Giugno 2006

CHE ITALIA FA

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Rischio involution
Dimab  
 
 

 

 

La storia degli
ultimi tre decenni mostra quanto sia stato pernicioso per un Paese
come l’Italia
allontanarsi da un principio unitario.

 

Quello che mai vollero personaggi del calibro di Benedetto Croce e Francesco Saverio Nitti lo ha ottenuto il leader leghista Umberto Bossi: la devolution, legge dello Stato («perfettibile», dicono gli ottimisti che si battono per la “Padania libera”), è stata sottoposta a referendum, ed è stata allegramente buttata alle ortiche dagli italiani. Non siamo in grado di anticipare quel che succederà nei prossimi mesi, anche se possiamo immaginare le reazioni dei carrocciani. Allo stato delle cose, e in via preliminare, sono state sollevate due questioni, una di metodo e una di merito, sulla devoluzione.
La prima riguarda il fatto che una riforma costituzionale di tale ampiezza e portata deve essere oggetto di un dibattito approfondito, e non frutto di una trattativa condizionante all’interno di una singola forza (o coalizione, o polo) politica. Cioè, non deve essere né strumento di ricatto da parte di un partito né un colpo di mano di una maggioranza che – sebbene discorde sul tema – vota per disciplina, o peggio ancora, vota strumentalmente, in attesa, appunto, del referendum per il quale ha lasciato ai propri elettori “libertà di coscienza”. Siccome tocca gli interessi di ogni cittadino, infatti, non può non essere affidata al vaglio dell’intero popolo sovrano.

La seconda, altrettanto rilevante, chiama in ballo un principio di solidarietà che non risponde solo ad un afflato caritatevole, ma è il collante di qualsiasi unità nazionale.
In altri termini: la riforma cova un deficit di equità che si collega strettamente al deficit di efficienza sottolineato da un gran numero di commentatori. Non si tratta di una lettura “economicistica”. È in ballo la tenuta del Paese. Il rischio si annidava già nel titolo V della Costituzione approvato dal centrosinistra, e in particolare nell’articolo 117, il quale attribuisce allo Stato una potestà legislativa limitata alle sole materie specificamente attribuitegli e alle Regioni una potestà legislativa «su ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato». E prevede la possibilità di una “legislazione concorrente” amplissima. Chi vuole minimizzare la portata di questa devolution sostiene che in fondo la riforma attuale mette ordine in quella precedente e la completa. Che in parte sarà vero. Ma è un ordine che non basta a cancellare l’allarme. Anzi.
Questo tipo di federalismo, se supererà il referendum, produrrà un limbo asfissiante per le economie locali: parola di Ettore Artioli, che vicedirige Confindustria, con delega sul Mezzogiorno, e dunque è uno di quelli che se ne intende. Anzitutto, prosegue, continuiamo a stare in una situazione di confusione. La riforma introdotta dalla precedente legislatura era già incompleta: ne sono prova gli innumerevoli contenziosi in atto tra lo Stato e le amministrazioni locali sull’attribuzione delle competenze; ma è indubbio che anche adesso la confusione permane, perché la devoluzione a livello locale produce più politica e meno economia. E la parcellizzazione delle competenze che conseguirà non sempre sarà funzionale allo sviluppo del Paese. Perché? Perché un’ulteriore presenza della pubblica amministrazione nella realtà economica italiana non solo rischia di rendere i processi decisionali più farraginosi. Le maggiori competenze agli enti locali rischiano anche di determinare una maggiore “vivacità” di penetrazione nel tessuto economico ad opera delle municipalizzate, ad esempio, che possono essere considerate una grande occasione mancata della politica recente. Ora come ora, le municipalizzate sono un ibrido, sono delle SpA che agiscono con egide privatistiche, ma senza due elementi fondamentali, tipici di quel tipo di società: non si assumono il rischio patrimoniale, tanto c’è sempre mamma Provincia o mamma Comune a garantire; il loro management non rende conto ai propri azionisti. E il federalismo approvato dal Parlamento non fa che incoraggiare una moltiplicazione di questi soggetti.
Molti economisti sono preoccupati dagli enormi costi del decentramento, e ricordano che già la riforma Bassanini, che proprio col decentramento puntava a un abbattimento delle spese, aveva mancato il suo obiettivo. Altri sostengono che senza federalismo fiscale la devolution è una riforma zoppa, perché non responsabilizza le amministrazioni locali: se il cittadino versa delle tasse, di sicuro si aspetta anche un’assunzione di responsabilità da parte di chi incassa e una gestione meno macchinosa e più trasparente della spesa; e siamo certi che le amministrazioni locali agiscano sempre per il bene del cittadino e delle imprese? Poco tempo fa la Campania ha proposto di aumentare l’Irap, tassa bocciata dall’Europa. E la Puglia ha stravolto la legge Biagi, reinterpretandone la norma sull’apprendistato e rendendola di dubbia utilità per le aziende. C’è poco da fidarsi degli enti locali e dello stesso Stato? È fuor di dubbio che lo Stato sia più lontano dalle esigenze spicciole che esistono nelle realtà locali, mentre le amministrazioni locali rischiano più facilmente di rispondere a queste logiche di interessi localistici perdendo di vista l’interesse generale.

Per quel che riguarda la legge Biagi, non c’è da scandalizzarsi più di tanto se ci fosse qualche correzione. Intanto, c’è chi è convinto che quella legge non sia stata ancora capita fino in fondo, con le sue potenzialità enormi di sviluppo in direzione di un mercato del lavoro più efficiente e moderno. Molte cose, in altre parole, sono ancora inattuali. Ma ci sono anche formule strane nella legge 30, come ad esempio il job sharing o il voucher, che fra l’altro non è ancora decollato, che possono essere riviste, perché si tratta di cose estranee alla nostra cultura e mentalità: forse in futuro sarà necessario rendere queste forme di lavoro più vicine alla nostra mentalità e al nostro sistema.
All’origine, la flessibilità del mercato del lavoro doveva essere accompagnata dalla riforma degli ammortizzatori sociali, vale a dire da una riforma che garantisse un’adeguata rete sociale. Che fine ha fatto? Non è dato saperlo. È anche questa una riforma mancata, perché consentirebbe di affrontare le crisi aziendali, se non con maggiore tranquillità, per lo meno con minore preoccupazione: quello italiano è un sistema troppo distorto dal continuo ricorso a mezzi straordinari per scongiurare la chiusura delle aziende, che invece negli altri Paesi è un fatto normale. È normale che oggi le imprese aprano e chiudano a ritmi molto più veloci rispetto a vent’anni fa. Quindi dobbiamo imparare ad accettare le crisi d’impresa come un fatto normale. E quella riforma avrebbe certamente aiutato allo scopo.
E parliamo di debiti di uno Stato che dovrebbe spendere cifre da capogiro per una devolution che per molti versi prelude a futuri tentativi di separatismo. Cominciamo col fare un esempio, che riguarda la regione Sardegna e la sua vertenza fiscale con lo Stato. Da un calcolo eseguito dalla Ragioneria generale e dagli uffici regionali, è emerso che dal 1993 ad oggi lo Stato non ha corrisposto alla Sardegna quanto dovuto per legge costituzionale. Si parla di circa 10 miliardi di euro, qualcosa che somiglia ad una finanziaria. In poche parole, la Legge Costituzionale 26.02.1948, n. 58 (art. 8), ovvero lo Statuto della Regione, prevede che il gettito fiscale che i cittadini e le imprese contribuenti versano in Sardegna costituisce entrate della Regione per i 7/10 (ad esempio, Irpef e vecchia Irpeg) e 4/10 (Iva). Di questa vicenda si tace, anche se potrebbe avere effetti devastanti per le casse dello Stato qualora la Regione dovesse presentare ricorso alla Consulta per far riconoscere i propri diritti.
Del debito pubblico si sono occupati generalmente gli economisti, ma bisognerebbe raccontarlo come specchio della storia d’Italia. Quei pochi pionieri che lo hanno fatto, hanno trovato le relazioni tra le varie esplosioni del debito e i grandi eventi che le hanno provocate, (l’Unità d’Italia, la crisi del 1890, le guerre, la depressione degli anni Trenta...), ma resta intatto il mistero sul perché quel debito sia passato dal 64 per cento del 1982 al 111 per cento dieci anni dopo, fino al record del 125 per cento nel 1996.
Certo, anche qui entrano in gioco la crisi petrolifera, gli alti tassi di interesse, il clientelismo, la corruzione. Ma quel raddoppio rimane a tutti gli effetti un buco nero. Una delle chiavi di lettura è che negli anni Ottanta arriva a maturazione il decentramento regionale avviato nel 1970 e la spesa diventa incontrollabile. Nessuna superstangata può scalfire quel macigno di granito. Se il “completamento” prende corpo, quella montagna finirà con lo schiacciarci nello spazio di un mattino. A quel punto, sotto i colpi di una nuova, gravissima emergenza, (come sempre accade nel nostro Paese per i grandi cambiamenti), diventerà inevitabile, anzi legittimo, il “si salvi chi può”. Il principio disgregativo, oggi in nuce, prenderà corpo.
Qui si annida l’inganno. La storia degli ultimi tre decenni mostra quanto sia stato pernicioso per un Paese come l’Italia allontanarsi da un principio unitario. Ma anche un vero federalista si rende conto che quel che si è voluto introdurre è lontano sia dai princìpi dei “Federalist papers” sia dal modello introdotto con il “New Deal” negli Stati Uniti e applicato poi in Germania con la Costituzione del 1950. Gli studiosi lo chiamano federalismo cooperativo, un compromesso che – lo dimostra il dibattito tedesco – ormai fa acqua da tutte le parti.
Il Parlamento italiano aveva approvato un federalismo centrifugo, che portava in grembo la secessione: la saggezza dei cittadini dell’intera Penisola ha dato un segnale preciso, battendo a stragrande maggioranza questo orribile disegno.

 

   
   
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