Giugno 2006

VIAGGIATORI INGLESI E SCRITTORI SALENTINI

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Paesaggi allo specchio
delle parole
Lucilla Vaglio
 
 

 

 

La danza
dei tarantolati gli sembra molto
simile ad una
vecchia danza scozzese chiamata Pillow, che ha molto in comune con la quadriglia.

 

Nelle prime pagine del suo resoconto e racconto del viaggio Nel tallone d’Italia, Martin Shaw Briggs riprende quello che diceva il poeta gallese Arthur Symons: «Le città sono come i popoli: fornite di un’anima e di un temperamento propri. Mi sembra che lo spirito di una città si possa rivelare solo a coloro che l’amano o l’odiano con particolare emozione.
Ho visitato molte città che mi hanno lasciato indifferente, forse per qualche incidente durante il viaggio; ma in realtà non avevano nulla che mi parlasse… Mi sarebbe stato impossibile scrivere: non avrei trovato nulla da dire. Ma altre città… quanto le ho amate! […] Sembra che tutte queste città mi abbiano comunicato qualcosa della loro anima, come i popoli che ho amato o odiato nel mio cammino per il mondo».
Dunque, non ci sono vie di mezzo. Un luogo può farsi racconto solo se non è indifferente, se suscita un sentimento di amore o di odio, se provoca in qualche modo una condizione di vicinanza o appartenenza, se fa maturare un legame che può anche restare indecifrato, se lascia una traccia che può anche non rivelarsi, se si stratifica nella memoria come un vago richiamo, una bruciante nostalgia.
Forse, Martin Shaw Briggs, Henry Vollam Morton, Janet Ross, George Berkeley, Frederick J. Hamilton e gli altri viaggiatori inglesi, quando vennero per la prima volta nel Salento – motivati da interessi spesso tutt’altro che letterari – non sospettavano che questa terra li avrebbe vincolati attraverso un legame tanto forte da farli sentire parte non solo di essa, ma addirittura della sua storia.

Martin Shaw Briggs, nato ad Otley, nella contea di York, è uno dei più noti viaggiatori-scrittori inglesi nel Salento. Nella sua opera In the heel of Italy; a study of an unknown city, pubblicata nel 1910, scrive:

La città ha una nobile storia e riveste particolare importanza nell’Italia odierna, pur possedendo inestimabili vestigia di un lontano passato che risale addirittura all’età oscura della storia primitiva.


Si apre così il suo libro, con una descrizione della città di Lecce, “sconosciuta” perché gli inglesi non la conoscevano ancora, in quegli anni. Fu nell’aprile del 1907, quando Briggs venne inviato per la prima volta nel Salento dall’editore della rivista Architectural Review per studiare i monumenti e i palazzi della città (giacché Briggs era laureato in architettura ed esercitava con molto successo) che lo scrittore rimase profondamente colpito dalle bellezze architettoniche, tanto da decidere di ritornarvi, semplicemente da viaggiatore, due anni dopo, nel 1909.
In questa seconda occasione, Briggs raccoglie molto materiale, sia sul barocco leccese, al quale nel 1913 dedicherà un intero volume dal titolo Baroque Architecture, sia sulla gente salentina, sui personaggi illustri del Salento, quali il duca Sigismondo Castromediano, Antonio Galateo, e sceglie sia di narrare la storia di Lecce e dei Martiri d’Otranto, che di ritrarre, con gusto e con uno stile molto delicato, alcuni dei piccoli paesi che visita durante il tragitto che lo conduce da Lecce fino a Santa Maria di Leuca.

La narrazione è molto accurata; Briggs coglie ogni sfumatura di tutto ciò che vede, dimostrando di saper andare oltre la superficie esclusivamente paesaggistica e artistica e di incontrare il vero Sud.
Dunque Briggs è uno di quei viaggiatori-scrittori che racconta del Salento come se da sempre ne conoscesse ogni particolare. Forse proprio perché, come diceva Symons, per raccontare di un luogo è necessario che questo luogo ci parli, ci dica qualcosa; poi è necessario amarlo, odiarlo, o entrambe le cose.
Amare-odiare, un’antitesi che, probabilmente non a caso, ritroviamo in uno dei maggiori esponenti del panorama letterario salentino, Vittorio Bodini, nei versi che dicono

qui non vorrei morire dove vivere
mi tocca, mio paese,
così sgradito da doverti amare.

Martin Shaw Briggs, a mano a mano che prosegue nel suo viaggio di scoperta e di conoscenza della terra salentina, offre scorci descrittivi che in molte occasioni sembrano anticipare quelli che, anni dopo, sarebbero diventati versi straordinari dedicati dai poeti salentini a questa terra. Ritorna Bodini:

Tu non conosci il Sud, le case di calce
da cui uscivamo al sole come numeri
dalla faccia di un dado


quando lo scrittore inglese descrive il piccolo paese di Soleto, dove ciò che più colpisce è

l’abbagliante candore delle sue case
bianche.


E poi le

processioni e suffragi
[che] s’aprono a ventaglio
sulle pagine scure
del nostro giorno


come scriveva Bruno Epifani, o le

processioni lente ad ogni porta
falbe madonne recano nell’aria

nei versi di Vittore Fiore, nell’opera di Briggs costituiscono il motivo per una descrizione molto accurata e intensa di una processione in onore di Santa Maria Addolorata:

Apre il corteo una fanfara, segue un ordine di uomini vestiti di nero coi petti fregiati di emblemi sacri.[…] Il sole torrido fonde in parte le grandi candele tra le mani di questi uomini, e cosparge di cera le loro vesti funebri. Segue una gran folla di donne gravi e silenziose. Rompe questo silenzio il suono della fanfara che sembra più solenne per l’ordine in cui è disposta. Ad un tratto i musicanti suonano una deliziosa fantasia, certo più allegra di quella musica corale che un maestro tedesco avrebbe ordinato in tale processione; in cui nulla è che ricordi la pesante volgarità delle processioni inglesi.

Nell’opera In the heel of Italy, Lecce è per Martin Shaw Briggs «la città costruita in pietra colore oro che giace in Terra d’Otranto», e anche in questa raffinata descrizione ritroviamo i versi che Bodini dedica a questa città:

Biancamente dorato
è il cielo dove
sui cornicioni corrono
angeli dalle dolci mammelle,
guerrieri saraceni e asini dotti
con le ricche gorgiere.
[…]
Un’aria d’oro
mite e senza fretta
s’intrattiene in quel regno
d’ingranaggi inservibili fra cui
il seme della noia
schiude i suoi fiori arcignamente arguti
e come per scommessa
un carnevale di pietra
simula in mille guise l’infinito.


«Se dunque l’apprezzamento consapevole delle bellezze architettoniche e storiche del nostro paese è davvero notevole in queste pagine di viaggio», scrive Angela Cecere in uno dei suoi volumi sui viaggiatori inglesi, «va anche notato che rispetto al ‘700 il gusto estetico subisce un mutamento determinato in larga misura dalle teorie estetiche di Ruskin. […] Non più simmetria di forme e bellezza, ma la concezione dell’arte come espressione delle verità e delle emozioni più alte e più pure che l’uomo potesse esprimere. L’arte doveva comunicare qualità morali che costituivano l’essenza stessa della bellezza. La piena rivalutazione dell’arte normanna e medioevale fece sì che molti Inglesi si interessassero a monumenti fino ad allora trascurati: solo nell’800 le nostre splendide cattedrali pugliesi saranno apprezzate per la prima volta, proprio perché si era prodotta in Inghilterra una differente sensibilità critica ed estetica».

Tuttavia, già nel ‘700, il filosofo irlandese George Berkeley nel suo Viaggio in Italia esprimeva il suo entusiasmo di fronte all’arte decorativa leccese:

La pietra qui si lavora con facilità. Perciò l’abbondanza di decorazioni alle facciate delle chiese, dei conventi, è incredibile. Colonne o pilastri, festoni, vasi da fiori, puttini, forme di animali si affollano sopra il fogliame dei capitelli […] non sono mai stato colpito, da quando viaggio, come dall’infinita ricchezza degli altorilievi leccesi, e dalla loro perfetta esecuzione. Non credo che ci sia un’architettura simile al mondo.


Circa due secoli dopo, la dettagliata e lunga descrizione di Berkeley la ritroviamo nella sintesi straordinaria di due versi di Vittorio Pagano:

A noi si dona, artefici assolati
una malìa di calme architetture
dove l’uomo è il pretesto di un poeta

e nello scenario che Tommaso Fiore descrive nel volume Un popolo di formiche:
Lecce, l’armoniosa, è l’unica città non solo di Puglia ma di tutto il Mezzogiorno, in cui i palazzi e le pietre e le strade e i cortili e le loggette e le finestre e fin le abitazioni più umili abbiano serbato l’antico carattere storico, spiccatamente artistico. Se la disposizione di essa nei meandri delle vie, nelle piazzette, nei parchi è medioevale e normanna, l’apparenza è in tutto secentesca e berniniana, con ricchezza di ornamenti e statue e di motivi architettonici pieni di effetti pittorici e di stranezze geniali.

Poi, nel 1958, Fernando Manno comincia Secoli fra gli ulivi proprio con un capitolo dedicato alle pietre, che chiama «maledizione di sassi»:


Da secoli, da millenni forse i salentini ordinano pietre in città, ordinano pietre in campagna. E ne hanno fatto i due volti della loro terra, quello splendido e fulvo della città e quello faticato e paziente delle campagne.


Immagini significative del Salento ricorrono ancora nel volume di Henry Canova Vollam Morton, nato a Birmingham nel 1892, giornalista e redattore del “Daily Mail”, morto a Londra nel 1978.


La sua opera, pubblicata a Londra nel 1969, s’intitola A Traveller in Southern Italy. Morton scrive:

A Lecce percepii qualcosa di spagnolo nell’atmosfera, nella serietà e nella dignità degli abitanti, nella formalità dei loro comportamenti e nell’architettura sofisticata dell’ambiente e tutto questo mi riportava alla mente quei posti in cui il Barocco spagnolo è evidenziato da una pietra morbida come il burro che, quando si indurisce, diventa dura come l’acciaio.


Morton, dunque, nei tratti del barocco salentino ritrova la Spagna: un’immagine che successivamente comparirà in liriche e racconti di autori salentini. Nella poesia “Sonno del mio paese”, Vittore Fiore scrive:

Ecco, se entri al piano solitario,
di là per sempre il mio paese aspetta,
traverso gli archi tuoi la Spagna cola
un sonno antico lentamente viola.


Un’immagine interiore della Spagna compare in un’altra poesia di Fiore, “Se faremo ritorno”:

Oh gli occhi dei braccianti
riservati ai silenzi, alle ventate,
e donne dietro finestre
appena chiuse, con un cuore così
e la Spagna serrata nella gola
dove bruciano chiese vescovili.
Vittorio Bodini, che vive per quattro anni a Madrid, assorbendo moltissimo della cultura e dell’intensità dei paesaggi spagnoli, tanto da riversare l’esperienza spagnola nelle numerose traduzioni e in alcune straordinarie liriche, in “Omaggio a Gòngora” scrive:
Venuto qui non oso domandare
se è piena o vuota la realtà.
Cordova è una dolce tempesta
di bianco verde e nero e in quell’accordo
di calce e di limoni e di freschi cancelli
trovo il mio Sud ma con più aperta coscienza
con più aperta tristezza e più valore.


Nel capitolo dedicato al barocco, Manno sottolinea invece le differenze tra il barocco spagnolo e quello salentino:

Nel barocco spagnolo c’è l’empito d’una vocazione, un continente spirituale conteso al demonio […] L’idea di bellezza è esclusa, almeno quella che danno i sensi. […] Il barocco salentino non ha teologia e tragedia ideali del secolo che lo produsse. Esso non è pensiero. È senso. […] È naturalismo. […] Se si potesse, allo stesso modo, creare, come si creano certe mostre retrospettive d’arte, una stagione che raccogliesse contemporaneamente frutta e piante del Salento, avremmo il barocco della natura in un’unica mostra di fichidindia, fichi, mandorle, vendemmia,[…] Così il barocco salentino si salda alla terra, alla storia, al cuore del paese, non più pietra, non più arte, non più opera: una voce del paesaggio. Sangue.


Il panorama descritto dagli inglesi non poteva poi prescindere dal ritrarre la campagna salentina.
Richard Keppel Kraven, nel volume Tour through the Southern Provinces of Naples, del 1821, si sofferma sulla bellezza rurale della Puglia. Osserva i giardini che incontra sul suo cammino, e racconta:

[...] cespugli di mirto ben potati conducevano a porticati ben coperti di vigne, innumerevoli palme, le più belle che abbia mai visto in Italia, si stagliavano su un orizzonte di verde, creato da una rigogliosa vegetazione che nel nostro clima difficilmente riuscirebbe a crescere fuori da una serra.


E ancora:

[...] i campi sono recintati da muri a secco, e le case, tutte dal tetto piatto, hanno un’apparenza molto vivace per il loro estremo biancore che spicca sullo sfondo verde dei campi e dei frutteti, o anche degli estesi uliveti… quasi tutto il territorio è coperto da ulivi vecchi, probabilmente di 500 anni, sono tutti cimati ed hanno tronchi come vecchi alberi di salice, ma tanto grandi e grotteschi quanto le querce di Sherwood.


Sono gli stessi ulivi ai quali Ercole Ugo D’Andrea dedicherà “Metamorfosi dell’ulivo”, ai quali Vittorio Pagano penserà nella sua lirica “Questi soliti olivi”, che

s’abbarbicano al nudo
sasso, la terra estorcono ai contesi
pascoli, tramortiscono il furore
del giorno nella verde irresistenza
del flusso in cui s’adempiono.


Infine, un altro fenomeno attrae in particolar modo l’attenzione di tutti i viaggiatori inglesi, da Briggs a Janet Ross, a Morton, a Berkeley: il tarantismo, al quale questi autori dedicano interessanti e documentate pagine esaminandone con estrema precisione ogni aspetto.
È l’umanista scozzese Craufurd Tait Ramage, in particolare, che, durante il suo viaggio nel 1828, rimane così colpito da questo fenomeno da volerne ricercare le più remote origini. E nel suo diario intitolato The Nooks and Byways of Italy, in cui descrive un viaggio compiuto quarant’anni prima, riferisce che il primo scrittore che ricorda il tarantismo fu l’Arcivescovo Nicola Perotto di Sassoferrato, vissuto intorno al 1450. Anche se sostiene che la specie di ragno responsabile di questo fenomeno, il Phalangium apulum, il cui veleno provoca violente convulsioni, viene citato prima ancora da Plinio. Quel che è interessante scoprire nel volume del Ramage, come nota Angela Cecere, è che la danza dei tarantolati gli sembra «molto simile ad una vecchia danza scozzese chiamata “Pillow” (cuscino) e che ha molto in comune con la nostra quadriglia».

Luigi Corvaglia, in Finibusterre, e Fernando Manno, sempre in Secoli fra gli ulivi, racconteranno lo stesso fenomeno in maniera non meno dettagliata rispetto agli autori inglesi.


Ora, gli aspetti di analogie e di costanti tematiche tra le opere dei viaggiatori inglesi e quelle di alcuni tra i più significativi autori salentini del Novecento possono costituire una testimonianza del fatto che gli stranieri abbiano guardato questa terra con una sensibilità e una profondità tali da consentire di individuarne i tratti distintivi e connotativi.

In tempi diversi e con differenti culture, inglesi e salentini si sono ritrovati a dire di paesaggi ed emozioni con parole somiglianti e, a volte, con la stessa meraviglia e lo stesso stupore.

Probabilmente la ragione sta nella capacità di comprendere il linguaggio degli esseri e delle cose, dei miti e delle storie, delle speranze e delle superstizioni, del barocco e dei muri a secco. Si tratta di «quell’idea del dialogo con la terra», come scriveva Verri,
che non cambierà mai, che l’uomo ha stabilito dal tempo dei tempi, il grosso respiro, il sibilo lungo che si può udire solo di mattina, mirando nella vastità dei campi, con accanto sentinelle silenziose gli alberi d’argento [...].


Martin Shaw Briggs conclude il suo libro con queste parole:

Venga a visitare queste terre il viaggiatore […]. Dovunque egli vada, troverà tra questo popolo semplice la cortesia e riconoscerà di aver contratto molti debiti di gentilezza. E quando dovrà ripartire, sia che egli si allontani quando l’alba fuga la nebbia tra le palme e i giardini, o quando il sole che tramonta illumina con i suoi ultimi raggi la cupola splendente del Duomo, egli proverà una perenne affezione per la graziosa Lecce.

Dunque, tornando ad Arthur Symons: si può raccontare di un luogo solo se lo si ama o lo si odia, se per questo luogo si riesce a provare un sentimento assoluto, privilegiato. Allora non esisteranno solo paesaggi geografici ma anche “luoghi mentali”; esisterà anche un legame che va oltre il tempo e lo spazio, che permetterà al viaggiatore, purché attento e sensibile, di vivere questo Sud, di sentirne la passionalità, la seduzione, il richiamo. E di trasformare tutto questo in scrittura, nelle immagini di un verso, nel passo di una prosa.

Se l’incontro dei viaggiatori inglesi con il Salento ha motivato un racconto e un “catalogo” di immagini che in qualche caso anticipano cronologicamente alcune figurazioni che di questa terra hanno dato i nostri Bodini, Pagano, Verri e altri di cui si è dato qui qualche rapido esempio, allora significa che per loro il Salento, che in un primo momento può averli emozionati e stupiti, si è trasformato in un luogo interiore, fino a farsi oggetto di riflessione, di memoria, e quindi di racconto.

Loro, così lontani e diversi dalla terra e dalla gente salentina, forse hanno avvertito un senso di appartenenza a questa gente, a questa terra, anche solo per il tempo che è durato il viaggio, nella provvisorietà del tempo di un viaggio.

Loro, senza vincoli di sangue e senza stratificazioni di memoria, probabilmente sono riusciti a rintracciare la struttura originaria, libera da ogni sovrastruttura, la radice semantica da cui ha origine una “poetica” del Salento che perdura in una varietà di forme e di espressioni. Allora non è improbabile che possa essere verosimile una suggestione che si ritrova in uno degli itinerari tracciati in Salento d’autore:

Non bisogna esserci nato in questi luoghi. Non bisogna sentire il mito nell’aria che respiri. Non bisogna avere i destini impastatati con la storia. Non bisogna avere rimpianti, né memoria, né passioni vecchie e nuove.


Non bisogna conoscere strade e direzioni, né sapersi muovere tra i vichi ad occhi chiusi, né avere occhi abituati al vorticare della luce, né un pensiero capace di confrontarsi con le ombre, con le visioni che partorisce la controra.

Non bisogna aver appreso a sentirsi parte d’infinito guardando il mare dallo strapiombo di una torre, né pensare a se stesso come a una delle innumerevoli voci di un racconto, di uno di quei racconti che frastornano la luna.

Bisogna essere passante forestiero per capire questi luoghi, per riuscire a riconoscere la mistura di falso e di vero, a discernere la realtà dall’invenzione, la concretezza dall’apparenza, per sprofondarci dentro e scandagliare il senso che si nasconde sotto una pietra, nel vuoto superbo di un rosone, nelle leggende custodite dalle grotte, in un linguaggio che strascica le parole a cantilena.
Non bisogna aver udito i canti dei carrettieri, né rosari bisbigliati nella penombra delle chiese, non bisogna aver visto le anatre stramazzare sulle scogliere, né cavalli e uomini schiumare dentro i solchi, né tarantate che cercano un sollievo all’ossessione nello specchio d’acqua di un pozzo di scorpioni.

Non bisogna tutto questo, molto altro che questo, per capire la terra che adesso attraversi.

Se tu vieni da lontano puoi capire.

 

   
   
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