Giugno 2006

GIOVANI E LAVORO

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Tra grazia e diritto
Mabel  
 
 

 

 

Tali informazioni non riescono da sole a farci
comprendere
la mancanza
di speranza
nel futuro che pare sempre più
caratterizzare
i giovani europei.

 

Di recente è stato scritto che ogni tentativo di approfondimento del concetto di precarietà deve partire dalla rilettura dei dizionari linguistici. Il Palazzi scrive che precarietà è sinonimo di «incertezza, instabilità, temporaneità, provvisorietà», fornendo come esempio proprio l’impiego precario. L’etimologico Zanichelli utilizza la radice latina (prex-precis) per indicare che «si concede per grazia», non si mantiene per diritto.
La dimensione temporale è fondamentale per identificare la precarietà nell’universo giovanile del lavoro. In essa è necessario distinguere tre elementi: i diversi periodi storici, il fattore età, la coorte di appartenenza. Chiariamo tutto, con riferimento all’Europa, e con particolare focalizzazione sulle situazioni determinate in Italia e in Francia.
È senza dubbio corretto sostenere che la debolezza occupazionale dei giovani si è aggravata: basti pensare che tra il 2000 e il 2004 la probabilità media di occupazione di un europeo di 15-24 anni di età è diminuita, mentre nello stesso tempo il tipo di probabilità è aumentata persino nella fascia più anziana (55-64 anni) delle persone in età attiva in tutti i Paesi dell’Unione europea, eccetto la Polonia e il Portogallo.

Ma è poco plausibile che questa evoluzione temporale sottenda l’attuale senso di insicurezza montante nei giovani, perché i ventenni di oggi non hanno in genere sperimentato le migliori condizioni lavorative vigenti in Europa cinque anni fa e quelli di allora non si trovano più nella stessa fascia di età. D’altra parte, Francia e Italia sono fra i pochissimi Paesi europei nei quali la probabilità di occupazione dei 15-24enni è cresciuta nell’ultimo quinquennio.
Nel secondo aspetto è vero che la posizione dei giovani nel mercato del lavoro è molto più fragile di quella delle persone di mezza età (25-54 anni) e addirittura degli “anziani”: tutti gli indicatori disponibili lo illustrano, dal minore livello retributivo, al più elevato tasso di povertà, alla più forte incidenza degli squilibri. Per esempio, nel 2004 il tasso di disoccupazione giovanile della Ue superava il 18 per cento, cioè il doppio di quello complessivo; in Francia quel tasso eccede il 20 per cento, contro un dato medio del 9,4 per cento; in Italia la disoccupazione giovanile è al 27 per cento, più del triplo di quella generale nazionale.
Tra le persone di 15-24 anni nell’Unione europea il 36,8 per cento ha un lavoro, quota che scende al 30,4 per cento in Francia e al 27,6 per cento in Italia. Sono frazioni ben inferiori a quelle che riguardano nelle identiche aree le altre fasce di età. All’opposto, in Europa la frequenza dei lavori alle dipendenze di tipo temporaneo (mediamente pari al 13,7 per cento) è tra le persone di 15-24 anni due volte superiore che tra quelle di 25-34 anni e quasi quattro volte maggiore che tra gli “anziani”. Secondo l’Ufficio di statistica nazionale francese (Insee), la metà dei giovani transalpini che trovano un’occupazione nell’anno successivo all’uscita dal sistema educativo sono assunti con contratto temporaneo, contro una percentuale del 25 per cento di tre lustri fa.
Secondo la Banca d’Italia, la quota dei neo-assunti italiani di 15-29 anni con contratti temporanei è oggi il 49,8 per cento (era il 46,4 per cento soltanto un anno fa), a fronte del 40,5 per cento tra i neo-occupati di ogni età.
Ma per quanto tali informazioni siano impressionanti, non riescono da sole a farci comprendere la mancanza di speranza nel futuro che pare sempre più caratterizzare i giovani europei: se esistesse solo un problema di età difficile, per risolverlo basterebbe aspettare con pazienza e senza soverchie paure l’inesorabile, e in questa circostanza desiderabile, scorrere del tempo. Così non è, perché sussiste anche un terzo fattore di rischio temporale, messo in luce dai dati longitudinali riguardanti il percorso di una coorte durante il proprio ciclo di vita lavorativa. Si tratta di numeri scarni, complessi e talvolta inediti, come parzialmente quelli citati più avanti. Tuttavia, è come se i giovani, nella loro percezione della realtà, senza conoscerli, mostrassero di introiettarli.

Secondo le cifre diffuse dalla Commissione europea nel 2004 risulta che, di 100 europei originariamente assunti con contratto temporaneo, dopo un anno nemmeno un terzo conquisterà un posto permanente, 44 saranno ancora temporanei, tre si saranno messi in proprio, quattro saranno tornati agli studi, 18 saranno inoccupati. Dopo sei anni, solo 55 saranno dipendenti a tempo indeterminato e 16 resteranno temporanei, mentre ben 21 si ritroveranno privi di occupazione.
In Francia, dopo sei anni, il 62 per cento dei dipendenti inizialmente temporanei godrà di una posizione permanente, il 16 per cento sarà ancora a tempo definito, l’11 per cento sarà in cerca di lavoro, il 9 per cento sarà inoccupato in varia forma. Nel nostro Paese, dei 100 che in origine avevano un contratto temporaneo, dopo sei anni soltanto 47 disporranno di un “posto fisso”, 18 saranno ancora temporanei, nove saranno disoccupati e ben 16 saranno fuori dal mercato, (presumibilmente nel sommerso; la somma delle percentuali non fa cento, perché esistono altre tipologie di sbocchi).
È dunque comprensibile che un grandissimo numero di giovani viva in Europa la prospettiva drammatica della precarietà: poco più della metà in Italia e poco meno del 40% in Francia di quelli tra coloro che entrano oggi nel mondo del lavoro con contratti temporanei (ormai la metà dei neo-assunti) non avrà probabilmente un posto sicuro, cioè a tempo indeterminato, nemmeno dopo il 2010.

 

   
   
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