Giugno 2006

GLI INNI SACRI

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Le melodie perdute
Sergio Bello
 
 

 

 

Nel post-Concilio
i liturgisti hanno
chiuso le porte
a qualsiasi dialogo
con la musica colta contemporanea
e ciò ha prodotto canti molto poveri.

 

Gesù molto probabilmente non rideva, come asserì una corrente teologica antica, ma quasi certamente cantava. Non possiamo sapere se fosse intonato, oppure no. Però il rotolo di Isaia nella sinagoga di Nazareth quasi sicuramente Cristo non lo ha letto, bensì “cantillato”, come aveva imparato a fare da buon ebreo e come era normale nel mondo orientale antico: con una linea melodica più vicina al parlato e al canto tradizionale yemenita o polinesiano, che alla salmodia oggi usata nella liturgia delle ore.
Durante la Passione ci sono poi riferimenti al canto dell’hallel e la citazione del Salmo 22, (“Dio mio, perché mi hai abbandonato”), quello dei morenti. «Anche se non mi spingerei a dire che Gesù in croce l’abbia cantato», sostiene don Luigi Garbini, nella sua dotta Breve storia della musica sacra, pubblicata di recente.
La musica dei primi cristiani è difficile da ricostruire. Se vale la tripartizione di inni, salmi e cantici spirituali citata da san Paolo, dobbiamo pensare che si usassero sia salmi biblici sia canti di nuovo conio, ma rifatti su quel modello. Per quel che riguarda gli stili corali, semplificando ne rinveniamo due: la ripetizione della formula proposta da un solista, oppure l’alternanza di due gruppi che si rispondono a vicenda.

La ritmica non esisteva, il canto era semplice. Ma spesso vi si aggiungeva lo “jubilus”, vale a dire il vocalismo o melisma di un solista che si lasciava andare a una sorta di grido sonoro, quasi presenza strumentale sulla vocale finale: uno spazio libero del suono sulla parola.

Nel testo di don Garbini non è citato il celebre (e usato a piene mani) detto di sant’Agostino: «Chi canta prega due volte», perché l’Autore lo ritiene, come slogan, poco scientifico, e dichiara di non sapere nemmeno se sia di Agostino. Il cui problema era semmai «l’ambivalenza della musica: egli ne sentiva fascino e potenzialità, però era preoccupato di organizzarne il metro per dare preminenza e intelligibilità alla parola».
E qui il santo di Tagaste venne aiutato da sant’Ambrogio, che inventò gli inni, ma «copiandoli», come insinua il saggista. In effetti, Ambrogio pescò da Efrem il Siro e dalla Scuola di Emessa (ambiente scismatico dove recuperava un’innodia adatta a far fronte proprio agli eretici...). Però a questa fonte si mescolavano variabili occidentali, come Ilario di Poitiers ed Eusebio di Vercelli. Di sicuro, comunque, con la presenza del metro – versi uguali nel numero di sillabe e con un ritmo identico nelle strofe – la musica sacra guadagnava un altro modo di organizzarsi e uno spazio più vicino alla nostra sensibilità.

D’altra parte, non va dimenticato che Ambrogio venne contestato da san Gerolamo, che lo accusava di portare in chiesa «musica moderna». C’era polemica tra i due, e l’inno ambrosiano rimaneva fuori dagli ambienti romani a lungo: era un’innovazione troppo radicale.
Nello stesso tempo, tuttavia, sappiamo quanto fu prezioso per forgiare una partecipazione tra le comunità cristiane. Era un modulo che funzionava. Il gregoriano fu anche uno strumento importante che Carlo Magno utilizzò per unificare l’Europa. In un certo senso, dunque, non fu canto monastico, ma “romano”.
Questo, non per la sua origine – che scaturiva dalla fusione tra varie tradizioni (gallicane, romane…) e da un reticolo monastico che diffondeva andamenti differenti – ma per l’attribuzione a Gregorio Magno. Il richiamo al papa servì infatti da autorità per legittimare la revisione e la sintesi di un repertorio sviluppatosi in vari centri e città del continente europeo, nel momento in cui l’Impero carolingio cercava fusione e ordine.
Quello gregoriano è un canto a voce nuda. Anche perché ci fu una forte avversione agli strumenti musicali (le percussioni, il flauto…) in chiesa; si arrivava persino agli anatemi di certi Padri della Chiesa, perché, nonostante il riferimento ideale alla liturgia del Tempio di Salomone (dotata di corredo strumentale), in pratica la strumentazione era ritenuta simbolo di paganesimo.

Persino l’organo non era affatto considerato “sacro”, perché accompagnava feste molto pagane. Però aveva potenzialità molto più vicine alla voce umana e questo gli permise di restare nel mondo liturgico. L’entrata in pompa magna dell’organo tra le navate avvenne intorno al Duecento, a Parigi, mentre la sua riforma risaliva all’Italia ottocentesca, quando lo strumento si arricchì di registri sempre più contigui ai timbri orchestrali con potenzialità incredibili: l’organo diventò il “teatro dell’opera” per i poveri.
In sintesi, e semplificando, possiamo dirlo: il Concilio di Trento cercava di ridimensionare la musica per rendere i testi più comprensibili, visto che la complessità della polifonia oramai complicava l’udibilità delle formule della fede.
La mitologia sostiene che Pierluigi da Palestrina convinse i padri conciliari a trovare una via moderata per unire contrappunto e rispetto dei dogmi. La sua opera ha determinato, direttamente o indirettamente, i maestri della musica sacra seguente e, in momenti di crisi, il richiamo a lui equivale ad aggrapparsi a qualcosa di sicuro. Ma attribuire al solo Palestrina la salvezza della polifonia non corrisponde al vero: c’era Orlando di Lasso, poi ci fu Monteverdi... Infine, c’è stato Perosi, definito dall’Autore «ultimo giardiniere della musica sacra», proprio perché è stato l’ultimo a riuscire a vivere il suo tempo – tra Wagner e il modernismo – con la professionalità necessaria per produrre una letteratura di successo popolare duraturo. Dopo di lui, non ce ne sono stati altri, anche perché nel post-Concilio i liturgisti hanno chiuso le porte a qualsiasi dialogo con la musica colta contemporanea, e ciò ha prodotto canti molto poveri, oppure volontarie auto-esclusioni oppure corrivi esilii di autori.
Se poi ci si chiede in che modo riproporre oggi gregoriano e polifonia alla partecipazione popolare, la risposta è univoca: occorre prendere atto che un repertorio, generato dalla Chiesa, paradossalmente non viene più tenuto in considerazione, se non in minima parte. Mentre il canto con la chitarra non dialoga con nessuno, neanche col mondo della musica pop, ormai molto variegato. Così in questi nostri tempi il canto cristiano, in pratica, semplicemente non esiste.

 

   
   
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