Giugno 2006

VIAGGIO AD OCCHI CHIUSI

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Ma dov’è Finibusterrae
Antonio Errico
 
 

 

 


A Finibusterrae
si recano pellegrini in un mattino
di marzo; ancora aspettano il
miraggio delle
mutate di cielo per conoscere i destini che saranno.

 

Finibusterrae è terra del rimorso: del passato che non fu scelto, che «torna e rigurgita e opprime col suo rigurgito», del ballo che sfrena, che ossessiona, del rito che guarisce, che arrovella.
Alla fine del suo viaggio nella Terra del Rimorso, Ernesto De Martino marcava il senso di confine o di ultima Thule che «imprime nell’animo del visitatore» la terra salentina con le sue memorie, «ultimo lembo d’Italia che corre verso le asprezze del Capo di S. Maria di Leuca, verso il Santuario nel quale si raccoglievano i Crociati in preghiera o riparava la folla allo sbarco dei Saraceni».
Diceva ancora: «Per quasi nove secoli l’incubo che veniva dal mare gravò sugli animi, e ne lasciò traccia nelle “mutate di cielo”, cioè in un ricorrente miraggio per cui tra Otranto e il Monte Gargano gli abitanti della costa vedevano a specchio nelle nuvole l’avvicinarsi della flotta turca».
Così De Martino rivelava un’ulteriore condizione di Finibusterrae, un senso che si manifesta lungo il tracciato del confine tra la terra e il mare: la conoscenza attraverso il fenomeno del riflesso, l’esperienza del miraggio che prefigura una realtà.
La leggerezza delle nuvole che si fa carico del dolore della storia.
Lo specchio del cielo che riflette il drammatico movimento che accade sul mare.
La terra che attende quello che sul mare matura e il cielo proietta.
L’uomo quello che arriva dal mare e che è annunciato dal cielo.
Ma perché possa accadere la proiezione della Storia nello speculum del cielo, occorrono nuvole chiare, nuvole trasparenti; il cielo scuro, denso, impedisce il rispecchiamento, non permette il delinearsi delle forme del disegno; il cielo nero preclude la profezia del destino.
Allora a Finibusterrae regna un tempo alterato, che non è presente e non è passato; è una costante condizione di prefigurazione, di premonizione.
A Finibusterrae il tempo è un prolungato presagio.
Il vicino e il lontano, il presente e il futuro, si congiungono nell’astrazione del cielo, nella rappresentazione che le nuvole fanno di un accadere nella realtà.
Finibusterrae conosce il futuro attraverso la ricorrenza di un miraggio.
Forse è il privilegio – o la sventura – che appartiene alla posizione della costa, che consente allo sguardo di scontornare il paesaggio, di oltrepassare la misura, di possedere con una sola visione cielo terra mare, senza la discontinuità delle azioni, senza il mutamento della posizione, senza la frattura dei tempi.
Delle “mutazioni” o “mutate”, di apparizioni di città, castelli e torri, di sembianze o idoli di altre cose che si manifestavano dal nulla, aveva già parlato, con dovizia di scienza e disincantato argomentare, Antonio Galateo nel De situ Iapygiae.
Poi Girolamo Marciano ne riprese il tema nel suo poderoso studio intitolato Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto. Anche Marciano riferiva dicerie di visioni, di forme di fantasmi e di apparenze che si producono da vapori, da diverse misture di esalazioni.

Ma è Antonio Galateo che analizzando questi fenomeni riesce a disvelare la natura di Finibusterrae. Dice: «I fenomeni ottici del tipo a cui ho accennato spesso fuorviano il senso visivo del viandante, il quale ritiene di essere vicinissimo alla città, mentre in realtà ne è assai lontano».
Ancora una volta Finibusterrae appare come luogo della probabilità ma non della certezza, della parvenza, dell’illusione ottica, dell’oscillazione tra l’evento di un’apparizione e quello di una sparizione, del disorientamento, della distanza incalcolabile e della vicinanza fantastica.
Si diceva: Finibusterrae è il luogo dove non si arriva mai. Perché Finibusterrae si slarga, si prolunga, si divide tra fisicità e poeticità, tra coordinate geografiche e direzioni fantastiche. Finibusterrae, allora, annulla le distanze, ripristina una reciprocità tra conoscenza e natura.
A Finibusterrae diventa possibile il ritorno quasi a quella primitiva «sapienza poetica» di cui parlava Giambattista Vico: quella conoscenza per intuizione, meraviglia, stupore, fascinazione, sbalordimento.

Allora Finibusterrae è un luogo del mito. Che come ogni mito ha dentro di sé una forza capace di rigenerare costantemente quelle stesse immagini che lo hanno generato.
Come ogni mito, esiste in quanto e fin quando riesce a provocare una fantasia, una riscrittura, un’interpretazione ulteriore, a muovere l’intelligenza dell’emozione, a sottrarsi alla mannaia del tempo, a restare lontano dagli scenari che il tempo disegna.
Come ogni mito, Finibusterrae si affranca dalla realtà. La sua esistenza – la sua sopravvivenza – è dovuta a questo affrancamento, alla lontananza dal tempo presente che la rende sfumata, evanescente, leggibile senza essere mai completamente decodificata, narrabile senza essere mai completamente svelata da un racconto.
Perché, fisiologicamente, lettura e narrazione si arrestano al punto dove di Finibusterrae si comincia a intravedere una forma concreta, una sostanza che contrasta con l’idea elaborata letterariamente.
La lettura e la narrazione di Finibusterrae ignorano intenzionalmente tutto quello che intorno e dentro il territorio del mito può minacciare i suoi caratteri e le sue figure.
Lungo i confini di Finibusterrae si alza un diaframma che la separa e la difende dalle contaminazioni esterne, dalle corrosioni dei mutamenti prodotti da miti stagionali e intrugli folcloristici.
Finibusterrae è una torre innalzata da una finzione, che dalla sua sommità osserva il brulicare e l’avvicendarsi delle espressioni che appartengono al reale e che, a causa di questa appartenenza, sono destinate a sparire e (spesso) a non lasciare memoria.
Perché (spesso) delle cose reali – paesaggi, uomini, fatti – non resta memoria; talvolta restano tracce, ma non sempre una traccia si carica della valenza semantica di una memoria.
Forse si potrebbe dire che Finibusterrae ha la stessa conformazione dell’Itaca di Omero, della Venezia di Thomas Mann. Si potrebbe dire, probabilmente, ma sarebbe approssimativo.
Oppure si potrebbe dire che la sua natura è la stessa dei luoghi fantastici di Italo Calvino, che tra le città invisibili progettate e costruite con le parole manca Finibusterrae.

Anche questo si potrebbe dire; anche questo sarebbe approssimativo.
Poi ci sono tre versi di Dino Campana che sembrano rappresentare plasticamente – forse anche per la suggestione motivata dal cromatismo di un aggettivo – quel luogo che noi qui identifichiamo come Finibusterrae: «In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno / noi vedemmo sorgere nella luce incantata / una bianca città addormentata».
Ma i versi del ragazzo di Marradi non dicono di Leuca; dicono di Montevideo: un altro luogo di scrittura che in quanto tale somiglia a qualsiasi altro luogo di scrittura. (Lo avrebbe detto Borges che Montevideo «si ascolta come un verso»).
Ancora un’approssimazione, dunque.
Perché probabilmente Finibusterrae è sempre soltanto un’approssimazione: un costante avvicinarsi ad un luogo di parole che rappresenta la condizione della leggerezza e della profondità, dell’opacità e della rilucenza, dell’epifania e del dissolvimento, dell’immutabilità e della mutevolezza, del mythos e del logos, dell’estremità e del punto di confluenza.
Finibusterrae interseca la direzione semantica che traduce la condizione di estremità con quella che conduce alla congiunzione di elementi, rappresentando, ad un tempo solo, la fine, il confine, il limite, il margine, il bordo e l’apertura di ciascuno degli elementi verso gli altri, la contaminazione, l’interrelazione, il completamento.

Come ogni luogo del mito, Finibusterrae richiama esistenze: storie che sono anch’esse confluenza di passioni e contrasti, confronti fra realtà e fantasia, sovrapposizioni di occasioni e stagioni, passaggio dal passato al futuro attraverso il limitare del presente che si manifesta nella contraddizione tra la ferita di una conclusione e il desiderio di una prosecuzione del viaggio.
Ancora una volta Finibusterrae congiunge mythos e pathos, l’immaginario poetico con la poetica di un’esistenza, l’artificio dell’espressione di una scrittura con l’avventura della sospensione tra l’incognita del mare e la certezza della terraferma.
Ancora a Finibusterrae si recano pellegrini in un mattino di marzo; ancora aspettano il miraggio delle mutate di cielo per conoscere i destini che saranno.

 

   
   
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