Dicembre 2006

Un altro mondo

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Metropoli, Megalopoli
Ecumenopoli
Edoardo Brosio  
 
 

 

 

 

 

Mentre
gli urbanisti
progettano
le loro reti di
città-quartiere,
le megalopoli avanzano senza chiedere il
permesso
ai professori
universitari.

 

Quello prossimo sarà ricordato nella storia come l’anno del sorpasso delle città sulla campagna. Così ritiene l’Ufficio demografico delle Nazioni Unite. Per la prima volta dalla comparsa dell’uomo, la popolazione urbana diventerà maggioranza, ed è facile prevedere che non si tornerà più indietro. Potremo dunque dividere la storia del mondo in due parti: dalle origini al 2007, quando prevaleva la popolazione rurale; e dal 2007 in poi, quando si instaura il dominio delle città, delle metropoli e delle megalopoli.
Megalopoli – dal greco megápolis, “grande città” – è parola antica. Si chiamava così una città-Stato del Peloponneso, quella che aveva dato i natali allo storico Polibio, e che esiste ancora. Sorge nientemeno che in Arcadia, nome che evoca immagini di prati fioriti, di ruscelli gorgoglianti, di dolci climi e di serenità. Nel senso moderno, invece, megalopoli è un termine introdotto dal geografo Jean Gottman nel 1961 per indicare il complesso urbano formato da Boston, New York e Washington.

Per convenzione, una città diventa metropoli quando supera il milione di abitanti, e una metropoli diventa megalopoli quando sorpassa i dieci milioni. New York è stata la prima, nel 1940. Oggi esistono venti megalopoli: dieci negli Stati Uniti, le altre sparse nel resto del mondo. Due sono in Africa: Lagos e Il Cairo. Tre sono in India, due in Cina. Per inciso, secondo le previsioni dell’americano Census Bureau, nel 2034 l’India sorpasserà la popolazione della Cina: si profila un colosso – potremmo chiamarlo “Cindia” – che da solo ospiterà circa la metà della popolazione mondiale.
Nelle venti regioni delle megalopoli si concentrano 660 milioni di persone, un decimo della popolazione mondiale. Ma questo 10 per cento produce la metà dei beni economici complessivi, ospita i due terzi di tutte le attività di ricerca scientifica e genera i tre quarti di tutte le innovazioni tecnologiche. I sociologi spiegano questa impressionante asimmetria ricordandoci che nei posti dove si concentrano molte persone e molte attività produttive la creatività cresce esponenzialmente, perché le idee innovative circolano con maggior velocità e si fecondano reciprocamente. Cosa in parte vera, che chiarisce come mai il provincialismo sia dannoso.
Ma Robert Lucas, premio Nobel per l’Economia, ha fatto notare che l’alta produttività di queste regioni in beni, scienza e cultura dipende anche dal fatto che non mettiamo nel conto la “esternalità”, cioè ci dimentichiamo dei costi sommersi che vengono a gravare sul resto del territorio in termini di danni ecologici.
In altre parole: New York, Tokyo e Pechino si sviluppano perché da qualche altra parte i pozzi di petrolio vengono spremuti fino all’esaurimento e l’aria dell’intero pianeta si riempie di anidride carbonica e altri inquinanti. E infatti le venti megalopoli occupano solo il 2 per cento della terraferma, ma consumano i due terzi delle risorse globali e producono la metà di tutti i rifiuti solidi e gassosi. Per far fronte ai consumi di Londra (che occupa 1.580 chilometri quadrati), occorre un territorio 125 volte più esteso, pari a 198 mila chilometri quadrati, quasi uguale alla superficie del Regno Unito (210 mila chilometri quadrati), due terzi dell’Italia. Solo per sfamare i londinesi servirebbero 84 mila chilometri quadrati di terreni agricoli.

Qui entra in gioco il concetto di “impronta ecologica”. Quanto suolo è necessario per fornire tutto ciò che serve alla nostra vita? Questa è l’impronta ecologica. Gli ecologi calcolano che per avere una “impronta ecologica sostenibile”, cioè che non intacchi il “capitale” delle risorse naturali ma sfrutti solo i suoi “interessi”, bisogna rimanere al di sotto di 1,8 ettari per persona. Oggi nella Cina agricola siamo ancora a 1,6, ma a Shanghai si balza a 7,0. L’impronta ecologica di un cittadino italiano è 3,1, quella di un americano 9,7. Se le cose stanno così, poiché la tendenza verso le megalopoli pare inarrestabile, sarà necessario escogitare soluzioni affinché le megalopoli diventino ecopoli, cioè il più possibile autosufficienti.
Per avvicinarci a questo obiettivo, le parole d’ordine sono queste: 1) riciclare l’acqua e tutte le altre risorse primarie; 2) migliorare l’efficienza energetica sviluppando fonti rinnovabili; 3) contenere l’uso delle auto con un’adeguata rete di trasporti pubblici; 4) ridisegnare la mappa stessa delle megalopoli; 5) consumare il più possibile beni che vengano dal circondario (i generi alimentari consumati a Londra in media hanno fatto un viaggio di 3.000 chilometri: molti, infatti, arrivano dalla Nuova Zelanda, dal Brasile, dall’Africa).
Melbourne, in Australia, dà il buon esempio: con un investimento di 40 milioni di dollari si è dotata di generatori eolici e di pannelli fotovoltaici che insieme generano l’85 per cento dell’elettricità consumata per uso domestico; collettori di acqua piovana forniscono il 70 per cento dell’acqua. L’edilizia intelligente può fare molto: una giusta esposizione al sole e finestre ben progettate permettono di utilizzare al massimo l’illuminazione naturale e di surrogare il condizionamento termico, rinfrescando gli ambienti in estate e riscaldandoli in inverno.
A Berlino il nuovo palazzo del Parlamento con tecniche analoghe fa risparmiare il 94 per cento delle emissioni di anidride carbonica che si produrrebbero con sistemi di illuminazione e condizionamento tradizionali. Vienna mette a disposizione gratis 1.500 biciclette per chi rinuncia all’auto. Shanghai ha 100 mila tetti con pannelli fotovoltaici al posto delle tegole.
Buone cose, ma si tratta in fin dei conti di pannicelli caldi che difficilmente riusciranno a risolvere i problemi alla radice. È la concezione della megalopoli che va ripensata. I giganteschi mostri urbani con cui oggi facciamo i conti risalgono a una filosofia propugnata negli anni Sessanta del secolo scorso dall’urbanista americano Christopher Alexander, docente di architettura all’università della California.
I grattacieli sono il simbolo della iperdensità demografica. Il centro di Shanghai ha una densità di 42 mila cittadini per chilometro quadrato, il quadruplo di New York. Houston, 60 mila. Oggi l’orientamento non è più verso singole megalopoli, ma verso “arcipelaghi urbani”, costellazioni di città-quartiere, tipicamente con una popolazione intorno al mezzo milione di abitanti. Queste città-quartiere potranno poi essere connesse tra loro in rete, un po’ come i server di Internet. È il modo migliore per avere collegamenti brevi e rapidi, limitando la mobilità e nello stesso tempo incentivando quei rapporti interpersonali che sono così fecondi per la creatività scientifica e artistica, e quindi in ultima analisi anche per la produttività. Sappiamo dalla teoria matematica delle reti e dalla conseguente teoria sociologica dei “piccoli mondi” che ognuno di noi in media è connesso a tutti gli altri 6,5 miliardi di persone viventi nel mondo attraverso sei “passaggi” soltanto: perché non applicare questa nozione al progetto delle città?
Resta da vedere se siamo in tempo. Mentre gli urbanisti progettano le loro reti di città-quartiere, le megalopoli avanzano senza chiedere il permesso ai professori universitari. E nascono nuove realtà ancora più ingestibili. Diamo uno sguardo alla geografia di queste colossali concentrazioni umane: cento anni fa, con 6,5 milioni di abitanti, Londra era la città più grande del mondo. Oggi ne ha 7,5, ma nel frattempo Tokyo è arrivata a 34 milioni, quasi tutti immigrati dal territorio circostante. Nel 1900 solo il 10 per cento della popolazione mondiale abitava nelle città. Oggi stiamo per raggiungere e superare il 50 per cento.
La migrazione dalla campagna alle città è un fatto globale, dall’Africa all’Asia, dalle Americhe all’Europa. Ne deriva un nuovo fenomeno: metropoli e megalopoli contigue tendono a fondersi in concentrazioni ancora più estese. Le supermegalopoli. L’area della “grande Tokyo” ha 55 milioni di abitanti, quella di Osaka-Nagoya 36, Fukuoka-Hiroshima-Kitakyusha 20 e si chiama ormai Fuko-Shima: si fondono anche i nomi.
La “grande Seul” raggiunge i 44 milioni, la “grande Pechino” 37, Shanghai con Nanchino e Hangzhou supera i 50 e si chiama Shang-King. In Europa, il corridoio mediterraneo Valencia-Barcellona-Marsiglia-Lione riunisce 25 milioni di persone. Negli Stati Uniti si affaccia una nuova toponomastica: Chi-Pitts, 45 milioni di abitanti, è il conglomerato di Pittsburgh, Cleveland, Detroit, Cincinnati, Chicago e Minneapolis. Chatlant ha 20 milioni di abitanti, ed è l’insieme di Atlanta, Charlotte e Raleigh. Daustin è la sintesi di Dallas, San Antonio e Austin (9 milioni di abitanti). Boswash è l’assemblaggio di Boston, New York, Philadelphia e Washington: 55 milioni di abitanti. Tor-Buf-Chester, 20 milioni, è l’insieme di Toronto, Buffalo, Rochester, Ottawa e Montreal.
Tra mezzo secolo, se la tendenza continua, l’80 per cento della popolazione mondiale sarà concentrato in supermegalopoli. Sta per diventare realtà la profezia dell’urbanista greco Constantinos Doxiadis, che nel 1967 coniò il termine ecumenopoli per indicare la città globale, generata dalla connessione di tutte le aree urbane. Speriamo di non vederla.

 

   
   
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