Giugno 2006

Quando l’ispirazione si fa Canto

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Poesia come musica
nella “Commedia” di Dante
Nicola Carducci
 
 

 

 

Il canto di Lia
presagisce
il risveglio dal sonno ed è preludio dell’imminente
incontro del poeta con Beatrice.

 

Un’esperienza didattica

Ero ancora in servizio nel “Palmieri” di Lecce, quando, un anno, mi capitò di avere in prima liceale un’allieva che studiava arpa nel Conservatorio musicale “Tito Schipa” della città: Giulia Celeste, che ora fa parte dell’Orchestra della Provincia. Si sa che nel primo trimestre l’opera minore di Dante è fondamentale per poi accostarsi alla lettura della Divina Commedia. La lezione, un giorno, riguardava la poesia del dolce stilnovo, nella specifica versione dantesca: «Io mi son un che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’ei ditta dentro vo significando». Fra gli altri testi, nei giorni successivi, mi trovai a spiegare un sonetto delle Rime, che riporto qui appresso, anche a probabile godimento, non solo estetico, degli eventuali miei lettori:

Guido, io vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi in un vascel ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio,
sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse il disio.
E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buon incantatore.
e quivi ragionar sempre d’amore:
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì com’io credo che saremmo noi.

[ed. Contini]

Il destinatario era Guido Cavalcanti, che nella Vita nuova Dante saluta «primo de li miei amici»; Lapo Gianni è uno della ristretta cerchia de «i fedeli d’Amore»; le tre monne (madonne) sono, rispettivamente, le donne di Guido, Lapo e Dante.
Lascio immaginare l’impressione suscitata da quel sonetto nell’animo di quegli adolescenti; sicché, quando io proposi che lo si rileggesse con l’accompagnamento dell’arpa, unanime esplose l’entusiastico consenso. Qualche giorno dopo era tutto pronto per il singolare evento, al quale, incuriositi, vollero assistere anche i compagni delle altre due classi del triennio. Era un esperimento didattico inedito: le vibrazioni al tocco dell’arpa, sintonizzate con l’armonia metrica degli straordinari endecasillabi danteschi, li coinvolgeva, con il padre della nostra lingua, nel suo «poetico sogno d’amore».

Cenni bio-bibliografici dell’autore

Ebbene, questo lontano episodio mi è subito venuto a mente nel leggere il penetrante saggio di Alessandro Cosi, Poesia come musica nella commedia di Dante (Lecce, Ed. del Grifo, 1996). L’amico e collega è venuto a mancare, non solo agli affetti, nell’aprile del 2005; era nato nel dicembre del 1922. Ha insegnato per alcuni anni nel biennio ginnasiale del “Palmieri” e, trasferitosi poi, per opzione, al liceo scientifico “De Giorgi”, ha tenuto la cattedra di italiano e latino. Laureato a Napoli con una tesi su Fogazzaro, al rientro dalla guerra, cui aveva partecipato fra le truppe di riserva, passò anch’egli attraverso le forche caudine dei primi concorsi ordinari del dopoguerra (anni Cinquanta), ancora attestati sul rigoroso modello gentiliano.
In giovane età aveva anche conseguito il diploma in violino, così da potere svolgere una lunga attività concertistica con orchestre da camera e lirico-sinfoniche nei maggiori teatri della Puglia. Mai, tuttavia, questa seconda professione ha intaccato la irreprensibilità del suo insegnamento. I citati concorsi ordinari imponevano, fra l’altro, una conoscenza minuziosa dell’opera di Dante e il possesso dei cento canti della Divina Commedia era la conditio sine qua non per il superamento del traguardo.
Il nostro amico disponeva dunque di tutte le armi, del violinista e del docente scaltrito, per affrontare l’improbo cimento dell’esegesi comparativa di musica e poesia dei 14.296 endecasillabi del Poema sacro. Sì, perché nella sua indagine li attraversa tutti, direttamente o tangenzialmente, con un massiccio apparato integrativo di note erudite o esplicative, di pertinenza musicale o letteraria. Un lavoro sui generis, che avvicina il lettore alla Commedia di Dante con un surplus di interesse, anche rispetto ai più autorevoli commenti di dantisti acclamati: dai contemporanei del poeta ai Pietrobono, Momigliano, Sapegno, ecc.

Ma va segnalato anche, a conferma della passione di Cosi per nostra maggior musa, un altro suo studio: Pascoli poeta-critico di Dante (Ed. del Grifo, 1992); in qualche modo singolare anche questo, perché, nell’analisi degli studi danteschi del poeta delle Myricae, è implicito il controverso problema, non della legittimità ma della obiettività ermeneutica, di un poeta che legge un altro poeta; e il caso del Pascoli nei riguardi di Dante è tra i più clamorosi nella storia della critica, come vedremo.

Prospettiva metodologica

Torniamo al libro Poesia come musica nella commedia di Dante, per avvertire subito che il nesso sintattico tra poesia e musica, istituito dalla particella come, designa non soltanto la peculiarità dell’angolazione investigativa dell’autore, ma anche il suo differenziarsi da studi precedenti di argomento analogo: Dante e la musica di A. Bonaventura (1904, rist. 1978), Suono e pensiero nella poesia dantesca di S. Frascino (1928), La musicalità di E. Pistelli Rinaldi (1967).
Così l’autore motiva il suo distacco: i su citati avevano rivalutato globalmente il ritmo poetico dantesco, come virtualmente musicale, indipendentemente dai luoghi del poema in cui «campeggiano figure e motivi propri dell’arte dei suoni», egli invece, nel rapporto poesia e musica in Dante, non espunge i passi musicali dal contesto in evoluzione del poema, ma li coglie e ricalca nella loro specificità continuativa, senza privilegiare, a seconda dei casi, ora il tema letterario ed ora il tema musicale.
Ne consegue che il ricorso frequente della musica in Dante non è un aspetto accessorio, «d’integrazione metaforico-descrittiva», bensì fattore determinante dell’atto creativo e dunque coefficiente di poesia con effetti, inoltre, di natura psicologica: di godimento spirituale e di placamento dell’animo dell’exul immeritus. L’episodio dell’incontro di Dante, appena giunto nel Purgatorio, con Casella, suo amico e musicista ne è la testimonianza più diretta. Il pellegrino gli chiede:

[…] Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!


E Casella intona la canzone che apre il libro III del Convivio:

“Amor che ne la mente mi ragiona”
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.


E l’amoroso canto suscita anche in Virgilio e in tutti gli altri spiriti, appena sbarcati anch’essi dall’Angelo nocchiero, le stesse risonanze interiori:

Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.
(Pg. II, 106-117)


La musica, la più elevata delle arti secondo il filosofo del dolore umano, Schopenhauer, si rivela qui, nel regno della purgazione, più potente, nel suo fascino, dello stesso bisogno naturale di “correre al monte” a purificarsi delle scorie terrene e ascendere sino alla visione di Dio.
Non è mancato in altri poeti il connubio intimo tra le due arti sorelle, ma in funzione puramente semantica o espressiva, come in Petrarca, Tasso, Leopardi, D’Annunzio (citati da Cosi), nel senso che la poesia tende a dissolversi più che a sublimarsi in musica. In Dante, invece, anche quando la musica non interviene formalmente nella poesia, con i ben noti riferimenti analogici, – scrive Cosi – rivolti alle abilità tecniche della voce umana ora all’uso di strumenti tipici del tempo, siano essi aulici quali l’arpa, il liuto, la giga e la viola, siano comunemente fruibili come l’organo; anche allora è spesso virtualmente presente:

essa vive nel topos di un quadro descrittivo e nell’atmosfera fantastico-sentimentale che vi si crea, nonché nel ritmo poetico che a volte si ispira ai caratteri della monodia, a volte e più spesso a quelli della coralità, tanto che poesia e musica si fondono in una sintesi artistica variamente raffigurata, a seconda del momento lirico che concorrono a rilevare.

La visione dell’aldilà, nella immaginazione del poeta, rappresenta motivo di esaltazione della musicalità, in un crescendo sempre più intensivo ed estensivo, a mano a mano che il pellegrino, col recupero dei caratteri propri della natura umana dopo la rappresentazione espressionistica dell’Inferno, con le «rime aspre e chiocce», ascende dalle balze del sacro Monte alle sfere celesti. Giova questo passo esegetico del nostro studioso:

Nell’Inferno, certe angosce, patite dai dannati senza tregua e fuori del tempo, sembrano trovare un’eco nel sinfonismo drammatico di Beethoven, segnatamente nella Marcia funebre e nell’ultimo tempo dell’Eroica; talune dolcezze del Purgatorio sono come riproposte in Haendel; alla coralità polifonica, spettacolarmente trionfante del Paradiso pare essersi ispirato il Palestrina.


Convergenze tecniche delle due arti

Indipendentemente dal carattere di perpetuità simbiotica del linguaggio poetico e musicale (e in Appendice II, si allegano stralci della versione musicale di figure e passi danteschi: dal Pater Noster e dalla Preghiera alla Vergine del Verdi alla Francesca da Rimini del Morlacchi e al Conte Ugolino del Donizetti), Cosi avverte l’esigenza metodologica della ricostruzione del tempo storico e culturale, in cui matura la poetica dantesca e la vocazione alla musicalità nella poesia, e lo fa, ovviamente, sulla base delle opinioni, valutazioni e giudizi che Dante dissemina nei suoi scritti. Si risale pertanto alla poesia trobadorica di Giraldo di Borneille e di Arnaldo Daniello, additato, quest’ultimo, «miglior fabbro del parlar materno» (Pg. XXVI, 117): vero maestro per Dante nell’arte di armonizzare le canzoni, che è come dire, nel predisporre ritmicamente la poesia per il suo rivestimento melodico. Di qui la particolare attenzione descrittiva nel libro II del De vulgari eloquentia: la felice accoppiata dell’endecasillabo (superbissimum carmen) e del settenario produce straordinari effetti melodici, in quanto la solennità del primo è bilanciata dalla dolcezza cantabile del secondo. Tra i contemporanei del poeta il Boccaccio, nel Trattatello in laude di Dante, e Benvenuto da Imola, nel Comentun super Dantem, gli attribuiscono un’«esperienza di pratica strumentale», perfezionata nel periodo dell’esilio e connessa all’acquisita musicalità trobadorica. Nel Convivio, II, XIII, 23, si legge, infatti,

la musica è tutta relativa, sì come si vede ne le parole armonizzate e ne li canti, dei quali tanto più dolce armonia resulta, quanto più la relazione è bella: la quale in essa scienza massimamente è bella, perché massimamente in essa s’intende. Ancora la Musica trae a sé li spiriti umani, che quasi sono principalmente vapori del cuore, sì che quasi cessano da ogni operazione.


La musica era una scienza del Quadrivio, che Dante aveva certamente studiato.
Infine, quale il veicolo linguistico per la armonizzazione dei versi da rivestire poi di melodia? Così si rifa, ovviamente, alla soluzione della questione della lingua, quale risulta dalle pagine del De vulgari eloquentia (Libro I). È il volgare illustre, che emerge dalla mediazione dei dialetti parlati nel “bel Paese” e ripuliti delle scorie municipali (di fatto però identificantesi con il toscano), la cui potenza comunicativa ed espressiva è tale da «rivoltare il cuore degli uomini, al punto da rendere volente chi non vuole e non volente chi vuole» («quid maioris potestatis est quam quod humana corda versare potest, ita ut nolentem volentem et volentem nolentem faciat?», De vulg. el., I, XVI, 6).

Ma è lo stesso Dante a rivendicare, nel suo poema, l’intrinseco rapporto tecnico di poesia e musica, nel definirlo, senza rischio di equivoci, «nihil aliud est quam fictio rethorica musicaque posita» (ivi, II, IV, 2: «non è altro che una finzione retorica e posta in musica»). Definizione, peraltro, come riconosce Cosi, che affonda la sua radice teorica e culturale nella tradizione classica, per la quale la musica non era un elemento accessorio della poesia, ma essenziale, unitario e inscindibile. Quintiliano, infatti, nella Institutio oratoria (IX, IV, 14), riflettendo sulle leggi naturali che intercorrono tra poesia e musica, asserisce che ritmo e suono costituiscono valori comuni alle due arti. Tant’è che la battuta musicale corrisponde al piede del verso greco e latino, poiché entrambi sono costruiti sulla quantità (di una breve, di una lunga, di una ancipite), cioè sulla durata dei suoni, e dunque, nel poema, il ritmo si è formato, prima, sulla durata naturale del tempo (aurium mensura), fenomeno squisitamente musicale, e, poi, lo si è applicato alla poesia, con la scansione dei piedi (mox in eo repertos pedes): fosse il dattilo o l’anapesto, fosse il trocheo o il giambo.

Inferno

Ora qualche esemplificazione, necessariamente cursoria, estrapolando fior da di fiore, lungo l’esegesi comparativa che copre tutti i canti, di volta in volta, delle tre cantiche. La materia dell’Inferno, «che il mal de l’universo tutto insacca», non è certo la più adatta a lasciarsi penetrare dalla espressività musicale, come invece lo sono il Purgatorio e, in misura maggiore, il Paradiso; e tuttavia, essendo la musica soprattutto armonia d’idee e poggiando la poetica della Commedia su una articolata robusta struttura concettuale, essa può riaffiorare tra le pieghe della straordinaria fantasia dantesca e dar vita, come conclude Cosi, ad un lirismo appassionato che, energicamente scandito, si nutre in ragione e in misura di un ambiente particolare, quale è il luogo «d’ogni luce muto», e di uno scenario sconosciuto e inconsueto. Esso lirismo allora serve a preparare la base armonica donde emergeranno le varie tenebrose figure di un dramma senza soluzione ed eterno.

È dunque una musica non bisognosa di analogie terrene bensì di analogie che operino autonomamente in situazioni imprevedibili, tali da dare risalto o alle monodie dolenti di singoli personaggi di particolare connotazione psicologica: da Francesca a Ciacco, da Farinata a Pier delle Vigne, da Brunetto Latini a Vanni Fucci, da Ulisse a Ugolino; oppure alle corali voci di mediazione delle anonime masse di dannati: Bestemmiavano Dio e lor parenti, / l’umana spezie e il loco e il tempo e il seme / di lor semenza e di lor nascimenti (III, 103-105); Quando giungon davanti a la ruina, / quivi le strida, il compianto, il lamento; / bestemmian quivi la virtù divina (V, 34-36); Fitti nel limbo dicon: “Tristi fummo / ne l’aere dolce che dal sol s’allegra, / portando dentro accidioso fummo: / or ci attristiam ne la belletta negra (VII, 121-124); Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: / ben dovrebb’esser la tua man più pia, / se state fossimo anime di serpi (XIII; 37-39).
È opportuno ribadire che l’interesse esegetico di Alessandro Cosi, nel ripercorrere l’intera area delle tre cantiche, non verte soltanto, pur se preminentemente, sull’aspetto musicale del tessuto narrativo, bensì anche, con pari acume, sull’aspetto estetico letterario, con maggiore evidenza nella delineazione dei personaggi, che si accampano centrali nella fantasia del poeta. Ecco Francesca, con il suo a solo, che, specialmente nell’età romantica, ha tanto stimolato l’attenzione ri-creativa dei musicisti; e Cosi, in una nota, ne dà notizia al lettore. Per conto suo, fa valere la fine sensibilità del violinista, nel rimemorare il racconto della infelice eroina dell’amore:

Siede la terra dove nata fui
su la marina dove il Po discende
per aver pace coi seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e il modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense.
(V, 97-106)


Postilla il nostro esegeta: esauritosi il recitativo di Virgilio che ha indicato a Dante «le donne antiche e i cavalieri», la sinfonia tragica registra una lunga pausa, quasi un tempo d’attesa che predispone al commosso a solo della donna, riempiendo da protagonista tutta la scena. Di fatto, però, Francesca interloquisce, come in un duetto, con Paolo, in apparenza muto, ma specie di spalla da teatro, che rivive da sé la dolente storia d’amore, nel suo crescendo drammatico: «quello dell’Amore gentile, dell’amore padrone inesorabile, dell’Amore dannazione eterna». Né la rievocazione di Francesca lascia il pellegrino dell’aldilà spettatore distaccato, ma anzi lo coinvolge da comprimario, «pronto ad intervenire secondo copione suggeriva»:

Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
(V, 139-142)


Saltando, con rammarico, tutti gli altri canti successivi, che il nostro critico illustra col metodo che conosciamo, ci limitiamo a scendere nel fondo del baratro infernale, insieme con lui che così ci introduce:

Dante si sente per la prima volta incapace di descrivere il male che vi domina sovrano, perché non ha le “rime aspre e chiocce”, idonee cioè all’ambiente che ospita i traditori: un’impotenza, questa, che comporta la caduta di ogni valore musicale e che è perciò sostanzialmente diversa da quella che il poeta confesserà di fronte a certe ineffabili bellezze celestiali nel suo Paradiso, quando il lirismo poetico e quello musicale costituiranno un’unità inscindibile e l’armonia delle voci terrene si sublimerà nel canto dei cori angelici.

Per i lettori di tutti i tempi, il conte Ugolino ha sempre rappresentato il richiamo più sensazionale tra i personaggi del cerchio infernale dei traditori; ed è automatico il riferimento a Francesca, per l’analogia archetipica dei sentimenti contrapposti di amore e odio, che restano temi eterni della grande drammaturgia, da Euripide a Shakespeare. Così commenta il nostro studioso:

L’a solo rievocativo di Ugolino comporta anch’esso, come già quello di Francesca, la presenza di una spalla muta, lì impersonata da Paolo, qui da Ruggeri, l’una e l’altra apparentemente inerti, in effetti legate al proprio partner con un nodo indissolubile […] E se il pianto di Paolo costituisce una ripresa musicale, quasi un’eco del dramma di Francesca, il silenzio di Ruggeri non è meno eloquente.

Canti paralleli, dunque, ambivalenti entrambi: Ma dimmi: al tempo dei dolci sospiri, / a che e come concedette amore / che conosceste i dubbiosi disiri? (V, 118-120); «O tu che mostri per sì bestial segno / odio sovra colui che tu ti mangi / dimmi il perché», diss’io (XXXII, 133-135). Da una dettagliata nota in calce, apprendiamo che, come per Francesca, pari è stato l’interesse dei musicisti per Ugolino: da Vincenzo Galilei (il padre dello scienziato) a Rossini, a Morlacchi, a Donizetti.

Purgatorio

Se l’individualità disperata domina nella dimora eterna dei dannati e ad essa corrisponde la più funzionale musicalità monodica, nel regno della espiazione si ricompone e si celebra il monito cristiano della fratellanza e il principio evangelico della solidarietà fra le anime redimende e ad esse fa dunque riscontro, correlativamente, il coinvolgente ritmo melodico, preludio alla susseguente scansione polifonica dei vari canti. Riportiamo subito qualche scampolo in chiave meramente descrittiva:

Questa isoletta intorno ad imo ad imo
là giù colà dove la batte l’onda,
porta dei giunchi sovra il molle limo:
null’altra pianta che facesse fronda
o indurasse, vi puote aver vita,
però ch’a le percosse non seconda.
(I, 100-105)

 

E poco più avanti, per introdurre alla preghiera serotina delle anime nella valletta dei principi negligenti, con una trasposizione esistenziale terrena, sintomatica di una residuale vena di nostalgia:

Era già l’ora che volge il disio
ai naviganti e intenerisce il core
lo dì ch’han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more.
(VIII, 1-6)



«Musicus fuit», dice Benvenuto da Imola del poeta; convincimento ripetuto nei secoli e ribadito, in età romantica, con maggiore autorevolezza, da Thomas Carlyle, che include Dante insieme con Shakespeare nella categoria degli «eroi della poesia»:

Il suo poema, scrive, è, sotto ogni aspetto, essenzialmente un canto […] Si legge tutto di seguito, come una specie di salmodia […] L’essenza e la materia dell’opera sono esse stesse ritmiche […] Dante incarna musicalmente la religione del Medio Evo, la religione della nostra Europa moderna e la sua vita interiore [...] Pur che approfondiate abbastanza, c’è musica da per tutto. Regna in essa una vera intima simmetria, un’armonia architettonica, che partecipa pure del carattere musicale.

È appunto la traccia che il nostro esegeta persegue, nella rilettura della seconda cantica, con una verifica testuale della simbiosi poesia-musica, più particolareggiata rispetto all’Inferno; e il canto solistico e corale, già presente nell’Antipurgatorio, tende ad allargarsi

sino a dominare coinvolgendo unità di spiriti sempre più numerosi, via via che si sale, di cornice in cornice, sino alla vetta del sacro Monte, e diventare sinfonia totale nel Paradiso Terrestre, dove la presenza musicale registra toni e colori sempre più tipici, eloquente preludio alla musica dell’ineffabile che ascolteremo nei cieli empirei.

Considerazioni, queste, che si giovano del supporto critico del De Sanctis, per il quale le anime del purgatorio sono «esseri musicali, che escono dalla loro coscienza individuale, assorte in una stesso spirito di carità».
Ad apertura, il lettore è colpito dalla musicale ondulazione di due terzine che schiudono un profilo paesaggistico, esteticamente giocato su una sinestesia visiva e uditiva:

L’alba vinceva l’ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina.
Noi andavam per lo solingo piano
com’om che torna a la perduta strada,
che infino ad essa li pare ire invano.
(I, 115-120)

E la chiosa del nostro Cosi vi coglie aspetti artistici che normalmente sfuggono al commentatore che si appaga della pura letterarietà del testo.

In chiave musicale, il mormorio del mare che si annuncia da lontano fa pensare ad un tremolio d’archi che si leva piano e sottovoce e poi cresce, quasi fisicamente visibile, sino a creare una sensazione unica, una volta che s’è confusa con il quadro delle acque increspate della brezza mattutina.

Il Purgatorio, si sa, è la cantica degli artisti; Dante ne ha incontrati tanti, tra i vari gironi; e, fra l’altro, immagina di essersi imbattuto con Virgilio, tra i negligenti dell’Antipurgatorio, nel liutaio fiorentino Belacqua, col quale intrattiene un colloquio tra confidenziale e umoristico, come tra vecchi amici. Come racconta l’Anonimo (nel suo Commento alla Divina Commedia, citato da Cosi), Dante era solito recarsi a trovare Belacqua nella sua bottega e intrattenervisi sino all’ora del pranzo,

e molto il riprendea di questa sua negligenza; onde un dì riprendendolo, Belacqua rispose colle parole di Aristotele “sedendo et quiescendo anima efficitur sapiens”. Di che l’Autore [Dante] rispose “per certo, se per sedere si diventa savio, niuno fu mai più savio di te”.


A sua volta, così intende il nostro studioso, da esperto di musica e di musicologia:

Ma codesta saggezza di Belacqua – a parte l’affettuosa canzonatura dell’amico Dante – non rivela forse il suo vero carattere, quello che si manifesta nell’amorevole pazienza con cui costruisce i suoi strumenti? E quella sua pigrizia non è anche in armonia con il ritmo lento e monotono, proprio del lavoro di liuteria?


Alessandro Cosi si muove a suo agio nel mondo poetico-musicale del Purgatorio, lungo le cui balze dell’Antipurgatorio e le sette cornici seguenti, echeggiano, cantati in coro dai penitenti, nei loro specifici ambienti di redenzione, gli inni della liturgia della Chiesa: dall’approssimarsi degli spiriti imbarcati dall’Angelo (In exitu Israel de Aegypto / cantavan lutti insieme ad una voce / con quanto di quel salmo è poscia scritto: II, 46-48) alla coscienza della colpa e la domanda del perdono dei “morti per violenza” (E intanto per la costa di traverso / venivan gente innanzi a noi un poco / cantando Miserere a verso a verso: V, 21-24); dal desiderio di accelerare il cammino della espiazione con l’invocazione alla Vergine nella valletta dei principi negligenti (Salve, Regina in sul verde e in su i fiori / quindi veder cantando anime vidi, / che per la valle non parean di fuori: VII, 81-84), alla preghiera della sera, col calare delle ombre nella valletta e nell’imminenza della discesa di due angeli in difesa degli spiriti dall’assalto della “mala striscia” (“Te lucis ante” sì devotamente / le uscio di bocca e con sì dolci note, / che fece me a me uscir di mente; / e l’altre poi dolcemente e devote / seguitar lei per tutto l’inno intero, / avendo li occhi a le superne rote: VII, 13-18).
L’avvio monodico di una delle anime, per la legge della solidarietà nella sofferenza redentrice, si scioglie e sublima nella partecipazione corale delle altre. È reso poi liturgicamente più solenne il passaggio dall’Antipurgatorio alla prima cornice col canto all’unisono dell’inno di lode per antonomasia (Io mi rivolsi attento al primo tuono, / e “Te Deum laudamus” mi parea / udire in voce mista al dolce suon. / Tale imagine a punto mi rendea / ciò ch’io udiva, qual prender si suole / quando a cantar con organi si stea; / ch’or sì or no s’intendon le parole (IX, 139-145).
Sorvolo anche qui, necessariamente, sui puntuali richiami dotti che ulteriormente accreditano la precisione critico-musicale di Cosi: da Verlaine, che identifica la poesia nella musica, all’Auerbach, con la sua interpretazione figurale, ai D’Ovidio, Parodi, Pagliaro, Chimens, Vallone, Marti, Mila, con le pagine dedicate a “Verdi e Dante”. E l’elenco potrebbe continuare a dimostrazione della vasta area culturale, che penetra il suo discorso epidittico, sia nell’ambito delle figure simbolicamente più pregnanti, da Manfredi (c. III) a Buonconte da Montefeltro (c. V), a Sordello (c. VI), a Currado Malaspina (c. VIII), a Marco Lombardo (c. XVI), a Forese Donati (c. XXIII); da Pia dei Tolomei (c. V) alla femmina balba, apparsagli in sogno (c. XIX), a Lia e Rachele, in sogno anche queste, ma di tutt’altro segno (c. XXVII), a Matelda in vetta alla montagna, nella divina foresta (c. XXVIII). Ma non meno in relazione ai siti categoriali della topografia dell’aldilà, dove l’umano spirito si purga / e di salire al ciel diventa degno; ossia, nella specifica dislocazione assegnata alle varie anime dalla Giustizia suprema non disgiunta da la bontà infinita [che] ha sì gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei.
Soffermiamoci per poco sulle figure femminili sopra evocate, per riprendere poi il filo esegetico del nostro autore. Dante è nel girone degli accidiosi e cade in un profondo sonno, in cui gli appare una femmina balba / ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, / con le man monche, e di colore scialba; il poeta la guarda e, suo malgrado, la trasfigura in dolce sirena canora. Altra apparizione attira poi l’attenzione del pellegrino smarrito: una «donna santa e presta», che si affretta a smascherare la seduttrice, «fendendo i drappi» e sprigionandone un tal «puzzo» da svegliarlo.
L’ascesa per la montagna è naturalmente faticosa per il nostro pellegrino, non ancora sgombro della «carne d’Adamo». Perciò Dante ha immaginato d’essere stato colto dal sonno per tre volte, l’ultima in prossimità della “foresta spessa e viva” del Paradiso Terrestre, con un sogno, presago anche questo (anzi che il fatto sia, sa le novelle):

Giovane e bella in sogno mi parea
donna vedere andar per una landa
cogliendo fiori; e cantando dicea:
«Sappia qualunque il mio nome dimanda
ch’io mi son Lia, e vo movendo intorno
le belle mani a farmi una ghirlanda.
Per piacermi a lo specchio,
qui m’addorno;
ma mia suora Rachel mai non si smaga
dal suo miraglio, e siede tutto giorno.
Ell’è dei suoi belli occhi veder vaga
com’io de l’addornarmi con le mani;
lei lo vedere, e me l’ovrare appaga».
(XXVII, 97-108)

Tralasciamo la fin troppo evidente allegoria delle due figure, per richiamare l’attenzione su una terza donna, Matelda, che «appresterà il salutar lavacro», e a tal fine rimane presenza decisiva dal XXVIII al XXXIII della cantica. La poesia come musica raggiunge, in questi canti finali, l’apice della potenza espressiva, non senza l’essenziale apporto del paesaggio edenico (Un’aura dolce senza mutamento / avere in sé, mi feria per la fronte / non di più colpo che soave vento; / per cui le fronde, tremolando, pronte / tutte quante piegavano a la parte / u’ la prim’ombra gitta il santo monte; XXVIII, 7-12).
Giova inoltre un altro pur minuscolo scorcio del paesaggio, che ora diventa paesaggio ideale, archetipico. Di là dal «fiumicello» (il Letè), appare a Dante «una donna soletta che si gìa / e cantando e scegliendo fior da fiore / ond’era pinta tutta la sua via». Allo stupore per tal vista si unisce il desiderio di «intendere» che cosa canta: e Matelda acconsente, avvicinandoglisi:

Come si volge, con le piante strette
a terra e intra sé, donna che balli,
e piede innanzi piede a pena mette,
volsesi in su i vermigli e in su i gialli
fioretti verso me, non altrimenti
che vergine che li occhi onesti avvalli;
e fece i prieghi miei esser contenti,
sì appressando sé, che il dolce suono
veniva a me coi suoi intendimenti.
Tosto che fu là dove l’erbe sono
bagnate già da l’onde del bel fiume,
di levar li occhi suoi mi fece dono.
(ivi, 52-63)

Stralciamo dal commento del nostro Cosi:

Lia, oltre che nel rapporto mistico di vita attiva e di vita contemplativa, prefigura Matelda anche nel canto: l’una canta nella visione che ha il poeta - come era già avvenuto per la femmina balba -; dell’altra è descritto il canto reale. Entrambi i canti, monodici, preludono alle melodie del Paradiso. Tecnicamente parlando, il canto di Lia, il quale ha la movenza di una ballata e il ritmo di un madrigale, riecheggia un po’ la cosiddetta Ballata della ghirlandetta, quella che, tra le Rime di Dante, fu probabilmente rivestita da una melodia (vd. Rime, ed. Contini).

 

Anche se, lo ripetiamo con Cosi, la Ballata è d’intonazione idillico-amorosa, mentre il canto di Lia presagisce il risveglio dal sonno ed è preludio dell’imminente incontro del poeta con Beatrice: incontro mediato da Matelda. Il canto XXVIII, del quale, qui dietro non abbiamo potuto riportare che pochi versi dell’ouverture, per Cosi rappresenta un quadro policromo che rispecchia la natura primaverile della «foresta spessa e viva», le cui foglie con il loro tremolio accompagnano il canto intonato dagli uccelli:

Come in una tessitura contrappuntistica che operi sulla melodia principale, detta anche tenor e con l’apporto di modulazioni variate che potrebbero costituire una sorta di discanto […]; tutta la visione della foresta attraversata dal mormorio di foglie e di canti è virtualmente un interludio sinfonico che si leva tra il canto di Lia e quello venturo di Matelda […]. Sinfonismo puro e di straordinario colore impressionistico, diremmo debussiano, capace com’è di coinvolgere chi ascolta in una rete di sensazioni auditive e visive insieme, attraverso un sottile intreccio di colori e di suoni, percepibile per una serie di assonanze ricavabili dalle rime interne ed esterne e che si possono assommare in due gruppi […] costituendo così una singolare geometria musicale (nel testo segue il grafico dei due gruppi).

Compiuto il rito della duplice immersione nel Letè, che ha il potere di far dimenticare il «mal vissuto», e nell’Eunoè, che risveglia la memoria del bene compiuto in vita, agente Matelda, il poeta pellegrino conclude la seconda traversata del suo viaggio ultraterreno:

Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinnovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire a le stelle.
(XXXIII, 142-145)



Paradiso

«Come cresce bellezza d’animo, così cresce bellezza di melodia»: è un passo tratto dal commento denominato Ottimo dell’età di Dante, che Alessandro Cosi appone quale epigrafe alla sezione del suo volume, dedicata alla terza cantica, costituendone quasi il sigillo. Prima della esplicitazione esemplificativa, riportiamo qualche scorcio dalle pagine introduttive:


L’armonia strutturale della Commedia, che si presenta come il risultato di una corrispondenza costante tra le componenti ideologico-morali e le risultanze lirico-estetiche […] non poteva sperimentare meglio la sua complessa identità se non nella stessa armonia sovrannaturale, rappresentata dalla sinfonia delle sfere celesti.

Né l’armonia dei cieli poteva esaurirsi in una esperienza sensibile, visiva e auditiva, quale viene evocata dal poeta nel canto primo (Quando la rota che tu sempiterni / desiderato, a sé mi fece atteso / con l’armonia che temperi e discerni, / parvermi tanto allor del cielo acceso / de la fiamma del sol, che piaggia o fiume / lago non fece alcun tanto disteso: I, 76-81); esaurirsi cioè in un rapporto intercorrente tra moto, luce e suono, elementi poi sempre costanti lungo l’ascensione dello straordinario pellegrino, bonaventurianamente mistica; bensì implicare, di sfera in sfera, anche una tensione tomisticamente razionalistica, in funzione percettiva di una Verità assoluta, di per sé gratificante e da rivelare all’universo mondo. Lo investirà di questo compito il trisavolo Cacciaguida, nel predirgli il futuro di exul immeritus:


[…] Coscienza fusca
o de la propria o de l’altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.
Ma nondimen, rimossa ogni menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna.
(XVII, 124-129)

 


L’epos della vita interiore si risolve espressamente in un tema sinfonico: nel Paradiso, dunque, la poesia come musica si manifesta in una molteplicità di occasioni, che non può avere riscontri nelle altre due cantiche: rivelandosi la vita interiore, nell’Inferno, come dramma irresolvibile, e nel Purgatorio, come elegia dolente e fiduciosa. Il tratto peculiare è, invece, tra i beati, la «dolce sinfonia di Paradiso», che si dilata e si intensifica di cielo in cielo, in corrispondenza della psicologia degli spiriti e del potere attrattivo da essi esercitato nella categoria di appartenenza. Ne è solenne preludio programmatico la eccezionalità del suono e della luce che il viator ultraterreno avverte nel distaccarsi dal Paradiso Terrestre e salire sino alla sfera del fuoco: la novità del suono e il grande lume / di lor cagion m’accesero un disio / mai non sentito di cotanto acume (I, 82-84). Citiamo un interessante passo del discorso di Cosi:

Dante aveva presente la teoria pitagorica e platonica dell’armonia prodotta dal movimento delle sfere celesti. Teoria che Aristotele aveva rifiutato e l’aristotelismo scolastico di Alberto Magno e di Tommaso d’Aquino continuò a respingere come erronea. A Dante invero essa era arrivata indirettamente come filtrata attraverso la Politeia di Platone, la Repubblica di Cicerone e i Commentari di Macrobio, prima, dalla dottrina popolare poi (relativi rimandi, in nota).


Il primo saggio di canto liturgico a una voce è quello di Piccarda che, a suggello del suo colloquio con Dante, intona l’Ave Maria, «la preghiera più dolce dell’innografia cristiana»: preghiera che, per una delle non poche simmetrie dantesche all’interno del Poema sacro, ricompare per bocca di San Bernardo, nell’ultimo canto: «Vergine madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio» (XXXIII, 1-3). Tra i vari musicisti, annota il musicologo, che si ispirano al passo dantesco, il Verdi con l’Ave Maria (1879) ottenne il risultato migliore: «il pezzo consiste in una dolce melodia solistica per Soprano, sostenuta da armonie affidate a soli archi». E la genesi dell’armonia, sottolinea ancora Cosi, torna nelle parole di Giustiniano: «Diverse voci fanno dolci note; / così diversi scanni in nostra vita / rendon dolce armonia tra queste rote» (VI, 124-126): armonia ripresa e ricalcata, a passo di danza, col canto di alcuni versetti latini della Vulgata di San Girolamo: «Osanna, sanctus Deus sabaòth, / superillustraus claritate tua / felices ignes horum malacòth» (VII,1-3). Ricalco sintomatico che segue alla esaltazione della figura di Romeo da Villanova, exul immeritus anch’egli, vittima di calunnie cortigiane:

Indi partissi povero e vetusto;
e se il mondo sapesse il cor ch’elli ebbe
mendicando sua vita a frusto a frusto,
assai lo loda, e più lo loderebbe.
(VI, 139-142)


Non potendo, in questa sede, seguire Cosi in tutto il suo itinerario esegetico, ci limitiamo a qualche altro passaggio a conferma della catturante singolarità della sua chiave di lettura. L’intreccio di canto e danza, segnacolo estremo della «poesia come musica», è ormai un dato strutturale acquisito dalla fantasia del poeta, nel regno dell’aldilà «che solo amore e luce ha per confine». Nel cielo di Venere, nella prospettiva ermeneutica di Cosi, si segnala il primo saggio di polifonia celeste nella rappresentazione degli spiriti amanti, disposti in cerchio come anelli di una mistica catena:

E come in fiamma favilla si vede,
e come in voce voce si discerne,
quand’una è ferma e altra va e riede,
vid’io in essa luce altre lucerne,
muoversi in giro più e men correnti,
al modo, credo, di lor viste interne.
(VIII, 16-21)


Riguardo al riferimento musicale contenuto nella prima terzina, va precisato, con Cosi, che, se nella Commedia prevalgono i canti all’unisono, la polifonia, al tempo di Dante, aveva già fatto notevoli progressi, come si rileva dalle due voci che dialogano «in forma di organum melismatico», cioè quando «una è ferma [tenor] e l’altra va e riede [superius]». Ed in proposito nel libro si forniscono utili cenni storico-tecnici, sul canto gregoriano e sulla liturgia ecclesiale, nell’Appendice I.
La polifonia è ancora più marcata nel cielo del Sole, tra spiriti sapienti, che in numero di ventiquattro si presentano a Dante e Beatrice disposti in corone: l’una guidata da Tommaso d’Aquino e l’altra da Bonaventura da Bagnoregio:

Io vidi più folgòr vivi e vincenti
far di noi centro e di sé far corona,
più dolci in voce che in vista lucenti […]
Poi, si cantando, quelli ardenti soli
si fuor girati intorno a noi tre volte,
come stelle vicine ai fermi poli,
donne mi parver, non da ballo sciolte,
ma che s’arrestin tacite ascoltando
fin che le nove note hanno ricolte.
(X, 64-66 e 76-81)


La scena di danza figurata riproduce la canzone a ballo, o ballata (che Dante illustra nel De vulgari eloquentia, II, VII, 6 e III, 5-6), sicché, nel successivo riprendere a girare intorno ai due, l’immaginazione del poeta evoca la ruota di un orologio, che chiama in chiesa a cantare il Mattutino in onore di Cristo:

Indi, come orologio che ne chiami
nell’ora che la sposa di Dio surge
a mattinar lo sposo perché l’ami,
che l’una parte e l’altra tira e urge,
tin tin sonando con sì dolce nota,
che il ben disposto spirto d’amor turge.
(X, 139-144)


Nel cielo di Marte, tra gli spiriti combattenti per la fede, una raffinata analogia musicale descrive la dolcezza di una eccezionale melodia celeste, nella quale non si distinguono le parole ma che è perciò stesso più intensamente percepita nel suo insieme sino al “rapimento”.

E come giga e arpa, in tempra tesa
di molte corde, fa dolce tintinno
a tal da cui la nota non è intesa,
così dai lumi che lì m’apparinno
s’accogliea per la croce una melode
che mi rapiva, sanza intender l’inno.
(XIV, 118-123)


Eccezionale, si diceva, perché allo sguardo del pellegrino si offre una moltitudine di spiriti luminosi, che «scintillando forte» si muovono dall’uno all’altro braccio di una croce greca, lungo la lista radiale. Il poeta ci introduce così nel trittico (canti XV, XVI e XVII), centrale nella cantica, perché particolarmente inerente all’exul immeritus per il suo incontro qui con Cacciaguida che gli predice l’esilio:

Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti s’apparecchia.
Qual si partio Ippolito d’Atene […]
(XVII, 43-46)


Questo è il momento clou della visione, scrive Cosi, e il poeta ancora una volta ricorre alla musica: di nuovo l’organo è protagonista dell’artistica rievocazione; uno strumento che parla sottovoce e fa nostalgia con quei suoni smorzati che sembrano venire da lontano, preludio misterioso dell’ultima e crudamente esplicitata profezia dell’esilio.
Proseguiamo nell’analisi. Non meno prodigiosa, nel successivo cielo di Giove, tra gli spiriti giusti, è la loro disposizione progressiva in lettere («nostra favella»), che scandiscono la sentenza biblica: diligite iustitiam qui iudicatis terram, e il conseguente evolversi della lettera finale emme nella figura di un’Aquila parlante:

E quel che mi convien ritrar testeso,
non portò voce mai, né scrisse incostro,
né fu per fantasia già mai compreso;
ch’io vidi e anche udii parlar lo rostro,
e sonar ne la voce e “io” e “mio”,
quand’era nel concetto e “noi” e “nostro”.
(XIX, 7-12)


Quanto stesse a cuore a Dante il tema della giustizia anche terrena è documentato da tante sue pagine, e perciò non stupisce che al cielo dei giusti abbia dedicato tanto spazio quanto a quello dei militanti per la fede. E dei tre canti relativi, il XX è quello musicale per eccellenza, a giudizio di Cosi, per il quale la poesia, quando tocca l’apice espressivo, diventa essa stessa musica. Qui, quando il rostro dell’Aquila tace, gli spiriti sempre più luminosi intonano canti, che, «labili e caduci», svaniscono dalla memoria del poeta. Tra i giusti rifulgono di particolare splendore due pagani, l’imperatore Traiano, che per il suo alto senso di giustizia «la vedovella consolò del figlio», ed uno dei compagni di Enea, di nome Rifeo, «iustissimus unus qui fuit in Teucris et servantissimus aequi» (Eneide, II, 426-427). Cediamo la parola a Cosi:

Alla fine dello steso canto XX, alle ultime parole dell’Aquila fa riscontro lo scintillio delle fiamme che circondano le anime di Rifeo e di Traiano; Dante paragona codesto assenso dei due pagani all’atto di un esperto citaredo che accompagna con una serie di accordi un bravo cantante: la scena ritrae uno squarcio di musica pagana, eseguita da un duo abile e affiatato; nella quale, se al cantore è riservata la parte principale, è compito del citarista sostenere la melodia, come se lo strumento, esso solo, sia capace di dare il giusto rilievo a quella voce:
E come a buon cantor buon citarista
fa seguitar lo guizzo de la corda,
in che più di piacer lo canto acquista,
sì, mentre ch’ei parlò, sì mi ricorda
ch’io vidi le due luci benedette,
pur come batter d’occhi si concorda.
(XX, 142-147)


Ancora, non più che qualche altro fugace riscontro del libro anche per ribadire la corrispondenza tra le componenti ideologico-morali e le risultanze lirico-estetiche, subordinate entrambe alla riaffermazione dei valori umani universalmente riconosciuti, anche se storicamente entrati in crisi con il mutare dei tempi.
Nel cielo delle stelle fisse, si assiste al trionfo di Cristo, di Maria e dei Beati, e insieme al trionfo di parola e musica, entrambe chiamate ad esprimere esperienze sovrannaturali. Leggiamo le terzine:

Qualunque melodia più dolce suona
qua giù e più a sé l’anima tira,
parrebbe nube che squarciata tona,
comparata al sonar di quella lira
onde si coronava il bel zaffiro
del quale il ciel più chiaro s’inzaffira.
(XXIII, 97-102)


e il nostro esegeta:

Il linguaggio stesso subisce una profonda trasformazione, ridisegnato in funzione musicale, come dimostrano certe rime che si prestano ad una suddivisione in almeno tre gruppi, in ciascuno dei quali circolano assonanze diverse: rime in ella e in ere; rime in ona, in ora, in oro, in ori; rime in ira, in iro, in iva. Molti di codesti suoni, che liberamente si trovano nella terza cantica, nel canto XXIII tornano come consociati, perché chiamati a descrivere un momento solenne e commovente della visione, l’incoronazione della Vergine che segue al trionfo di Cristo.


Ne era stato antesignano l’arcangelo Gabriele (XXIII, 103-111), alla cui Ave Maria, intonata nell’Empireo (XXXII, 94-99), risponde dialogando «omnis chorus angelorum et beatorum», con il secondo versetto della preghiera stessa: Dominus Deus noster est tecum, benedicta tu de mulieribus. Poi lo straordinario viator ultraterreno assiste all’ultima sinfonia di Paradiso e di tutta la visione, la cui ultima scena conclusiva racchiude in sé luce, canto e letizia, «fuse in un’unica, circolare, perenne armonia». La poesia come musica, che vibra nella preghiera di San Bernardo, raggiunge l’acme del sublime nell’antifrasi finale:

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e il velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
(XXXIII, 142-145)


Osserva Cosi:

La preghiera di San Bernardo, anche se formalmente non ha a che fare con la musica, è virtualmente pervasa da un lirismo melodico, sostenuto da un ardore mistico intenso, ma ritmicamente controllato. Lo provano le musicazioni, più o meno riuscite, elaborate a partire dal secolo XVI […] Ma la fama doveva premiare solo Verdi (M. MILA, Verdi e Dante, in L’arte di Verdi, Torino, Einaudi, 1980).


Pascoli poeta-critico di Dante

Il titolo del saggio di Alessandro Cosi è di per sé indicativo del taglio ricognitivo, qui adottato, nella lettura degli ardui studi pascoliani su Dante (quasi duemila pagine in ventidue anni), in massima parte raccolti nei tre più noti volumi, Minerva Oscura, che esce nel 1898, Sotto il velame, nel 1900, e La mirabile visione, nel 1901, cui vanno aggiunti altri, a cura della sorella Maria, nella edizione postuma, Conferenza e studi danteschi (1914).
Poeta-critico che equivale a dire che Pascoli finisce per applicare i dettami della sua poetica decadente nell’interpretazione dell’opera di Dante, dalla Vita nuova alla Divina Commedia; con la scontata conseguenza che gli scritti pascoliani giovano più a conoscere i fondali della poetica del “fanciullino” e assai meno l’opera di Dante, nella sua inconfondibile autenticità; a risalire cioè alle sorgenti del gusto dell’autore delle Myricae e assai meno alle radici misteriose della segreta anima dantesca. Pur riconoscendo l’imponente dottrina, profusa dal Pascoli nelle sue pagine e che spazia, con assoluta familiarità, dal mondo classico a quello medievale, dalla Bibbia alla Patristica, alla Scolastica, resta il fatto che la sua interpretazione è in gran parte fuorviante dalla secolare consolidata tradizione dell’esegesi dantesca. Non è irrilevante che la stesura di questi suoi studi ermeneutici proceda pressoché parallela con la produzione poetica pascoliana, dalle prime Myricae ai Carmina, dal 1891 al 1911, perché è comune, nei due percorsi, lo stato d’animo ingenuo e incantato del “fanciullino”; con la variante, però, che questo stato d’animo ha reso possibile una radicale innovazione nel linguaggio della poesia italiana, cui è debitore gran parte del Novecento, mentre labili e incerte tracce ha lasciato nella storia della critica dantesca (cfr. A. Vallone, Il pascolismo allegorico-morale, in La critica dantesca contemporanea, Pisa, Nistri-Lischi, 1953).
Torniamo ad Alessandro Cosi, per il quale:

I saggi danteschi del Pascoli, se ai loro tempi non ebbero – né in realtà potevano avere, dati gli ambienti culturali in cui erano maturati – il riconoscimento ufficiale che l’Autore si aspettava, hanno tuttavia costituito, nell’arco di un secolo un punto di riferimento costante e ineludibile, anche se talvolta inficiato da pregiudizi frettolosi e malevoli, per le tappe percorse dalla critica militante sino ai nostri giorni.

 

L’intento del nostro studioso è dunque quello di un recupero del Dante pascoliano, per quel tanto che esso può conservare di ancora fruibile, se non in senso strettamente esegetico, almeno sul piano dell’erudizione; in linea, peraltro, con uno dei suoi Maestri dell’Ateneo napoletano, Salvatore Battaglia, il più impegnato e convinto – postilla l’allievo – nella ricostruzione critica, non preconcetta dell’originale interpretazione, data a suo tempo dal Pascoli all’opera di Dante. Personalmente, però, non ritengo che si possa contestare che detti studi pascoliani nascano condizionati da un fervore mistico, che ignora le ragioni profondamente poetiche della Commedia, la complessa humanitas dell’ispirazione dantesca, di qua dalle implicazioni allegorico-morali. Leggiamo un passo della dedica di Minerva Oscura:

 

Era da cinque anni il mio lavoro segreto e prediletto: lo meditavo per giorni interi e ne sognavo (sorrida o rida chi vuole; ma è vero) le notti. Era la mia compagnia, il mio conforto, il mio vanto. Dai dispregi che mai non mi sono mancati, io mi rifugiavo nell’oscuro tesoro delle mie argomentazioni e divinazioni; le contavo e ripetevo, e ne uscivo raggiante di solitario orgoglio. Aver visto nel pensiero di Dante! Io ricordavo spesso quell’affermazione, che si legge nel Convivio di lui e che è riportato nel cap. II di questi Prolegomeni: La vera sentenza… per alcuno vedere non si può, s’io non la conto; ed estendevo alla Commedia ciò che egli dice delle canzoni conviviali; e soggiungevo: E io, la vera sentenza, io la ho veduta! Sì, io ero giunto al Polo del mondo dantesco, di quel mondo che tutti i sapienti indagano come opera di un altro Dio! Io avevo scoperto, in un certo modo, le leggi di gravità di questa altra Natura, e questa altra natura, la ragione dell’Universo Dantesco, stava per svelarsi tutta!


È chiaramente un approccio aprioristico, gratuitamente divinatorio, che la critica dantesca, dei D’Ovidio, Ascoli, Carducci, Barbi, Comparetti, D’Ancona, respingeva drasticamente; e la Minerva Oscura fu subito battezzata “Minerva Oscurata”.
Né migliore accoglienza ottenne il successivo Sotto il velame, che aveva il compito di chiarire o integrare oscurità e argomentazioni, segnalategli da amici e sodali, dal Pietrobono (autore del notissimo commento della Commedia) a Luigi Valli (che ai lavori pascoliani dedicherà due amplissime ricerche: Le allegorie di Dante secondo Giovanni Pascoli e Il segreto della Croce e dell’Aquila nella Divina Commedia), a Ermenegildo Pistelli, filologo tra i più agguerriti ed emerito dantista egli stesso (oltre che curatore dell’edizione critica dei Carmina pascoliani).
Ebbene, proprio dal Pistelli furono espresse pesantemente riserve, pur se in forma larvata, come ci riferisce il nostro Cosi:

Tornarono puntuali quando l’amico Pistelli non senza impaccio recensiva Sotto il velame sul Bullettino della Società Dantesca, per incarico dello stesso Barbi. Il Pistelli, sia pure con toni sfumati, condannava lo stile involuto dell’opera; ma l’attacco alla forma era solo una garbata metafora, giacché le accuse erano in sostanza dirette al metodo, nel senso che al Pascoli non veniva riconosciuto nessun metodo, essendo egli andato avanti sotto la spinta di occasionali intuizioni. Insomma, al massimo gli si concedeva […] la pretesa di aver tentato il disegno mistico della Commedia, la cui scoperta l’incauto critico rivendicava a sé solo, con orgogliosa quanto ingenua sicurezza (rimando con Cosi a Vallone, Dante e Pascoli nelle lettere inedite di Pistelli e Pietrobono, nella raccolta Capitoli pascoliano-danteschi, Ravenna, Longo, 1967).


Della recensione del Pistelli si dolse il Pascoli, al punto da definirlo (ipersensibile e ombroso qual era), in una lettera a Pietrobono, «amico di tutti i miei nemici», quasi «un traditore». Ma anche per un altro motivo, il Pistelli, in virtù del vecchio principio “magis amica veritas”, era intervenuto, e in proposito fa luce il paragrafo I precursori del Pascoli. Questi sono da individuare nel Foscolo, per certa concezione laica ed anticuriale che Dante avrebbe simbolicamente esposto nella Commedia (la nota tesi foscoliana del ghibellinismo dantesco di contro alla tommaseana del guelfismo), ed in Gabriele Rossetti (il patriota napoletano espatriato in Inghilterra, dopo il fallimento dei moti del 1820), la cui interpretazione misteriosofica, prolissamente esplicitata nel Commento analitico alla Divina Commedia, verteva sul duplice concetto dell’allegoria unitaria, comprensiva, cioè, di tutta l’opera dantesca, dalla giovanile Vita nuova, al Poema sacro, e del poeta costitutivamente ispirato, avvezzo perciò al linguaggio esoterico dei «fedeli d’amore».

Né mancava, nel discorso rossettiano il presupposto (del tutto arbitrario ma condiviso dal Pascoli), secondo cui Dante aveva posto mano al poema non prima del 1313, al tempo cioè del definitivo rifugio a Ravenna dell’exul immeritus. Deluso per il fallimento dell’impresa dell’imperatore Arrigo VII («l’alto Arrigo»), Dante avrebbe radicalizzato il suo ghibellinismo ed esasperato la sua posizione antipapale, trasferendo il tutto in una dimensione politica, che era, come rileva giustamente Cosi, del tutto anacronistica rispetto alla realtà storica del tempo. In Ravenna, dunque, conclude il Pascoli, ebbe inizio e fine la composizione della Commedia, come nella pineta di Classe va identificato il modello della selva oscura dell’Inferno e della divina foresta del Purgatorio.

La città è antica – scrive esultante il poeta-critico –. È piena di chiese e di santi. Sono in quelle chiese teorie di santi estatici che hanno riflessi di cieli […] per certo in quella errò meditabondo. E da una selva comincia il poema. Il viatore cammina da una selva selvaggia a una divina foresta; poi da viatore si fa comprensore e ascende. Là dove ascende, udrà parlare Giustiniano e gli apostoli, vedrà trionfare il Redentore le cui immagini ammira già nei musaici orientali di San Vitale. L’esultanza poi spinge il Pascoli a pensare di dedicare La mirabile visione “a Ravenna, patria della Divina Commedia”.


Evidente è, infatti, a suo giudizio, il rapporto tra le basiliche di San Vitale e di Sant’Apollinare e la Divina Commedia. Insomma, per dirla con Cosi, quello di Dante sarebbe stato un viaggio vissuto a livello inconscio e di cui non restano che immagini misteriose, sfumanti nella memoria che guarda ormai lontano: viaggio ripercorribile da ogni lettore del poema.
Il grave limite di tale interpretazione serve, paradossalmente, soltanto a spiegarci l’attrazione mistica del poeta-critico per l’oggetto dei suoi studi danteschi, e la presunzione di possedere in assoluto una chiave di lettura indefettibile. Questa, fra l’altro, gli avrebbe assicurato una fama für ewig, assai più della stessa opera poetica. Nella prefazione dei Poemi conviviali (1904), scrive:

Non mi dorrebbe molto se questi poemi avessero la sorte di quei volumi danteschi. Essi furono derisi e depressi, oltraggiati e calunniati, ma vivranno. Io morrò e quelli no. Così credo, così so: la mia tomba non sarà silenziosa. Il Genio di nostra gente, Dante, la additerà ai suoi figli.


Tuttavia l’azzardo dell’allegoria totalizzante è in qualche misura riscattabile dalla forte tensione ideale che attraversa i detti scritti danteschi. L’insistenza unilaterale del Pascoli sui simboli della Croce e dell’Aquila, in funzione di una renovatio mundi, va ricondotta nel contesto storico di fine secolo, segnato da violenti scontri sociali e da apocalittiche paure, cui il poeta dava anche voce nel poemetto Gog e Magog. Sicché – e ne è convinto Alessandro Cosi – nelle aspirazioni che Dante aveva coltivato a Ravenna, dove questi si era rifugiato dopo la morte di Arrigo VII, il Pascoli ravvisava una sempre più appagante congenialità con le sue proprie convinzioni improntate anch’esse all’avvento di una giustizia sociale, che solo un programma d’impegno politico superpartitico avrebbe potuto realizzare nel mondo senza pace.
Il socialismo umanitario, affrancatosi dal classismo marxistico, riprendeva così, per la via di un altro poeta in veste di critico irregolare, il messaggio dantesco di una pace sociale, che non più un uomo solo, sia pure inviato da Dio, ma tutti i popoli, affratellati dal comune dolore di secolari ingiustizie, avrebbero finalmente conquistato.

Ma le sudate carte avrebbero riservato al poeta-critico l’ultima più cocente delusione. Più che mai gli era pesato il “silenzio” su di esse del Carducci, già suo Maestro a Bologna, e sulla cui cattedra prestigiosa intendeva succedere proprio in virtù dei suoi studi danteschi, nel 1905, con la di lui collocazione a riposo, dopo quarantaquattro anni d’insegnamento ormai leggendario. Intenzione, questa, che Vittorio Cian, suo collega ed amico nell’Ateneo pisano, cercò di scongiurare: insostenibile sarebbe stato il confronto tra le due metodiche esegetiche: il Dante del Pascoli resta un Dante fuori tempo, sradicato dall’età che era la sua, troppo personalizzato e perciò snaturato della sua vera essenza poetica ed umana; il Dante del Carducci è tutto immerso nel mondo umano; leggiamo un passo di una delle sue memorande lezioni sullo Svolgimento della letteratura nazionale: «Egli giunse a tempo a raccogliere in sé i riverberi delle mille e mille visioni del medio evo e a rispecchiarli potentemente uniti sul mondo; giunse a tempo a chiudere con un monumento gigantesco l’età dell’allegoria».
Fu così che, una volta salito su quella cattedra, fra ansie e trepidazioni, il Pascoli si avvide egli stesso della scarsa risonanza del suo insegnamento nell’ambiente accademico, studentesco e cittadino.

 

   
   
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