Giugno 2006

IL CORSIVO

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Il bivio
Aldo Bello  
 
 

 

 

Se siamo ancora Paese bisogna
ritrovare lo spirito dei tempi migliori, una moderna
cultura d’impresa e un’aristocrazia del lavoro che abbia voglia
di competizione globale.

 

La chiamano pandemia crematistica, ed è la malattia che colpisce un politico quando sostiene di non avere alcuna intenzione di arricchirsi. Solo che, ascoltandolo mentre si abbandona a queste ineffabili, utopiche affermazioni, all’uomo stradale torna in mente la malinconica osservazione del barone von Bismarck, secondo il quale la democrazia basata sul suffragio universale è il governo di una casa a partire dalla stanza dei bambini.
È da quindici anni che la classe politica italiana è scossa da improbabili fremiti di apatia finanziaria a causa dei magistrati d’assalto e del malanimo del common people che crede ancora alla tv. Ma è vero che i politici italiani, nel secolo di Bush e di Putin, vogliono restare distanti dagli affari? Davvero quella che è stata definita la “politica-partitica” è determinata ad abbandonare il suo ruolo fondamentale di mediazione e a non sporcarsi le mani? Ebbene: anche il più pacifico o il più illetterato dei cittadini ha una visione diversa e più onesta della definizione del far politica.

Storicamente, i Parlamenti sono nati proprio per regolare i conflitti dei potenti su interessi convergenti. Alla fine del Medioevo, in Inghilterra, i ricchi (che erano anche coloro i quali disponevano di milizie proprie) riuscirono a recintare privatamente le proprietà collettive. Sicché Tommaso Moro, Cancelliere di Enrico VIII, decapitato per la sua franchezza e fatto Santo dalla Chiesa di Roma, poteva definire lo Stato moderno che allora stava per prender corpo «una certa cospirazione dei ricchi». Nella sua celebre “Utopia”, parlava nel Cinquecento di politici superbi, «la cui prepotenza si adorna delle miserie del prossimo e dell’umiliazione dei poveri, felice non per i propri vantaggi, ma per il danno che reca agli altri». Il Santo Cancelliere sperava che si potessero adottare in Inghilterra le leggi e le istituzioni degli Utopiani, in cui la fratellanza naturale prevaleva sul calcolo politico. Ma, come egli stesso riconosceva, aveva «più desiderio che speranza che ciò potesse mai accadere».
Marcel Proust vedeva nelle bugie dei politici un processo compulsorio e obbligato. Proclamare che la bugia è malvagia – sosteneva – costringe il politico a mentire più dei suoi simili. Ci sono momenti di vita di un Paese in cui l’esercizio della menzogna è più evidente. Sempre Bismarck, che non a caso si definiva Cancelliere di ferro, avendo fatto della Germania una potenza mondiale, poteva riconoscere autobiograficamente che «la gente non mente mai così tanto, come dopo una partita di caccia, durante una guerra o prima delle elezioni».
Forse è proprio il caso di tornare a queste piccole verità comuni nel valutare le disavventure finanziarie e i bisticci ideologici che partiti ed esponenti politici nostrani hanno consumato in questi ultimi tempi. E non è un atto di qualunquismo sospettare che abbia ragione Bierce, re del giornalismo politico americano dell’Ottocento, quando nel suo “Dizionario del Diavolo” definisce la politica come «conflitto di interessi mascherato da lotta tra opposte fazioni», o, in alternativa, «conduzione di affari pubblici per interessi privati».

Non è una questione di conservatori o progressisti, di destra o di sinistra, se i casi Unipol e Bingo hanno significato qualcosa. Certe forze politiche di una volta potevano forse astrattamente vantare di essere superiori o esterne a questa visione, sicuramente negativa, imputata – ribaldamente – ai soli costumi borghesi. Ma non è questa la visione tradotta in pratica dai sovietici, dagli emiliani, dagli stessi cinesi. La superiorità di Utopia, dice il santo Tommaso Moro, sta in un «comunismo di vita, di economia e persino di cibo, senza alcuno scambio di moneta». Purtroppo, o per fortuna, un mondo così non è mai esistito. E dunque i politici sono condannati – chi più, chi meno – a continuare a mentire.
Sull’altro fronte, gli imprenditori, alcuni di vecchia, altri di nuova generazione. Ecco: quel che colpisce, nell’ondata di questi che sono più che altro dei riccastri sulla via della malora, è la discrasia fra stile e ruolo. Da finanzieri e affaristi ci si può aspettare che siano disposti a vendere anche la madre in cambio di un dividendo, ma non che la svendano per acquistare antiquariato orrendo, paccottiglie e croste, per circondarsi di mogli improbabili, per arrotolare dipinti del Canaletto nel caveau di una banca, neanche fossero banconote o arazzetti da suq stambulino. Per qualche strana ragione, a sostenere queste tesi in Italia si finisce per essere tacciati di snobismo, quando invece il gusto per la sobrietà e l’amore per il bello sono quanto di più semplice e vitale possa esistere in natura.
Certo, fin dalla preistoria i “barbari” trucidi e ignoranti hanno sempre avuto la meglio sulle aristocrazie stortignaccole che detenevano il potere ormai solo nominalmente. Ma i modi spicci vanno di pari passo con la saldezza morale e il rispetto delle proprie tradizioni. È proprio perché credono ancora in qualcosa che i “barbari” riescono a spazzar via una classe di imbelli che non ha fede più in nulla. E vien voglia di chiedersi in che cosa credessero i cosiddetti “furbetti del quartierino”, e quale fosse il loro disegno politico e umano, se non finanziarsi gli stessi sogni grevi di un qualunque, squallido reality show: sogni rivelatori di una grettezza profonda, tipica – appunto – dei riccastri senza alcuna personalità.
Si obietterà: e il rampantismo (qualcuno aggiunge “socialista”, senza avere il coraggio di dire “craxiano”) degli anni Ottanta del secolo scorso? Ebbene: quello aveva almeno una visione del mondo e una certa vitalità. Mentre questi rozzi personaggi da tribuna d’onore allo stadio saranno anche volgari come i barbari, ma di certo più flaccidi della stessa classe dirigente che volevano sostituire. Forse è anche per questo che non sono riusciti a farlo.
Di qui, declino e impoverimento dell’Italia. E il contrasto tra la complessità del caso italiano e il rischio di semplicismo della risposta politico-economica. Complessità, perché vi sono nuovi poveri, ma anche nuovi (e onesti) ricchi; desiderio di protezione, ma anche di selezione; volontà di emigrare, ma anche attaccamento alla propria terra. Rischio di semplificazione, perché guai se il dibattito politico, economico, sociale e culturale, dovesse ancora ridursi a un confronto tra statistiche buone e cattive, tra Istat ed Eurispes, tra chi afferma che la ricchezza cresce e i poveri diminuiscono e chi sostiene esattamente il contrario.
Parliamo, ovviamente, della cosiddetta povertà relativa, non di quella assoluta, che pure in Italia esiste e che dovrebbe essere la vera, forse unica destinataria dell’assistenza e della compassione. Madre Teresa accettò di aprire una casa a Roma soltanto dopo avervi personalmente constatato la presenza di luoghi di miseria simili a quelli di Calcutta.
La povertà relativa riguarda invece il ceto medio, di cui fa parte la maggioranza degli italiani: sono coloro i quali ricevono non un’eredità, ma in famiglia un’educazione di vita, e a scuola un’istruzione corrispondente alla loro capacità e volontà di studiare. Ebbene: se guardiamo al ceto medio, vediamo quanto sia cambiata l’Italia in una generazione. Rispetto ai genitori, un trentenne di oggi ha maggiori disponibilità, ma gli manca una fiducia fondamentale: di vivere in un Paese e in un Continente dove i figli raggiungono traguardi di benessere preclusi ai loro padri. Benessere privato (abitazione, lavoro, risparmio), ma anche qualità dei beni pubblici (pulizia dell’ambiente naturale, servizi civili, presenza nel mondo).
L’Italia vive questo declino non da tre o quattro, ma da quindici o venti anni, e coinvolge le responsabilità di tutte le forze politiche, nessuna esclusa, attive nell’ultimo quarto di secolo. Società e politica, pertanto, sono a un bivio. La società, tra andare avanti e tornare indietro, tra cercare sicurezza nella protezione e cercarla premiando la qualità, tra accettare le sfide della modernità e fuggirle. La politica, tra ascoltare soltanto, o anche guidare. Ascoltare soltanto vuol dire amplificare e rincorrere ogni umore sociale, farne leva solo per la conquista e la conservazione del potere. Guidare significa essere consapevoli che ogni governo deve guardare più lontano di chi pur l’ha
democraticamente eletto, deve fare buona pedagogia, deve elaborare sintesi e compiere scelte che superino le contraddizioni e gli umori incostanti della società. Certo, nella società le persone hanno preferenze diverse; ma è altresì vero che ciascuna di esse è suscettibile di essere convinta, ed è desiderosa di guida e di esempio morale.
Si racconta che Margareth Thatcher, a un collaboratore che le pronosticava perdita di consenso se avesse preso una certa decisione, reagì inviperita, investendolo a muso duro: «Consenso?! Consenso?! Io non sono qui per il consenso, sono qui per il bene del mio Paese!». Forse anche per questo governò – da grande statista – per dodici anni.
Strano popolo, il nostro: capace di far miracoli, ma mai veramente padrone del proprio destino. Non ci difetta l’eccezionalità, come è stato riconosciuto; ma ci manca la normalità dell’azione mirata al progresso economico e civile. La nostra storia è fatta di grandi exploit, cui seguono fatalmente altrettanto grandi arretramenti, nei quali l’Italia perde la bussola e accentua le sue divisioni per trovare i colpevoli del proprio smarrimento. Non siamo capaci di consolidare i buoni risultati che pure sappiamo ottenere, né quelli che ci hanno visti tra i primi nella corsa verso il benessere, come nel “miracolo economico” di poco più di mezzo secolo fa, e nel successo più recente del made in Italy; né quelli che ci hanno risollevato da emergenze gravissime, come la crisi della lira e del nostro sistema politico negli anni Novanta. Siamo riusciti a usare la conquista dell’ingresso nell’euro per portare le nostre divisioni interne al loro estremo, ben oltre la misura possibile con la vecchia lira. Abbiamo accentuato la nostra diversità, invece di mostrare che la rinuncia alla nostra moneta ci avviava verso la normalità.
Il risultato è sotto i nostri occhi. Di questa nostra diversità – è stato scritto – stiamo soffrendo tutti quanti, ridotti come siamo a discutere non di come ritrovare lo slancio che abbiamo perduto, ma di chi, fra noi, sia al di sopra di ogni sospetto. Mentre nel Governo britannico si pensa a una giornata dell’orgoglio nazionale, da noi, che ne avremmo ben più bisogno, l’idea allo stato attuale delle cose sarebbe semplicemente improponibile. La fiducia da parte del resto del mondo nei confronti del nostro Paese è ai minimi, insieme a quella dei nostri imprenditori più dinamici. Ne paga pegno l’economia, oggi più che mai bisognosa di riorganizzarsi e di riqualificarsi al meglio attraverso investimenti italiani ed esteri.
Da decenni, ormai, si discute di riforma del capitalismo italiano. Lo si è fatto troppo spesso in termini dirigistici. Ora la questione è tornata alla ribalta con le note vicende dapprima dei Tanzi e dei Cragnotti, e poi dei Fiorani, degli Gnutti, dei Consorte, dei Ricucci, e della compagnia bella che ha occupato per lungo tempo le prime pagine dei quotidiani. Ma ora come ora il punto vero è che dobbiamo scegliere se coltivare ancora la nostra diversità oppure accettare la normalità.
Nessuno è in grado di sapere verso quali assetti del nostro capitalismo ci porterebbe la prima via, perché dipenderanno dall’esito del confronto tra i vari interessi di un Paese diviso in cui si useranno, com’è nostro antico costume, gli agganci internazionali che di volta in volta potranno sembrare più opportuni alle singole parti in causa. Certo è, però, che per essere diversi è necessario essere forti, e noi non lo siamo. Quindi continueremo ad essere un Paese “incompreso” dagli stranieri, così difficile da trattare che non vale la pena di considerare più di tanto. Un Paese che, nella sostanza, si autoemargina.
Per imboccare la seconda via, non dobbiamo avere paura di confrontarci con lo straniero. Stiamo toccando con mano quanti danni ci porti una difesa a oltranza dell’italianità che viene da un giudizio implicito di debolezza del nostro capitalismo. Ma le nostre capacità di lavoro e di inventiva, le nostre energie e risorse imprenditoriali non sono disconosciute. Difettiamo piuttosto di quella organizzazione produttiva che viene dalla continuità dell’azione umile che, passo dopo passo, conduce verso un progresso.
Politici (seri) e imprenditori (seri) sanno benissimo che abbiamo un nucleo di aziende molto valide, perché già vanno in questa direzione. Ben vengano capitali esteri, se questo serve a rafforzare e ad ampliare quest’area che mostra la capacità di costruire il proprio futuro confrontandosi quotidianamente con il mercato, e ad emarginare chi invece fa conto sui potenti di turno. Alla certezza di un Paese che si indebolisce volendo mantenere il controllo della propria economia grazie alle barriere poste dalla propria diversità, possiamo contrapporre le opportunità che vengono dal non apparire più come “i soliti italiani”, per valorizzare con nuove risorse i nostri lati positivi senza rischiare continui arretramenti e involuzioni. La riforma del nostro capitalismo così verrà da sé. Nella giusta direzione. A dispetto dei politici affetti da pandemia crematistica e degli imprenditori da corte dei miracoli.

 

   
   
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