Giugno 2006

CIVILTÀ PUGLIESI SEPOLTE

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Giacimenti del Tavoliere.
Con licenza di saccheggio
Tonino Caputo - Alfio Romano - Ennio La Torre
 
 

 

 

Ancora una volta Herdonia fu
abbandonata.
Ora il sole
la brucia, il vento la sferza, la pioggia la infanga.
E l’incuria
dell’uomo la copre di vergogna.

 

La descrizione è realistica e nello stesso tempo intrigante. È il 13 novembre 1995, al Porto franco di Ginevra. Un maresciallo dei carabinieri non crede ai suoi occhi: in cinque locali sono ammassati 3.800 reperti archeologici, con “pezzi” anche imponenti, con decine di immensi vasi etruschi, apuli e attici in ottime condizioni, con una trentina di altri oggetti che i periti di lì a poco avrebbero definito «rarissimi», con altri due considerati «unici», con affreschi pompeiani di dimensioni gigantesche, di oltre duemila anni fa, fra cui tre pareti, probabilmente una stanza di una villa sepolta dall’eruzione del 79 d.C., di cui non è dato conoscere l’esatta ubicazione né il numero e la disposizione delle stanze che la componevano: le tre pareti avevano ridotto tutto in un monolocale.
È il destino che capita a tutti i reperti avulsi dal loro contesto, a meno che non si tratti di furti di opere già note e catalogate. Come accadde per venti piatti attici a figure rosse, di venti centimetri di diametro, di 2500 anni fa (490-480 a.C.), dipinti con figure di danzatrici e servi. Si conoscevano altri rari piatti, provenienti quasi tutti dall’Etruria: da Chiusi i 12 del pittore Lydos, e 5 su 8 di quelli opera di Peseas; da Vulci, 7 sui 12 noti, dipinti da Epiktetos, uno dei più abili disegnatori del V secolo prima di Cristo. Mai ci si era trovati al cospetto di 20 piatti eseguiti dalla stessa mano, portati in valigia, ma rotti, poi sequestrati e restaurati alla perfezione.
Il mercato clandestino è sterminato e i prezzi in alcuni casi sono da capogiro. La “Venere di Morgantina” era giunta al Getty Museum dopo un pagamento, nel 1987, di 20 milioni di dollari, così come un milione di dollari era stata valutata la “Maschera d’avorio”, poi restituita all’Italia. Nei depositi di Ginevra, ma anche di Londra e di New York, un’organizzazione criminale custodiva 17 mila pezzi, in buona parte di provenienza italiana: valore stimato, 125 milioni di sterline, circa 360 miliardi di lire. Non per niente Carlo Giulio Argan aveva scritto che distruggere l’arte è un tal peccato che, se si riscrivessero le Tavole della Legge, «di certo dovrebbe esservi ricompreso».

L’Italia è senza dubbio un “marchio” che tira per bellezze e città d’arte. Abbiamo un patrimonio unico al mondo, eppure non siamo riusciti a farlo diventare il detonatore di un grande sviluppo, in modo particolare nel Sud. Deteniamo il quinto posto per afflussi turistici internazionali e il 5 per cento di quota nel mercato mondiale: cioè, siamo ben al di sotto delle possibilità di un Paese come il nostro, che fino a questo momento ospita oltre 40 degli 800 siti dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Da noi il turismo è un settore con 2 milioni di addetti, che contribuisce all’economia nazionale per il 12 per cento del Prodotto interno lordo, che diventa il 20 se si include l’indotto, piazzandosi così fra le principali voci attive della bilancia commerciale.
I punti deboli della nostra offerta sono molti, ma spicca fra tutti il livello dei prezzi dei servizi turistici, più alto rispetto a quello dei maggiori concorrenti europei, Spagna e Francia. In ogni caso, le previsioni per quest’anno sono in rialzo, come indica una ricerca di Unioncamere. Secondo il 72 per cento degli operatori, il maggior flusso verrà dagli Stati Uniti. Seguono i Paesi scandinavi, il Belgio e i Paesi Bassi. Hanno già programmato una vacanza in Italia 8,2 milioni di tedeschi (l’11,7 per cento della popolazione). Per il 18,7 per cento di loro vince l’appeal di città d’arte, Sud e isole.
Per il Sud continentale e insulare, dunque, è necessario un new deal della bellezza, come è stato scritto, con investimenti in un settore che nessuna Cina e nessuna India potrà mai sottrarci. Si deve investire per valorizzare, per rendere il turismo d’arte una carta vincente. E si devono tutelare tutti i giacimenti storici e d’arte del Paese e del Mezzogiorno: aree archeologiche, musei, chiese, tebaidi d’ogni epoca, castelli e palazzi, centri storici e paesaggistici, grandi collezioni private ufficiali, persino, da mettere a servizio di un progetto complessivo destinato ad attrarre un numero crescente di visitatori e a creare impieghi e ricchezza.

Ma non vanno abbandonate a se stesse neanche le ricchezze che ancora oggi giacciono sottoterra, e che sempre più spesso sono oggetto di scavi clandestini che ci sottraggono opere d’arte anche di valore inestimabile, alimentando la filosofia cialtronesca di chi trova costruttivo il fatto che possiamo permetterci il lusso di distribuire bellezza nel mondo.
Qualche esempio che ci riguarda da vicino. Le greggi pascolano fra mosaici e rovine affioranti là dove un giorno sorgeva Herdonia, la “città oscura”, della quale non si era conosciuto il vero nome fino alla seconda metà dell’Ottocento, quando i soliti archeologi tedeschi scoprirono che il nome completo ed esatto della città – centro della civiltà dauna nel VII secolo prima di Cristo, e molto prima ancora insediamento neolitico – compariva per la prima volta all’epoca della seconda guerra punica: quella che ebbe inizio nel 218 e finì nel 201 a.C., con Annibale che punì l’ambiguità della città, (prima alleata dei Romani, poi dei Cartaginesi, poi di nuovo dei Romani), incendiandola e deportando a Metaponto tutti i suoi abitanti.
“Obscura” la città è ancora oggi. Il professor Charles Verlinden, presidente dell’Accademia Bellica di Roma negli anni Sessanta, poco prima che una missione archeologica mossa da Bruxelles approdasse nella provincia di Foggia, aveva detto che Herdonia rappresentava la migliore possibilità di studiare i periodi, appunto, “oscuri” tardoromano e medioevale, perché «è una città che è stata abbandonata nel Cinquecento e successivamente mai più rioccupata». E aveva aggiunto: «Il suo abbandono è stato in un certo senso la nostra fortuna. È l’occasione unica per indagare non più solo sui monumenti e il materiale archeologico, ma su una città intera».
Lunedì 26 novembre 1962 una squadra belga, guidata da Josenio Mertens, docente all’università di Lovanio, cominciò a scavare, e proseguì per trentotto anni, riportando alla luce quattro ettari su venti, sufficienti ad offrire lo spettacolo di una delle città romane più complete dell’intera Italia meridionale. Quando poi, nel 1993, a Mertens si associò anche il Dipartimento di studi classici e cristiani dell’università di Bari, il cantiere prese a brulicare di centinaia di studenti italiani e stranieri: il sogno di far diventare Herdonia un parco archeologico “vivo” sembrò essere finalmente a portata di mano.
Giuliano Volpe, che partecipava ai lavori, e che in seguito avrebbe insegnato Archeologia medioevale e tecnica della prospezione archeologica all’università foggiana, ricorda che tutti vivevano «dentro una bolla di entusiasmo continuo», davanti al tempio italico del II secolo a.C. e ai magazzini sotterranei per la conservazione del grano, e poi alle botteghe del “macellum”, e alla piazza forense, alla palestra, alla basilica civile, alle terme e ai mosaici e alle basole così ben conservate della via Traiana, che consentì a Herdonia di diventare lo snodo principale per chiunque attraversasse il Tavoliere; e poi ancora davanti alla via Herdoniatana, iniziata da Adriano e terminata da Antonino Pio, che collegò la via Traiana alla via regina, l’Appia…

Si scavava, si scopriva, si catalogava. E si fantasticava. Ma nel 2000 tutti furono costretti a smettere. Di botto. Molti monumenti dovettero essere addirittura sepolti di nuovo e in fretta, dal momento che non se ne potevano garantire il restauro e la conservazione. Ma molto era ormai emerso. E tuttavia ancora una volta Herdonia doveva essere abbandonata. Ora il sole la brucia, il vento la sferza, la pioggia la infanga. E l’incuria dell’uomo la copre di vergogna.
Vi erano state riportate alla luce così tante cose, che ad un certo punto la Soprintendenza dei beni culturali di Puglia deve essersi spaventata. Spiccava, fra gli altri reperti più unici che rari, un prezioso esemplare di “meridiana sferica acentrica”: un orologio greco-romano tagliato nella pietra, che adottava la suddivisione del giorno in due parti (una di luce e l’altra di tenebre), ciascuna delle quali composta sempre di dodici ore. Quelle diurne risultavano quindi più lunghe d’estate e più brevi d’inverno. L’inverso quelle notturne.
È stato scritto che i proprietari dell’area, la famiglia dei conti Cacciaguerra, fervidi sostenitori della spedizione Mertens, a norma di legge avevano diritto a un premio di rinvenimento pari al 20 per cento del valore stimato degli oggetti ritrovati. E poiché non si trova un accordo con lo Stato sul prezzo dell’esproprio, il premio è reclamato per vie legali. Quando si fanno un po’ di conti, vien fuori una cifra ritenuta troppo alta. E allora, sebbene fino al 1993 la missione sia stata finanziata solo da Bruxelles, la decisione di non rinnovare la concessione di scavo. Tutti a casa, docenti, studenti e operai. E via i paletti dalla successiva area di scavo, la basilica paleocristiana del V-VI secolo dopo Cristo. Sipario calato sul sogno del parco archeologico. Fine delle illusioni degli abitanti della moderna Ordona. Caduta verticale delle speranze di Mertens, che si è pentito di non aver ricoperto l’intera area per salvare il sito. Nessuna delle pubbliche istituzioni è riuscita a guardare al di là del proprio naso. Perché Herdonia è al centro di un’area di grandissimo interesse storico, artistico e archeologico.
Sulla costa adriatica, ad esempio, a poca distanza da Sipontum, (la città delle seppie, secondo l’etimologia più diffusa; ma più probabilmente, la città costruita sugli scogli sforacchiati dai datteri di mare), a Manfredonia, nel castello svevo-angioino, c’è il museo nel quale sono state raccolte le celeberrime “Stele daunie”, duemila documenti di pietra, interi o in frammenti, grazie ai quali la storia è narrata – una volta tanto – non dai vincitori, ma dai vinti, gli esuli troiani giunti su questi lidi e rimasti al riparo all’ombra dell’ascella garganica: grazie ad esse, conosciamo abbigliamento, anche militare, e armi e gioielli e persino le fisionomie degli esponenti della nuova civiltà, lì giunta (come leggenda vuole) insieme con Diomede, con Calcante e con Cassandra.
E a sud del Gargano, a venti miglia dal mare, sorgeva Arpi, una città che, se scavata nella sua interezza, sembra superi in grandezza e in bellezza di reperti, secondo coloro i quali lamentano che Winckelmann e “tutta la banda neoclassica” abbiano messo in ombra Dauni e Messapi, per celebrare i fasti di Magna Grecia, (D’Andria), la stessa Pompei.
Per i poeti (Eneide, XI) si chiamò Argirippa e si ritenne fondata da Diomede. Il nome risulterebbe composto da Argos, in memoria della patria lontana, e da Hippium, per qualificare l’eccellenza del luogo adatto per l’allevamento dei cavalli. Il nome Arpi, invece, derivando dal greco “arpe”, significherebbe falce; ma potrebbe derivare anche da “arpane”, come venivano chiamati gli armenti dei buoi allevati nell’area. Questa versione potrebbe essere la più verosimile in quanto Arpi, presumibilmente, ha avuto per stemmi il delfino, il cavallo, il cinghiale e il bue.
Fu città ricca e popolata, dedita al commercio (Siponto fu il suo porto), fu con Roma contro i Greci stanziati in Campania, e nel corso della seconda guerra sannitica, quella delle Forche Caudine. Dopo la battaglia di Canne, stanca delle imposizioni romane, passò con Annibale. Conquistata da Roma, ebbe tolta la libertà, abbattute le mura, negato l’approdo marittimo a Siponto, vietata la coniazione di proprie monete.
Eppure, aveva formato una vera e propria classe aristocratica, col prestigio fondato sulla ricchezza della cerealicoltura. Le case nobili e le tombe a camera dell’epoca lo attestano ampiamente. Tra le meraviglie della cultura dauna, la casa del mosaico, dei griffi e delle pantere, l’ipogeo della medusa e quello di Ganimede. La casa del mosaico ha ambienti con mosaici, pitture e un impianto termale provvisto di un bagno: di evidente stile greco, è una delle testimonianze abitative più significative del rapporto tra mondo ellenico e mondo italico nel periodo compreso tra il IV e il III secolo prima di Cristo.
Le ipotesi sulla distruzione di questo altro immenso scrigno di tesori d’arte sepolti sono varie: Arpi potrebbe essere stata distrutta da Silla nell’83 o nell’82 a.C. a scopo di ignobile vendetta; oppure da Totila, re dei Goti, che, dopo aver raso al suolo Benevento nel 545 d.C., continuò le sue devastazioni anche in territorio dauno; o ancora, come sostengono alcuni, verso il 630-650 d.C. Costante II, con il pretesto di scacciare i Longobardi invasori, mise a ferro e a fuoco numerose città, e Arpi fra queste; infine altri sono certi che la città venne distrutta dai Longobardi e dai Saraceni, gli uni e gli altri impegnati a fronteggiare i Bizantini. Sta di fatto che, col tempo, si ridusse ad un miserabile cascinale utilizzato per il cambio cavalli delle corriere che percorrevano le strade di quello che oggi è il parco archeologico (ancora quasi del tutto sconosciuto) di Passo di Corvo.
Eppure, con gli altri siti di Monte Saraceno-Punta Rossa, sulla costa che digrada da Monte Sant’Angelo; di Merinum, a metà strada tra Vieste e Rodi; di Torre Mozza, al di là del Fortore; di Chiesa Civitate e di Torrione, appena al di qua dello stesso corso d’acqua; della celeberrima Grotta Paglicci, a sud di Rignano e della Grotta Smeralda, dalle parti del monte Barone, la Capitanata è una continua scoperta per chiunque ami arte, preistoria e storia, e voglia conoscere i segreti della civiltà garganica e del Tavoliere dall’alba del mondo ai nostri giorni.

 

   
   
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