai vecchi edifici universitari, riposizionati in questa zona della città negli anni Cinquanta per creare una piccola Cittadella della Scienza, ad emulazione del modello sovietico. «E pensare che proprio qui venne messo a punto nel 1977 il primo prototipo di microcomputer, addirittura quattro anni prima che Ibm decidesse di entrare nel mercato dei Pc», racconta con rammarico Jingjing Zhang, ricercatore cinese presso il Georgia Institute of Technology, «ma allora, prima della svolta riformista di Deng Xiaoping, la maggior parte dei prototipi che uscivano dai nostri laboratori di ricerca e sviluppo rimaneva tale e non raggiungeva nemmeno i test di prodotto per colpa della rigida pianificazione centrale».
«Dal 1950 al 1978 l’Accademia cinese delle Scienze, che era proprietaria di tutti i brevetti, non vendette nemmeno un prodotto», sostiene Segal, «ma dall’inizio delle riforme oltre 40 mila prodotti sono passati in mani private per essere immessi sul mercato». Ora in Electronics Street e nei grandi outlets adiacenti si trova la maggior concentrazione di apparecchi di elettronica dell’intera Cina, dai cellulari alle videocamere professionali, a prezzi imbattibili. È bastato togliere il tappo per dare la stura all’energia repressa per tanto tempo: «A dispetto di decenni di maoismo e comunismo, i cinesi restano imprenditori nati, natural born entrepreneurs», si sostiene nella californiana Silicon Valley. «Anche nei primi anni Ottanta, quando l’iniziativa privata era stata solo in parte legalizzata a titolo di prova, si respirava spirito imprenditoriale ovunque. Sebbene non fosse ancora chiaro cosa fosse permesso, i venditori di strada arrivavano a sciami dalle periferie e aprivano piccoli banchetti fin sotto ai fucili della Guardia Rossa. Ora lo spirito imprenditoriale cinese è irrefrenabile».
La Chinese Valley è ormai una punta di diamante della ricerca anche in settori quali le biotecnologie, la biomedicina e i nuovi materiali, sostiene Henry S. Rowen, docente emerito alla Stanford. «Laggiù in questi tempi fanno sul serio: progettano il futuro» . E che ci provino è fuor di dubbio, come lascia intuire la grande scultura al centro del parco intorno al quale sono sorti negli ultimi vent’anni i vari edifici della Zgc: un’enorme doppia elica del Dna.

 

   
   
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