Giugno 2006

FAMIGLIE ITALIANE

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Un bilancio in chiaroscuro
Filippo Cucuccio  
 
 

 

 

In un’ottica
nazionale si registra un marcato calo della propensione
a possedere
strumenti finanziari
più rischiosi,
conseguenza diretta di alcuni noti crack industriali.

 

Sono più ricche o più povere le famiglie italiane rispetto all’immediato passato? E ancora: quali sono i livelli di distribuzione e di concentrazione della ricchezza delle famiglie in Italia? Sono solo alcuni degli interrogativi più frequenti che ci si pone quando si analizzano i comportamenti e gli stili di vita di quella che ben a ragione viene considerata la spina dorsale della società.
Ad orientarci nella scelta di metodologie di analisi e nelle modalità di approccio alla soluzione di questi interrogativi e degli altri ancor più numerosi che ne costituiscono il logico corollario giunge la recente ricerca della Banca d’Italia 1, che con cadenza biennale offre una fotografia nitida e dettagliata dell’universo familiare del Paese, stimolando valutazioni utili a meglio comprendere il recente passato e a delineare più compiutamente il nostro futuro prossimo.
L’accuratezza dei questionari che sorreggono l’impianto di campionamento prescelto e la raffinatezza delle elaborazioni derivanti dai risultati acquisiti sul piano finanziario e reale costituiscono una garanzia fondamentale per l’affidabilità e, quindi, per il valore da attribuire a questa indagine2. Un’indagine che scava nella realtà rappresentata da oltre 22 milioni di nuclei familiari,3 con una localizzazione geografica che pende decisamente a favore del Nord (47,7%). Una realtà, peraltro, non statica, ma in continuo movimento, come testimoniato dalla vertiginosa crescita del peso delle famiglie formate da un solo componente: dal 9,7% del 1977 ad oltre un quarto del numero complessivo nel 2004. Alla radice di questo fenomeno dalle dimensioni vistose c’è la crescente presenza di persone anziane rimaste sole e in prevalenza di sesso femminile; ma c’è anche sicuramente il marcato aumento della quota di persone separate e divorziate “under 50”, che ha portato questo particolare tipo di nucleo familiare a più che quadruplicarsi nello stesso periodo (da meno del 2% all’8).

È, in definitiva, proprio questa la principale novità che emerge sul piano strutturale della famiglia italiana in confronto con le precedenti indagini, in quanto risultano, invece, confermate altre principali caratteristiche morfologiche, tra le quali la dimensione della famiglia, che è sempre maggiore al Sud e nelle Isole, con un valore medio di 2,87 componenti, e il numero di percettori di reddito, che mediamente è più alto al Nord con 1,7 componenti. Superata questa prima tappa di definizione del nucleo familiare, puntiamo allora verso gli aspetti economici che caratterizzano i bilanci delle famiglie italiane. Si può cominciare questa ricognizione dal livello del reddito, che mediamente supera i 29.800 euro su base annua con una crescita rispetto al biennio precedente del 6,8% in termini nominali e del 2% in termini reali. La disaggregazione di questo dato su scala territoriale evidenzia, comunque, delle dinamiche reddituali differenziate a seconda delle aree considerate. In particolare, il Centro si segnala per la vivacità e per l’ampiezza del fenomeno con un +8,5% rispetto alle variazioni del Sud (+2%) e del Nord, dove addirittura si registra un segno negativo (-1,7%). La spiegazione di questo andamento si trova principalmente nell’aumento dei redditi da capitale reale connessi con la crescita dei prezzi degli immobili.
E qui sembra opportuna l’apertura di un’apposita finestra di considerazioni sull’aspetto immobiliare che riveste, come facilmente intuibile, un ruolo preminente nella composizione del patrimonio familiare. Un primo dato che colpisce è la vocazione proprietaria con oltre i due terzi delle famiglie italiane (67,7%) che vivono in abitazioni di proprietà; la quota residua, inferiore al 22%, si avvale di abitazioni in locazione.

Un secondo dato riguarda il valore medio dell’abitazione di residenza che si colloca tra i 172.000 e i 173.000 euro, pari a 1.728 euro per metro quadro. Naturalmente, non mancano le oscillazioni rispetto a questo valore medio con riferimento sia all’area geografica, sia alla dimensione demografica del comune di residenza: con il Nord che primeggia in questa particolare classifica e il Sud e le Isole a fare da fanalino di coda.
Quanto al prezzo a metro quadro, non si può non notare che se nel biennio al quale si riferisce l’indagine l’incremento è stato del 29% in termini nominali, qualora si dilati il periodo del raffronto alla metà degli anni ‘90 il valore di crescita sale vistosamente al 76% (38% in termini reali). Prima di chiudere questa finestra sull’immobiliare ancora una curiosità: la dimensione media dell’abitazione di residenza risulta di circa 100 metri quadri, un dato che, però, risulta dalla ponderazione delle dimensioni delle abitazioni occupate direttamente dal proprietario (mediamente più grandi con 109 metri quadri) e di quelle in affitto (mediamente più piccole con 77 metri quadri).
Tornando ad esaminare gli aspetti reddituali, l’analisi della Banca d’Italia offre altri spunti di sicuro interesse: a cominciare dalla composizione del reddito, la cui quota più cospicua rimane attribuita al lavoro dipendente (40,7%), mentre i redditi da libera professione e impresa si attestano poco al di sopra del 15%. E in tema di conferme va segnalato l’andamento della curva di concentrazione dei redditi, che non registra scostamenti significativi rispetto alla precedente rilevazione: nel dettaglio, il 10% delle famiglie a reddito più basso percepisce il 2,6% del totale dei redditi prodotti, mentre il 10% delle famiglie a reddito più alto percepisce il 26,7% del monte redditi complessivo.
Un altro aspetto che merita una sosta di riflessione riguarda la destinazione del reddito, in particolare per la quota assorbita dalla spesa per consumi, ossia circa i tre quarti del reddito familiare su base nazionale. Ma anche qui, scavando in profondità, emergono differenziazioni legate all’importanza del titolo di studio del capofamiglia, alla dimensione della famiglia e alla collocazione geografica. Su quest’ultimo parametro balza all’attenzione il fatto che la quota destinata alla spesa per consumi risulta marcatamente più elevata al Nord rispetto al Sud (precisamente oltre 24.000 euro contro 17.400 euro, rispetto ad un valore della media nazionale pari a 22.138 euro).
E a questo punto, prima di passare agli aspetti di ricchezza, viene comodo aprire una seconda finestra, dedicata in questo caso all’indebitamento delle famiglie italiane. L’occasione è fornita dall’esame di alcuni dati resi noti in un momento successivo sempre dalla Banca d’Italia 4. Utilizzando una dimensione di raffronto decennale, si scopre così che tra il 1995 e il 2004 la quota di famiglie italiane indebitate è cresciuta di un punto percentuale, toccando il 22%; mentre l’ammontare medio dei finanziamenti per nucleo familiare indebitato è raddoppiato in termini nominali ad oltre 27.000 euro (in termini reali l’incremento è stato del 60% circa).
La crescita dell’indebitamento la si può valutare anche dal raffronto con il Pil: a settembre dello scorso anno il valore di questo rapporto si situava al 30% contro il 18% di dieci anni prima. All’origine di questo andamento va certamente iscritto il ruolo di crescente importanza del finanziamento per l’acquisto di abitazioni, sospinto da una forte riduzione dei tassi di interesse nominali e reali e dall’ampliamento strutturale dell’offerta di mutui da parte delle banche.
Ci stiamo, pertanto, avviando pericolosamente al livello di guardia dell’indebitamento? E quanto dobbiamo preoccuparci di questa crescita? Domande alle quali l’analisi di Via Nazionale risponde pacatamente sottolineando che «l’indebitamento delle famiglie non è elevato in rapporto ai livelli di ricchezza e reddito» 5. Infatti, a fine 2004 i debiti per mutuo ascendevano al 14,4% delle attività reali e finanziarie (9,1% nel 1995); mentre alla stessa data la quota dei debiti per finanziamenti al consumo sulle sole attività finanziarie si collocava poco oltre il 38% (37,1% nel 1995).

Riprendendo il viaggio attraverso le cifre dei bilanci familiari si arriva così alla tappa della ricchezza, il cui valore mediano si situa poco oltre i 125.000 euro con una crescita superiore in termini nominali al 22% se raffrontata agli esiti del precedente biennio.
Ma l’analisi della ricchezza non si esaurisce certo in questo dato e soddisfa anche altre curiosità: prima di tutto si ha la conferma che l’indice di concentrazione della ricchezza registra un livello maggiore rispetto all’analogo dato del reddito: infatti, il 10% delle famiglie più ricche detiene il 43% dell’intera ricchezza netta delle famiglie italiane; un valore, in realtà, molto alto, anche se in flessione di un paio di punti percentuali rispetto ai risultati dell’indagine precedente. E, inoltre, rimane assai pronunciata la divaricazione Nord-Sud con un indice di concentrazione della ricchezza che al Meridione si colloca su valori ben superiori alla media del Paese.

Da ultimo, un po’ di attenzione va spesa verso le attività finanziarie, il cui peso condizionato dai parametri già osservati per altre grandezze risulta particolarmente contenuto al Sud, dove una famiglia su due ne detiene per un controvalore che non supera i 2.833 euro. Inoltre, in un’ottica nazionale si registra un marcato calo della propensione a possedere strumenti finanziari più rischiosi, conseguenza diretta di alcuni noti crack industriali; il ripiegamento è di 3,5 punti percentuali e si segnala come inversione di tendenza significativa rispetto agli incrementi registrati ininterrottamente dal 1991.
Un invito alla riflessione giunge, poi, dalla diminuzione del numero di famiglie in possesso di Titoli di Stato e di depositi bancari contestualmente alla crescita segnata da depositi postali e buoni fruttiferi postali. E in tema di deposito bancario, purtroppo, si registra un’ulteriore divaricazione Nord-Sud con il livello più basso di famiglie con deposito bancario al Sud (53%) contro l’80% delle famiglie del Centro e il 92% di quelle del Nord. Una divaricazione che puntualmente si ripresenta e per di più accentuata nel caso di altri strumenti finanziari, quali le azioni e i Titoli di Stato, la cui diffusione al Sud è pari ad un settimo del valore registrato al Nord.
Un fenomeno che è anche frutto di una formazione culturale nutrita dall’avversione al rischio e dallo spiccato orientamento al contante: basti pensare al livello di scorte di liquidità tenute in casa, che al Sud e Isole raggiunge i 477 euro (contro i 400 della media nazionale) o anche al numero di persone che sempre in quell’area geografica ancora chiedono di percepire le proprie entrate direttamente in contanti (il 35,5%).
Continuando nella elencazione dei fattori critici, non può, infine, non preoccupare il dato dell’elevato numero di intervistati (65%) che candidamente dichiara di non dedicare tempo a raccogliere informazioni comunque utili a gestire i propri investimenti; una percentuale che sale ulteriormente al Sud, superando i 4/5 delle famiglie.
Come si vede, alla conclusione di questo viaggio nelle pieghe dei bilanci familiari gli interrogativi ai quali prima si accennava trovano risposte autorevoli e soddisfacenti. Peraltro, sembra giusto mettere in evidenza che l’esame dell’indagine di Via Nazionale sollecita una seconda chiave di lettura che non risulta legata alle riflessioni sul momento contingente, ma spinge a collocarsi su un piano prospettico altrettanto significativo. Ove sembra imporsi la necessità di un sentiero virtuoso da percorrere sia a livello di nucleo familiare, sia di aggregati regionali e sovraregionali per favorire una crescita non solo economica ma anche sociale del Paese. Un’esigenza particolarmente sentita in alcune aree come il Sud e le Isole, che appaiono ancora fortemente in ritardo o penalizzate da fattori esogeni. Con un’avvertenza finale: che è vitale avere piena consapevolezza che qui non si sta formulando un semplice auspicio, ma una condizione sine qua non.

 

   
   
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