Giugno 2006

SISTEMA IN BILICO E CAPITALISMO RIFORMABILE

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Il congedo del dinosauro
Claudio Alemanno  
 
 

 

 

Se siamo ancora Paese bisogna
ritrovare lo spirito dei tempi migliori, una moderna
cultura d’impresa e un’aristocrazia del lavoro che abbia voglia
di competizione globale.

 

Contrordine: mai piùboiardi pubblici e privati. Il nostro capitalismo cambia pelle. Sulle piazze vediamo crescere la presenza di capitale straniero temperato da un capitalismo casereccio in affanno. È già accaduto nel periodo di formazione dello Stato unitario. Oggi è una lezione della mobilità che potrebbe diventare anche lezione di democrazia. Un ponte per la costruzione di una società pragmatica, meno sensibile alla celebrazione dei culti devozionali.
Cercasi capitalista “duttile”, non compromesso con i meccanismi del consenso, buon regista nella ricerca delle occasioni internazionali favorevoli. Disposto al rischio ma non all’avventura, poco propenso a misurare l’ascesa con i lustrini della mondanità. È l’identikit di un moderno capitalista in carriera, senza fronzoli e senza frontiere, capace di gestire doveri e responsabilità imposti dalla crescita di una società complessa. Dopo Valletta, Olivetti, Mattioli, Mattei resta un modello difficilmente reperibile tra le mura domestiche.
Il capitalismo italiano, attardandosi sulle politiche di tutela, si muove con tecniche riproduttive datate, espressione di una cristallizzazione politico-letteraria che sforna lobbisti e attori di panna montata. Mentre nella carcassa del dinosauro si trovano aziende in buona salute (bocconi teneri e digeribili) e conglomerati in difficoltà (di difficile digeribilità). Offriamo al mondo una vetrina da emporio di periferia. Vulnerabile, quando si trova qualcosa di appetibile.

Ci vorrebbe una ventata di britishness per uscire da intrighi e stratagemmi elusivi, dando «neutralità, professionalità e normalità» ad un’economia deviata dalle decisioni delle “poliarchie”, una pluralità di oligarchie che per logiche di potere e voglia di esibizione filtra e deforma le dinamiche naturali del mercato. Con la gente che immagina squadre di top manager impegnate in videogiochi truculenti che mandano messaggi criptici, con echi allarmanti d’inquietudine mediatica. Questi nodi aggrovigliati del nostro piccolo mondo domestico devono poi confrontarsi con un mercato globale afflitto da un’oggettiva svalutazione delle regole, per un complesso di circostanze riconducibili ai sentieri della modernità. Non è casuale la forte virata del mercato verso forme di contrattualismo esasperato.
Un’altra provocazione viene dal cyberspazio che, attraverso la Rete, offre testimonianza quotidiana della frantumazione delle regole. Se non si trovano pezzi di ricambio, il tempo delle regole è finito, sopraffatto da una globalizzazione che premia il successo dei bassi salari e dell’alta tecnologia, rafforza il potere scientifico e indebolisce i poteri della governabilità.
Sull’affievolimento del diritto come regolatore dei rapporti economici devono essere in molti a riflettere. Non si può sempre gridare al lupo mentre cresce di livello il fronte della trasgressione, lasciata alle cure di specialisti che si muovono con difficoltà in una sorta di purgatorio diplomatico.
Per i problemi di casa nostra diventa urgente restituire tranquillità ad un tessuto economico sfilacciato e compromesso da molti comportamenti disinvolti, ciclicamente ferito da scandali che finiscono per abbattersi pesantemente sul risparmio delle famiglie e sull’operatività delle imprese. Sappiamo di chiedere esercizi al limite dell’acrobazia. Ma le ragioni strutturali della crisi non lasciano più spazio alla pazienza levantina. S’intravedono anni caldi di guerra fredda.

Abbiamo due Paesi in uno: Nord e Sud, con forti divaricazioni di reddito, di organizzazione sociale, di struttura produttiva, ma con identica carica nel sollecitare l’attenzione di ogni “Supervolontà tutrice”. Se uno dei problemi nodali è la modernizzazione del sistema, bisogna partire da questo storico diaframma economico, sociale, psicologico. Non è scandaloso riconoscere la realtà di due modelli e la necessità di un doveroso riformismo per cercare sinergie con l’uso appropriato di politiche macroeconomiche. Si avverte l’esigenza di un’operazione-verità su larga scala. Ed emerge l’interesse per un nuovo tipo di concertazione, meno rituale e meno celebrativa. Dove le ragioni di ogni conflitto vengano stemperate in un dialogo sociale fruttifero non più sterile per la nota incapacità di compattarsi. Sarebbe bello vedere nelle Università un banchiere che discute con uno studente, un top manager che parla con un giovane dei centri sociali, un informatico che dialoga con un precario. Sarebbe forse una concertazione bonsai, ma avrebbe il pregio di capire il capitale umano disponibile e di parlargli. Spiegando le ragioni poco seducenti del Paese bloccato e promuovendo il gusto collettivo della trasformazione e del risanamento. Nella ricerca di percorsi nuovi diventa fondamentale abolire serre, steccati e campanili e creare un forte spirito di comunità. Consentirebbe alle associazioni professionali di diventare interlocutrici privilegiate di Authority e mercato, assolvendo con spazio autonomo ad alcuni livelli di regolamentazione e sorveglianza e dunque offrendo garanzie di reputazione e di etica dei comportamenti.
Finora il nostro capitalista ha privilegiato il recinto di casa e ha inseguito pratiche di favore stataliste e di pubblico intervento (è nota la ricetta di un capitalismo italiano senza capitali), anche quando sapeva di attivare procedure senza copertura (nei governi di coalizione dormono tutti nello stesso letto ma non fanno tutti gli stessi sogni). Ora si chiede a più voci uno scatto d’orgoglio. Noi sollecitiamo la cura delle patologie nei centri di elaborazione della cultura (forum, università, fondazioni, associazioni) dove scoprire l’ebbrezza di “fare mercato”, polarizzando ogni frammento dell’emotività collettiva, senza confondere ruoli e prerogative, senza commistioni estranee alle leggi dell’economia.

Va in questa direzione quella ventata di britishness auspicata in apertura, capace di convincere gli animal spirits delle Borse e della finanza. Si attendono cambiamenti di natura antropologica (ci sono studi di neuroeconomia che spiegano perché alcuni scelgono la reciprocità, la cooperazione, la solidarietà rispetto al profitto personale). Lo spunto buono può venire da una decisione bipartisan, dal metodo seguito nella scelta del Governatore della Banca d’Italia. Anche per le altre necessità si deve usare poco il giudizio di bandiera, concentrandosi sulle esigenze concrete dei territori e dei gruppi sociali. Un problema che attiene ai percorsi di formazione della classe dirigente (mettendo in conto anche l’esperienza di un governo di larghe intese).
L’impresa resta lo strumento principale di ogni processo di trasformazione. Ma va interpretata come polo sociale magnetico, non come icona di un potere che privilegia l’autoreferenzialità del management e consacra il primato dello status individuale (un’Opa non è gradita ai manager quando con il passaggio dell’azienda in altre mani possono perdere il posto o il valore delle stock option). Si deve creare valore potenziando l’economia reale con nuovi prodotti e nuove tecnologie, non rincorrendo l’arricchimento immobiliare e finanziario, ancorato a metodi collaudati per cavalcare l’inflazione. Un progetto di ricchezza senza sviluppo che sta portando al capolinea la sperimentazione del modello post-craxista. Un mix di liberismo industriale e di statalismo finanziario che ha prodotto uno star system in conflitto con le capriole della povertà. Indignarsi non basta più. Occorrono ambizioni di riforma che ci abituino a prendere confidenza con il mercato, che ci liberino dalle pratiche corporative e protezionistiche che bloccano la concorrenza, arrecando danno ai consumatori-risparmiatori. Nei convegni inglesi e americani si scava sui problemi e si offrono soluzioni. Nei convegni italiani si stringono e si rompono alleanze.
Tutto questo è noto ai Signori che detengono all’estero metà del nostro debito pubblico e che tanta influenza hanno sulle nostre sorti. Intercettare lo sviluppo richiede approcci culturali diversi. Bisogna superare un difficile gioco di “matrioske” per guadagnare fiducia e affidabilità internazionali. È una questione di carisma imprenditoriale, di decisioni politiche market oriented, di organizzazione del sistema-Paese, di seduzione programmata di lungo periodo (ciò che stanno facendo India e Cina). Una prova strategica d’inversione di rotta, senza macerarsi tra soprassalti nazionalisti e voglie di resa, senza sposare i gusti discutibili dell’apartheid.
Per ogni caso che produce crisi (giustizia, scandali finanziari) si continuano a invocare nuove regole. Un metodo che consente di sgranare rosari di retorica buttando tutto in politica, senza maturare mutamenti di convinzioni e di comportamento. Una chiamata di correo va rivolta alla cultura giuridica che, ancorata a logiche di sapere tecnico-formali, resta sensibile alle sollecitazioni dei poteri forti e della Pubblica Amministrazione, senza elaborare contributi originali per rendere moderno il Paese e seria l’azione di contrasto della manipolazione del mercato. Un esempio concreto viene dagli scandali Cirio e Parmalat, che confermano il distacco tra il modello e la realtà. Le leggi e i controlli esterni delle Autorità di vigilanza non hanno dato prova di valida deterrenza. Ma è venuta meno anche l’azione capillare di vigilanza degli organi societari (sindaci e revisori), dei professionisti della certificazione (generosi), dei sindacati (sempre solleciti nel chiedere rivendicazioni contrattuali e politiche di cogestione, ma poco sensibili verso il rispetto dei codici etici, delle procedure di qualità e di sicurezza, del diritto d’informazione).
Non è una questione di giustizia ma di cultura giuridica da Basso Impero. Più leggi non cambiano il costume, non creano alcuna deterrenza quando la società organizzata chiede più diritti, ma non ha il senso della legalità. Non assicurano più etica ad una categoria che ora deve fare i conti con Le crépuscule des petites dieux (si legga il bel libro di Alain Minc). Un clima inquinato da “collateralismo” si riscontra anche nell’ultima stagione degli scandali finanziari. Tutti segnali di scarsa maturità sociale, che deturpano il paesaggio degli investitori. Uniti all’ampliamento della forbice debito pubblico/Pil e alla caduta di competitività, rendono più severi i giudizi delle agenzie di rating e più difficile il decollo del nostro capitalismo nella realtà di un’economia globale.
Non è casuale che ad un recente convegno sul futuro del sistema bancario un imprenditore attento commentasse le proposte come prodotto di fantascienza se riferite al futuro, di romanzo storico se riferite al presente. Si respira un senso fatalistico di smobilitazione, alternato a guizzi d’improvvisazione. Si pensi alla questione meridionale che, dopo anni di deliberata rimozione, torna improvvisamente alla ribalta grazie all’invenzione di una Banca per il Sud, affidata alle cure di proconsoli blasonati (Carlo di Borbone, Presidente; Lello Sforza Ruspoli, Vicepresidente).
Nella realtà il riordino del sistema bancario italiano non ha esaurito la spinta verso le aggregazioni (processo di consolidamento) in vista di una maggiore capitalizzazione a sostegno dello sviluppo (si leggano le indicazioni del Comitato per il credito e il risparmio). Ciò vale anche per il sistema meridionale, dove sono presenti diverse aziende di media grandezza sparse tra Popolari e Credito cooperativo. Questo passaggio appare prioritario rispetto ad iniziative finanziarie ispirate alla visione di un Sud pensato ancora come feudo prefettizio, marcato stretto da una sorta di intendenza politica con stimmate paternalistiche fissate nel codice genetico. Mentre si attendono formule di mercato d’alta scuola per avviare lo sviluppo di un’Europa mediterranea e dunque un proliferare di interessi strategici per il nostro Mezzogiorno. Una pagina tutta da scrivere, anche nei nostri confini regionali, con disegni industriali e finanziari volti a potenziare il grado d’integrazione territoriale.
In costanza di un sistema creditizio ancorato alla rendita, poco sensibile alla concorrenza, sostanzialmente gestito con strategie Nord-bancocentriche (si vedano le vicende di scalate e Opa), diventa importante per il Sud non disperdere le poche esperienze di azionariato popolare che funzionano e rafforzano il legame credito-territorio. Anche nei percorsi organizzativi decisi in attuazione della normativa europea sulla libera circolazione dei capitali si dovrà tenere conto di questa esigenza, valorizzando il patrimonio delle specificità locali, nel rispetto dei target di efficienza imposti dalla concorrenza e dalla standardizzazione dei costi. Va da sé che il sistema creditizio meridionale dovrà svolgere al suo interno importanti operazioni di aggregazione e ristrutturazione, essendo chiamato a dare contributi determinanti alle strategie di attuazione di un piano di sviluppo unitario, regionalmente ripartito (la litigiosità interregionale frena la crescita di sistema).
Ci sono già precedenti illustri nelle positive esperienze di Irlanda e Galles, che hanno saputo coniugare crescita e autonomia, dimostrando di saper dare contenuti operativi all’idea di un’Europa delle regioni, cara alla tecnocrazia di Bruxelles.
L’attenzione va portata su un credito capace di produrre sviluppo e dunque effetti moltiplicatori per occupazione e crescita. Sotto questo profilo appare poco probabile che le virtù dell’imprenditoria meridionale possano trovare occasioni esclusive di rilancio nella presenza di un’altra banca e di un’altra burocrazia (in Puglia e Basilicata nel periodo 2002-2004 sono nate otto nuove banche, tra Popolari e Credito cooperativo). Le complesse ragioni d’inefficienza strutturale rendono attuale un quesito già dibattuto in era pre-fascista: se il nazional-capitalismo possa uccidere il nazional-capitalismo. Quando non alzano barricate, le anime belle sembrano rassegnate a praticare forme di eutanasia indolore. Cresce così il tasso di contendibilità (incoraggia le incursioni estere), rendendo più critico il problema di essere, dopo essere stati.
Un’immagine di efficienza attiene ad un clima di concordia nazionale, al potere competitivo della concorrenza, a funzioni effettive di controllo interno ed esterno alle aziende, ad una giustizia certa e tempestiva, alle direttive degli organi associativi, alla moral suasion del Governo. Intenti corali per una strategia. Se siamo ancora Paese bisogna ritrovare lo spirito dei tempi migliori, una moderna cultura d’impresa e un’aristocrazia del lavoro che abbia voglia di competizione globale. Conducendo una battaglia determinata contro una miscela incandescente: ingovernabilità, esasperazione conservatrice, ribellismo antisistema. A bocce ferme, il processo decisionale resta appaltato agli appetiti dei patti di sindacato (non solo aziendali) impegnati a sostenere l’intangibilità degli equilibri in essere.
Così, mentre si alzano i decibel sulle riforme, l’economia continua a registrare gli impeachment dell’arroganza di casta. Consegnando agli storici il fascino di raccontare le vicissitudini di un dirigismo crepuscolare che, sorretto da un machiavellico tatticismo di postura, svuota pensieri e desideri.

 

   
   
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