Giugno 2006

(S)FRATELLI D’ITALIA

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Chi truffa chi
M.B. - D.M.B.  
 
 

 

 

Stando ai calcoli elaborati dagli ispettori fiscali, con questi e con altri ingegnosi
sistemi in quattro anni sono volati via oltre 2 miliardi di euro.

 

Fin dall’inizio, per ottenere gli sgravi fiscali erano sufficienti pochi clic. Ci si collegava al sito dell’Agenzia delle Entrate (ministero dell’Economia), si scriveva il proprio nome, si dichiarava di avere un’attività imprenditoriale al di sotto del Tronto e del Garigliano, si giurava solennemente di non aver mai evaso le tasse e frodato il fisco, si promettevano degli investimenti. Dopo di che, si poteva passare all’incasso. O meglio: si incamerava il bonus fiscale, che poi era la medesima cosa.

In pratica, si otteneva una cospicua riduzione delle tasse, cioè l’equivalente di un finanziamento a tasso zero. Una volta tanto la burocrazia ministeriale si palesava amichevole, immediatamente disponibile: non pesava come una palla al piede sullo sviluppo e non faceva la faccia truce con gli imprenditori.

Allora, tutto ok? Un po’ sì, un po’ no. Sì, perché il sistema funzionava spedito e questo era un dato positivo, non fosse altro che da un punto di vista tecnico. E, almeno in teoria, non era una bestemmia sostenere con agevolazioni gli investimenti nelle regioni meridionali e nelle aree economicamente svantaggiate. Dall’Irlanda alla Lituania, dalla Grecia al Portogallo, in Europa era e resta un metodo diffuso, rodato ed efficace per stimolare la crescita. E, anche in Italia, proprio gli sgravi fiscali alle aree depresse hanno storicamente prodotto buoni frutti, incoraggiando investimenti per 11 miliardi di euro e contribuendo a creare circa 120 mila posti di lavoro.

Ma nel nostro Paese la questione del bonus presenta risvolti piuttosto sgradevoli e imbarazzanti, con il lato nero delle truffe, che insieme hanno dato luogo ad una frode sistematica e gigantesca. Secondo una proiezione elaborata dagli ispettori dell’Agenzia fiscale sulla base di un’indagine condotta sul campo, circa un imprenditore su due ha incamerato il beneficio e ha rinunciato agli investimenti. Si sostiene nell’inchiesta: «Si è in presenza di un’alta percentuale di uso non corretto dello strumento». Parola dei magistrati della Corte dei Conti. Il che significa che su 31.365 controlli effettuati sono state riscontrate bel 16.207 irregolarità (il 52 per cento).

Nella maggior parte dei casi esaminati (65 per cento) gli investimenti sono rimasti allo stato di promessa; nel rimanente 35 per cento gli ispettori si sono visti esibire fatture false oppure sottodimensionate, o ancora hanno riscontrato che gli acquisti effettuati erano sostanzialmente diversi da quelli annunciati. In altri termini, invece di trasformare il risparmio fiscale in nuovi macchinari, in attrezzature, in impianti e in posti di lavoro, come solennemente dichiarato, decine di migliaia di industriali avevano preferito utilizzare quei quattrini per scopi ben diversi, tutt’altro che produttivi, anche se più divertenti: il fuoristrada che va tanto di moda, la palestra domestica, la terza o la quarta casa per le vacanze, l’ennesimo viaggio alle Maldive, la trentesima crociera mediterranea o, infine, nel migliore dei casi, il mini-villino a Cap Ferrat.

Questo del bonus non è solo un caso di bassa moralità imprenditoriale, è un affare molto serio per tutti: le cifre in ballo sono state e restano notevoli (in media, circa 500 milioni di euro all’anno), e coinvolti non risultano soltanto gli imprenditori meridionali, ma di tutta Italia. Anche se condizione essenziale per l’ottenimento del beneficio, infatti, è la presenza fisica di un’attività imprenditoriale in zone svantaggiate, gli ideatori delle truffe in molti casi hanno agito in aree ricche del Paese. Tanto che la maggior parte delle irregolarità sono state scoperte dagli investigatori nelle sedi provinciali dell’Agenzia di Milano, di Torino e di Roma, città dove imprenditori medi o anche grandi hanno prima ottenuto il bonus per i loro stabilimenti meridionali, e poi gli investimenti li hanno fatti altrove, quando li hanno fatti. E a riprova che l’imbroglio è diffuso e ultra-regionale c’è Napoli, che, secondo il luogo comune, dovrebbe essere la capitale italo-europea della truffa, mentre si piazza solo al quinto posto, preceduta dalla Città Eterna e da altre tre città del Nord.

I sistemi escogitati per frodare il fisco sono spesso ingegnosi e pittoreschi. A Marcianise, un gran paese in provincia di Caserta, un tale che si è presentato come imprenditore cartario ha ottenuto circa 40 mila euro di sgravio per sistemare condizionatori d’aria e tende all’interno del suo stabilimento, con l’intenzione dichiarata di far lavorare meglio i dipendenti. Quando – successivamente – i dirigenti della locale Agenzia delle Entrate hanno chiesto qualche ragguaglio sugli investimenti effettuati, si sono visti recapitare un elegante dépliant con le foto dell’azienda ingentilita dai condizionatori e dai tendaggi. Ma dalla conseguente verifica è emerso non solo che quegli investimenti vantati non erano stati realizzati, ma che non esisteva nemmeno lo stabilimento.

A Quarto di Napoli, area industriale che si trova dalle parti di Pozzuoli, più di un “giovane imprenditore” ha provato ad incassare il bonus, che tuttavia all’ultimo momento è stato negato perché gli ispettori si sono accorti che le varie ditte richiedenti erano state fatte nascere soltanto sulla carta e con l’unico obiettivo di incamerare il beneficio fiscale.

E spesso il bonus ottenuto, (particolarmente al Nord), è servito all’acquisto di Suv, quei pesanti macchinoni fuoristrada che da qualche tempo a questa parte hanno fatto impennare le vendite di alcune case automobilistiche straniere: sembra infatti che sia abbastanza facile da un punto di vista documentale presentare il Suv come un “bene strumentale”, una sorta di autocarro necessario per le esigenze di trasporto e di carico aziendale.

Stando ai calcoli elaborati dagli ispettori fiscali, con questi e con altri ingegnosi sistemi in quattro anni sono volati via oltre 2 miliardi di euro. Tasse che lo Stato ha rinunciato ad incamerare, ma che per far quadrare i conti pubblici qualcun altro, volente o nolente, ha dovuto pagare al posto degli industriali truffaldini. Soldi che in teoria il potere centrale potrebbe ora riottenere, aprendo un contenzioso con i contribuenti infedeli, anche se si sa come spesso vanno a finire queste faccende: tra ricorsi e commissioni fiscali passano anni, poi magari sopraggiunge il colpo di spugna di un condono.

Il rubinetto del bonus, intanto, resta aperto ancora, dopo che era stato rifinanziato con oltre 850 milioni di euro previsti da una norma inserita nella Finanziaria 2005: una cifra inferiore a quella degli anni precedenti, ma comunque abbastanza elevata.

La trovata del bonus fiscale ha molti estimatori trasversali e un padre certo, Vincenzo Visco, il ministro delle Finanze che nel 2000 decise di sostenere così l’imprenditoria meridionale e gli investimenti nelle regioni del Sud.

I beneficiari, secondo la legge (art. 8 della Finanziaria 2001), sarebbero stati «i soggetti titolari di reddito di impresa che effettuano nuovi investimenti destinati a strutture produttive situate in aree territoriali individuate dalla Commissione europea come aree svantaggiate»: in sostanza, l’intero Mezzogiorno, più qualche altra zona colpita, ad esempio, da calamità naturali, come alluvioni o terremoti.

Venne previsto un sistema automatico: in pratica, le imprese potevano autoridursi le imposte, a patto di utilizzare il benefit per incrementare la produzione attraverso l’acquisto di attrezzature e di macchinari. Lo Stato stanziava un plafond, e tutti coloro i quali dichiaravano di possedere i requisiti necessari potevano chiedere e ottenere il beneficio fino ad esaurimento della cifra stanziata: chi arrivava tardi e restava a mani vuote non doveva disperare, potendo mettersi in lista d’attesa per l’anno fiscale successivo.

Fin dalla prima edizione l’idea ebbe un grandissimo successo dal punto di vista della partecipazione, tanto che venne replicata negli anni seguenti. Le domande piovvero a migliaia sull’Agenzia delle Entrate e, a conti fatti, soltanto dal 2001 al 2004 erano stati concessi crediti per 4,6 miliardi di euro a circa 200 mila imprese, il 90 per cento delle quali dislocate nel Sud: il 25 per cento in Campania, il 22 per cento in Puglia, il 16 per cento in Calabria, il 12 per cento in Sicilia.

 

   
   
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