Giugno 2006

UN FILM E ALCUNI LIBRI SUL SUD ANTI-UNITARIO

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Cronache di
un massacro annunciato
Ada Provenzano - Guido Amidi - Raffaella Del Giudice
 
 

 

 

E dunque i gruppi irregolari di
contadini, pastori
e artigiani che
presero le armi contro le truppe degli “invasori” forse si meritarono davvero il titolo
di “partigiani”.

 

Nell’estate del 1860, armati di forconi e tricolore, i contadini di Bronte vanno all’assalto della duchessa Nelson, erede di quell’ammiraglio Horatio, al quale Ferdinando IV aveva concesso il titolo nobiliare per i servigi resi nella liquidazione della Repubblica del 1799. Sono decenni, in realtà, che tra i brontesi e i Nelson è guerra carsica.
I contadini – ma anche una parte dell’élite locale – vogliono la divisione delle terre del demanio. I duchi e tutti coloro che utilizzano – meglio, usurpano – quelle terre, si oppongono. Finché proprio nel ‘60, sull’onda delle promesse di Garibaldi e del crollo dello Stato borbonico, il conflitto esplode. Mobilitati dall’élite antifeudale, cui la situazione sfuggirà presto di mano, i brontesi massacrano, oltre alla duchessa, un odiatissimo notaio e una decina di “galantuomini”. Qualche giorno più tardi, le truppe di Bixio ristabiliranno l’ordine, passando per le armi un certo numero di rivoltosi, fra cui un avvocato, loro presunto leader. Gli altri verranno processati e, quattro anni dopo, condannati.
L’episodio smaschera una lettura canonica del Risorgimento che rimane tuttora opaca, spesso soltanto apologetica, e in molti casi reticente. Se i fatti di Bronte sono stati per lo più ignorati da questa storiografia, è perché rendono esplicito il debole radicamento del processo unitario e la profonda incomunicabilità che, già nel 1860, emerge tra Nord e Sud. A Bronte il linguaggio della nazione è assente e la lotta tra borbonici e unitari – o tra assolutisti e liberali – impallidisce di fronte a ben più corposi conflitti di fazione che dividono la comunità. Un quadro che rivela, già prima del brigantaggio, le ferite della lotta di classe (sulla quale ha insistito la storiografia gramsciana), ma anche forme e motivi tipici di una guerra civile.
Per parte loro, i “liberatori” non sembrano capirci molto. Il Mezzogiorno, confiderà Bixio alla moglie, «è un paese che bisognerebbe distruggere, e mandarli in Africa a farsi civili». Tanto più in una Sicilia segnata dal forte autonomismo e attraversata da quelle bande armate che sono in procinto di diventare mafia, il Risorgimento appare come una miccia che, paradossalmente, rischia di spezzare il tessuto sociale proprio nel momento dell’unificazione politica.

A Bronte è molto difficile dar pagelle. I rivoltosi, per difendere la legalità contro le usurpazioni, compiono un feroce linciaggio: i garibaldini, (che tuttavia rappresentano le istituzioni), per restaurare la convivenza civile, organizzano esecuzioni sommarie.
La “liberazione”, o la “conquista”, del Sud è un puzzle di situazioni analoghe che attende ancora di essere approfondito in modo analitico fuor di retoriche e di giudizi semplificati. E non sarebbe male promuovere anche una più ampia ricerca storica, capace di lumeggiare la nascita controversa della nostra Patria. Perché, com’è tuttora evidente, le grandi divisioni dell’Italia non si superano rimuovendo o manipolando le loro radici.
La Cineteca Nazionale ha restaurato il film “Bronte” di Florestano Vancini, che nel 1972, alla sua prima apparizione nelle sale, suscitò vivacissime discussioni, alle quali fra gli altri presero parte Angelo Solmi e Alberto Moravia, Mino Argentieri e Lino Miccichè, Giuseppe Galasso e Paolo Mieli. La nuova edizione del documento cinematografico, che è più lungo di 14 minuti, perché Vancini vi ha inserito scene girate e non montate precedentemente, può offrire lo spunto per riaprire il discorso sui rapporti tra storia e cinema. Tanto più che è stato simultaneamente pubblicato un volume curato da Pasquale Iaccio e intitolato Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato.
Negli ultimi tempi l’opera di Vancini, che non conseguì un buon successo di pubblico, ha avuto una certa diffusione nelle scuole, come materiale didattico utile alla comprensione del Risorgimento. Con la riforma Moratti, l’uso didattico del film – sono in tanti ad auspicarlo – dovrebbe essere più frequente.
Ma fino a che punto un film “di fiction” può essere utilizzato come documento? Bisogna dire prima di tutto che la rappresentazione filmica non può sostituirsi all’analisi storica. I film, come hanno dimostrato da tempo gli storici del cinema, non costituiscono una documentazione sugli avvenimenti narrati, ma semmai sulla società degli anni in cui sono stati girati. A proposito di “Ivan il Terribile” di Sergej Eisenstein, Carlo Ginzburg ha scritto che potrebbe essere considerato una fonte sulla Russia del Cinquecento solo se, nel 3001, tutte le altre fossero state distrutte. Ai nostri tempi dobbiamo considerarlo, invece, una fonte sulla Russia di Stalin.
L’interpretazione che i film danno degli avvenimenti storici va a sua volta interpretata. Ivo Garrani, al quale Vancini affidò il personaggio dell’avvocato Nicola Lombardo, il moderato di Bronte che guidò la rivolta e cercò di darle uno sbocco non sanguinoso, in un’intervista rilasciata a Pasquale Iaccio ha detto che nel film c’è una «Sicilia autentica», anche se fu girato in Jugoslavia «con attori jugoslavi bravissimi e una ricostruzione del paese abbastanza felice». L’autenticità, dunque, è tutta costruita. Ciò non significa che sia falsa. A Bronte ci furono «divisione di beni, incendi, vendette, orge ad oscurare il sole, e per giunta viva a Garibaldi». La repressione di Nino Bixio fu dura oltre la ferocia: i villaggi dell’Etna gli gridarono «Belva!». Non lo hanno scritto gli sceneggiatori del film, ma il garibaldino Giuseppe Cesare Abba (quello di Da Quarto al Volturno), che di quei fatti fu cronista e testimone. Abba, inoltre, attribuì a un frate, padre Carmelo, l’auspicio di una guerra «degli oppressi contro gli oppressori, grandi e piccoli».

Per questo, una ricostruzione che interpreti almeno una parte delle vicende del 1860 come una lotta delle “coppole” contadine contro i “cappelli” borghesi non costituisce una forzatura, anche se, nel caso della rivolta di Bronte, la complessa analisi che ne fece nel 1988 lo storico Salvatore Lupo, sottolineandone tutta la specificità, mostra che essa non fu un episodio di un’eterna lotta di classe.
Leggendo invece oggi la sceneggiatura del film (alla quale partecipò anche Leonardo Sciascia), il ricordo del 1968 si confonde continuamente con la rievocazione del 1860, in un sottile gioco di rinvii. Il carbonaio Calogero Gasparazzo (al quale gli sceneggiatori fanno dire: «Santo diavolone! E come si fa a fare la rivoluzione contro i “cappelli” se chi la comanda è un “cappello”?») è un rivoltoso del 1860 oppure un extraparlamentare? L’immagine dell’operaio Gasparazzo della striscia di “Lotta continua” finisce col sovrapporsi a quella del carbonaio di Bronte. E l’avvocato Lombardo sembra un rappresentante di quella che veniva allora bollata come “sinistra tradizionale”. Se si vuole, come è giusto, che i film entrino nella nuova scuola in maniera più diffusa, queste cose devono essere spiegate agli studenti. Nel caso di “Bronte” si eviterebbe che finiscano col vedere il Risorgimento attraverso la lente deformante del Sessantotto.
Del resto, un dibattito odierno sui rapporti tra storia e cinema dovrebbe riguardare anche un altro argomento. I grandi fatti collettivi, il Risorgimento, la Prima e la Seconda guerra mondiale, la Resistenza, hanno ispirato ottime pellicole e qualche capolavoro, ma non hanno fatto nascere una cinematografia epica. Durante l’epoca fascista, Alessandro Blasetti, Augusto Genina e Goffredo Alessandrini si impegnarono a fondo per raggiungere questo obiettivo, ma i risultati furono scarsi.
Eppure, come è stato ricordato, la cinematografia italiana si è interessata di storia fin dalle origini: il celebre “Cabiria” di Giuseppe Pastrone, al quale collaborò anche Gabriele D’Annunzio, e che rievocava le guerre puniche, apparve nel 1913, subito dopo la guerra di Libia. Ma nessun film di ispirazione storica ha espresso la nostra identità con la stessa efficacia della commedia italiana. Eppure, abbiamo vissuto vicende tragiche, che hanno coinvolto profondamente l’intera popolazione. Ma non sembra che ne abbiamo una memoria condivisa. E senza di essa non può esserci vero epos nazionale, né nella letteratura né nel cinema.
“Partigiani”? La parola è pronunciata soltanto alla fine dell’ultimo libro che ricostruisce le vicende del Sud che seguirono immediatamente all’impresa garibaldina. Eppure, quel termine aleggia sin dal principio in questa storia di cafoni e di ribelli finti generali con toppe al sedere e ciocie ai piedi, eroi per caso e pentiti per interesse o per scampo, patrioti disposti a fucilare nel nome dei Savoia e ribelli pronti a bruciare e a saccheggiare con il salvacondotto dei Borbone. Questo interessante capitolo nella storia delle “insorgenze antiunitarie”, (ovvero il brigantaggio meridionale durante il decennio successivo alla proclamazione del Regno d’Italia, tra il 1860 e il 1870), ha in Salvatore Scarpino un interprete appassionato, oltre che un cronista dotato di gusto del ritratto.
Ma ancor più dei medaglioni storici dedicati a Crocco e Chiavone, autoproclamatisi generali nel nome di un distante e ignaro re delle Due Sicilie in esilio, e delle descrizioni suggestive delle loro imprese, nella sua Guerra cafona colpisce una denuncia: i “piemontesi”, o “sardo-garibaldini”, (come li definivano sprezzantemente gli insorti), agirono nel Sud con mentalità precoloniale. Trattarono cioè i “campesinos” delle Calabrie e del Napoletano, non meno dei lucani, dei pugliesi, e degli abruzzesi-molisani, da «esseri pigri e inferiori», se non addirittura come «selvaggi da educare», premessa di un atteggiamento mentale che si sarebbe affermato nei decenni seguenti durante le guerre di conquista in Libia o in Abissinia.

E dunque i gruppi irregolari di contadini, pastori e artigiani che presero le armi contro le truppe degli “invasori”, preferendo il rischio di una pallottola nella schiena alla servitù in miseria sotto un governo “ateo e straniero”, colpendo e fuggendo, occupando città e paesi per poi ritirarsi sotto la pressione della superiorità militare nemica, aggregandosi in primavera e disperdendosi nei boschi quando la tattica e la stagione lo suggerivano, forse si meritarono davvero il titolo di “partigiani”.
Certo, l’ignoranza non consentiva loro di distinguere fra modernità e diritti feudali, l’appoggio implicito del Papa e quello aperto dei parroci di campagna sembrava più che sufficiente per farli sentire “dalla parte di Dio” e la vaga idea di servire il re Borbone (oltre che la bellissima regina Maria Sofia) non dava adito a dubbi circa la legittimità della causa. Ma che dire dei loro avversari, i tutori dell’Ordine e dell’Unità, insomma i portabandiera dell’italianità? Chiamandoli “briganti” e trattandoli da “cafoni”, fucilando tutti quelli che trovavano armati, arrestando e spesso giustiziando i loro “manutengoli”, per lo più senza ombra di processo, contribuirono a gettare su se stessi l’ombra cupa dei “colonialisti” e a radicare invece nel Sud “liberato” la diffidenza verso lo Stato, la tendenza al pregiudizio e al disprezzo per la cosa pubblica, il “fai da te” senza illusioni che presto si sarebbe trasformato nella famosa “questione meridionale”.
Giornalista di lungo corso e saggista sempre attento a non confondersi con le voci del coro, questo Autore non si impegna in un pamphlet antiunitario, limitandosi a raccontare.
Di storie, infatti, nel libro se ne trovano molte. A cominciare da quella di Crocco, tipica “coppola” che si era autoproclamata generale, capace di tenere in scacco l’esercito sabaudo dalla Lucania alla Puglia, e ancor più a nord, dove si impadronì di molti centri abitati, fino a quando la stanchezza, i tradimenti e la delazione di qualche “pentito” – probabilmente prezzolato – lo fecero cadere in trappola e terminare i suoi giorni in galera.
Continuando con Chiavone, il capopopolo che operò contro le truppe e i civili filopiemontesi nell’area compresa tra il Liri e l’Alto Volturno. E come loro, i Giorni, i Romano, i Tamburini, gli Stramenga, nomi oggi coperti dalla polvere della storia dei vinti, ma che allora arrivarono a rappresentare una porzione consistente della società meridionale. Si trattò di ben 400 bande, con un minimo di dieci uomini, ma alcune forti di centinaia di “fuorbanditi”, per un totale calcolato in non meno di seimila contadini-soldati in armi. Naturalmente, se si mettono nel conto parenti, amici e fiancheggiatori, si tocca la cifra ben superiore di 50 mila persone, sufficienti a far parlare di “guerra civile”.
Potenza delle parole: se proprio guerra civile fu, in parte paragonabile a quella sanguinosa che oppose i vandeani cattolici ai francesi repubblicani fra il 1793 e il 1796, allora il termine “partigiani” potrebbe essere speso realisticamente. E anche quello di “guerriglia”, vale a dire piccola guerra, parola nata in Spagna durante gli anni della grande insorgenza popolare antinapoleonica del 1808-13.
Purché non si dimentichi la doppia anima che sempre caratterizzò le insorgenze: i patrioti borbonici furono anche, spesso, saccheggiatori e assassini, tanto che il confine tra il diritto legittimo di resistenza e la delinquenza pura da jacquerie rimase costantemente sfumato, autorizzando i repressori a comportarsi senza clemenza. «Guerra sciagurata e ingloriosa», la definì Aurelio Saffi, tanto più se si pensa agli strumenti giuridici illiberali che vennero adottati per metterla in atto, cominciando dalla famigerata legge Pica, che applicava ai resistenti la durezza del diritto di guerra, senza riconoscere loro allo stesso tempo lo stato di belligeranti.
Come era inevitabile, questo scontro impari fra due partiti appartenenti a fedi ed epoche diverse si trasformò presto in un regolamento di conti crudele e sanguinoso (Scarpino sostiene che la soglia dei diecimila uccisi o incarcerati fu abbondantemente superata). E, come sempre accade in queste circostanze, il trovarsi casualmente in un certo luogo, a una certa ora e in una determinata circostanza, determinò frequentemente la scelta tra lo stare con i ribelli o i regolari, tra la vittoria o la rovina.
Mescolati ai “cafoni”, si distinsero anche nobili cavalieri in cerca di avventure e onore in difesa di una causa persa, come quel don José Borges che non riuscì ad accordarsi con Crocco e fallì la sua missione legittimista, ma andò a conquistarsi la sua “bella morte” davanti a un plotone d’esecuzione. O come don Rafael Tristany, catalano e alto ufficiale carlista, che fece onore al suo nome da romanzo tentando di imporre con le buone o con le cattive una disciplina militare e aristocratica ai contadini analfabeti, concludendo agli arresti la sua avventura filoborbonica.
I “briganti” non potevano che perdere, anche al cospetto dei bersaglieri a cavallo che in numero esorbitante (molti più di quanti ne portò con sé Vittorio Emanuele II fino all’incontro a Teano con Garibaldi) erano stati trasferiti nelle aree del Sud ribelle. Ma i loro nemici potevano vincere meglio. Non seppero farlo. Forse proprio per questo si è perpetuata una memoria storica, civile e culturale, che parteggia ancora oggi per la bandiera di Franceschiello.
Nel nuovo Parlamento, ormai italiano, a Torino, cominciarono subito le interpellanze dei deputati, soprattutto meridionali, sulla grave situazione del Mezzogiorno, sugli abusi dell’esercito, sulle stragi che continuavano ad essere consumate, sullo stato d’assedio arbitrariamente dichiarato dai comandanti militari, disposto per legge soltanto nell’agosto del 1862.
Non passava settimana che nel calendario dei lavori non ci fosse un rappresentante politico con un atto d’accusa verso il governo. Ma i primi presidenti del Consiglio dell’Italia unita furono sordi ad ogni richiamo, dal momento che avevano fretta di “stabilizzare” la situazione davanti al consesso europeo. Cavour, Ricasoli, Rattazzi, sebbene sapessero molto bene di che cosa si trattava, non vollero mai riconoscere pubblicamente che nel Mezzogiorno c’era una rivolta politico-sociale, e che le bande clandestine combattevano per il ritorno di Francesco II sul trono del Reame.
La linea governativa sosteneva che nel Sud ci fossero «comitive che scorrevano le campagne» esclusivamente criminali, alcune delle quali fomentate da qualche comitato borbonico. Insomma: chi doveva sapere, capire e provvedere non volle muovere un dito, sebbene echi della situazione fossero pervenuti persino da un dibattito al Parlamento di Londra!
Cavour e successori proseguirono sulla linea di legittimazione dell’operato, che oggi si definirebbe tout court “criminoso”, dell’esercito nel Sud, negando (o coprendo) eccessi e ferocia. Anche la storiografia e la memorialistica inclusero voci fortemente critiche verso la politica ottusa dei governi. Garibaldi lasciò scritto nelle Memorie che «senza la tacita collaborazione» della Marina borbonica lo sbarco in Calabria «non si sarebbe potuto fare». Egli stesso liquidò la questione dei comandanti borbonici comprati con i soldi raccolti dai “Comitati per Garibaldi” in Inghilterra e con i fondi messi a disposizione da Cavour, i cui agenti precedettero e accompagnarono la spedizione dei Mille, preparando ovunque gruppi rivoluzionari. Luigi Carlo Farini, inviato a Napoli come Luogotenente dopo la partenza di Francesco II, in attesa che arrivassero Garibaldi e Vittorio Emanuele, testimoniò: «Fra sette milioni di abitanti non ve n’erano meno di cento che credessero nell’unità nazionale». E Massimo D’Azeglio, sei mesi dopo i plebisciti, sostenne una polemica sull’uso dei battaglioni dell’esercito per “convincere” il Sud all’unità: «Ma ci vogliono, e sembra che ciò non basti per contenere il Regno, sessanta battaglioni [...] So che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni, e che al di là sono necessari. Nel Nord Italia si processano i criminali prima di mandarli a morte; con che diritto, al di là del Tronto, li si impicca prima di processarli? [...] Bisogna sapere dai Napoletani, un’altra volta per tutte, se ci vogliono o no [...]».
La polemica che portò all’approvazione della legge Pica durò più di due anni: i deputati denunciavano le pessime condizioni del Sud, le tassazioni inaudite imposte dai piemontesi, la reazione dei contadini, degli sbandati, degli stessi ex soldati, come conseguenza del pessimo governo nelle province meridionali nelle quali il rigore non discriminante e la ferocia fredda dell’esercito neanche erano compensati da un minimo di investimenti per un qualche sollievo sociale. Le critiche erano mosse non soltanto dai deputati meridionali, ma anche da settentrionali democratici, i quali si erano preoccupati di recarsi nelle regioni meridionali per rendersi conto personalmente di ciò che stava accadendo. Un esempio per tutti, quello di Giuseppe Ferrari.
I governi nascosero la realtà, persino non accogliendo per circa tre anni la proposta di un dibattito serio sulla guerriglia meridionale. La stessa definizione sprezzante di “brigantaggio” per un fenomeno di ribellione di massa, sia pure disorganizzata, fu una notevole trovata propagandistica per confondere gli osservatori, soprattutto internazionali. Ma, come scrisse Patrick Keyes O’ Clery, «il tentativo di attirare l’odio sugli insorti napoletani del 1860-64, definendoli briganti e confondendo i loro capi con banditi dediti al saccheggio, era quindi un vecchio espediente, e ingannò solo coloro i quali volevano essere ingannati...».

 

   
   
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