Giugno 2006

INFRASTRUTTURE E SVILUPPO

Indietro
Pavidi d’Italia
S.B.  
 
 

 

 

 

Se vuole recuperare il gap con il resto
d’Europa, il Paese
deve ritrovare
il coraggio delle
decisioni perché stiamo per essere
catapultati in coda al treno
dell’Europa.

 

I Cantoni elvetici, tanto per dire. Ci sono quattro talpe enormi, ciascuna lunga 420 metri e del peso di tremila tonnellate, sotto le montagne svizzere, alternativamente impegnate in un’impresa gigantesca: lo scavo del tunnel più lungo del mondo. Sono talpe meccaniche costruite in Germania, capaci di sbriciolare la roccia più dura al ritmo di circa due centimetri al minuto. Dal 1996 sono al lavoro, insieme a 1.500 tra ingegneri, geologi, tecnici e operai d’ogni genere, per costruire una doppia galleria ferroviaria lunga 57 chilometri che accorcerà a 2 ore e 40 minuti il tempo di viaggio da Milano a Zurigo, riducendolo, cioè, di un’ora. È il “foro” che supererà l’attuale record planetario detenuto dal tunnel di Seikan, che collega Hokkaido e Honshu, in Giappone. Stiamo parlando del Gottardo.
I numeri parlano dell’opera ciclopica. Saranno scavati 120 chilometri di gallerie; ogni perforatrice ha un consumo elettrico di cinque megawatt, pari al fabbisogno di un paese di mille abitanti. Il cantiere utilizza 500 mila litri d’acqua al giorno prelevati dai fiumi della zona; gli operai provengono in gran parte da Paesi con forti tradizioni minerarie, come il Sudafrica, e sono alloggiati in città-fungo sorte appositamente, con prefabbricati per i cui servizi sono state deviate linee elettriche ad alta tensione e condotte idriche ad uso civile. Il materiale scavato ammonta a 13 milioni e 300 mila metri, equivalenti a 24 milioni di tonnellate, o, se si preferisce, a una quindicina di piramidi di Cheope. Una parte è riciclata per farne calcestruzzo da utilizzare all’interno delle gallerie, un’altra serve a ricostruire il delta del fiume Ruess, dalle parti di Lucerna. Lungo il traforo, i treni viaggeranno a 250 chilometri/ora in due tunnel distanziati di 40 metri: a est i convogli diretti a Milano, a ovest quelli per Zurigo. La sicurezzaß è garantita dalle gallerie di scambio che consentono ai treni di cambiare binario, da due stazioni di soccorso a venti chilometri l’una dall’altra, da cinque tunnel d’emergenza che conducono ad altrettante città: Erstfeld, Amsteg, Sedrun, Faido e Bodio.
Il Gottardo sarà operativo dal 2014. Costerà 19 miliardi di euro. Allo stato, già scavati una sessantina di chilometri. I cittadini dei Cantoni interessati ne sono entusiasti: il traffico su gomma, che negli ultimi dieci anni è aumentato del 1.015 per cento, sparirà quasi del tutto dalla circolazione. Ne guadagnerà la qualità della vita dei paesi e delle città. Non per nulla la società Alptransit sul suo sito Web vende souvenirs e organizza visite ai cantieri e «giornate delle porte aperte». Nessuno, qui, ha paura del nuovo. Nessuno teme di non trovare più in negozio le stesse pantofole. Nessuno si sente vecchio. Nessuno vuole restare recluso nel passato.

Le Regioni d’Italia, tanto per dire. Riapertura al traffico della galleria “Brasile”, percorribile in direzione nord tra Genova e Bolzaneto. Nel nostro pavidissimo Paese degli egoismi locali oggi fa notizia persino la ripercorribilità di un’operetta da tre soldi, esattamente nove milioni di euro, magari importante per il traffico locale, ma non certamente di rilevanza nazionale. Perché, allora, tanta emblematica importanza? Perché in altri Paesi opere come questa fanno parte delle cose correnti, quotidiane. Ma da noi anche la modestia è una novità. A causa del blocco delle opere infrastrutturali cominciate nel 1975, attualmente abbiamo le stesse infrastrutture di trent’anni fa, mentre la domanda è cresciuta del 300 per cento.
Siamo un caso unico al mondo. Un’anomalia nella storia dello sviluppo civile e sociale. Una contraddizione lapalissiana. Infatti, si predica insistentemente la crescita della produttività, ma è fin troppo facile osservare che essa è legata alla velocità non solo della produzione, ma anche del trasporto. Causa principale del blocco delle opere, sostiene l’ex amministratore delegato di Autostrade per l’Italia, Vito Gamberale, è la frammentazione delle autorizzazioni e delle competenze, mali endemici dell’iperburocrazia nazionale. Ma anche la legge sugli appalti produce effetti dannosi: in nessun Paese europeo si ha una legge specifica basata sul massimo ribasso, perché questo vuol dire fare l’opera in perdita, dunque farla male e bloccarla. Che succede, allora? Che Autostrade, avendo volontà di investire, potrebbe spendere 11-12 miliardi di euro in pochi anni, a vantaggio del Paese, ma ha difficoltà a farlo. Sostiene Gamberale: se vuole recuperare il gap con il resto d’Europa, il Paese deve ritrovare il coraggio delle decisioni. Perché la realta è questa: stiamo per essere catapultati in coda al treno dell’Europa, mentre continuiamo a gingillarci tra sì e no alla Tav, sì e no al carbone per le centrali elettriche, sì e no ai tunnel e alle varianti di valico, sì e no al Ponte di Messina, sì e no al Mose di Venezia...
Ma come può avanzare un Paese già soffocato dai lacci burocratici, grazie ai quali ci son voluti trent’anni per portare a termine i lavori del “Brasile” e ora strangolato da un “partito del no” che vuol bloccare tutto, compreso il futuro dei nostri figli? Com’è possibile che si debba assistere a mascherati spoil systems anche per le opere pubbliche, per cui a ogni cambio di giunta locale o provinciale o regionale o nazionale inevitabilmente si pensa di modificare progetti e stanziamenti già decisi e operativi? E si badi bene: il male che facciamo a noi stessi non lo toccheremo con mano in tempi lunghi o medi. Si rivelerà in tempi immediati. E non riguarderà qualche valle o qualche pianura, una centrale o un’arteria. Coinvolgerà l’intero Paese. E allora si giungerà ad un apocalittico si salvi chi può.
La lezione della Storia, tanto per dire. Nel 1766 alcuni cittadini inglesi chiesero al loro Parlamento il varo di una legge per la costruzione di un canale tra i fiumi Mersey e Trent, nel versante occidentale del Regno Unito. Quei cittadini sostenevano che una nuova via d’acqua, attraverso una delle regioni più dinamiche del Paese, avrebbe consentito ai fabbricanti di ceramiche delle Midlands di raggiungere più agevolmente il porto di Liverpool e i mercati mondiali. La legge fu approvata e i lavori, iniziati a spron battuto, si conclusero nel 1776, dopo la costruzione di 70 dighe e 5 tunnel, di cui uno particolarmente lungo (circa 4 chilometri) e complicato. Il Grand Trunk Canal, come fu chiamato, divenne l’arteria di un grande distretto industriale che collegava le città di Birmingham, Manchester, Nottingham, Stoke on Trent e Liverpool, che è come dire il cuore della grande rivoluzione industriale su cui la Gran Bretagna avrebbe costruito nelle generazioni successive la sua potenza mondiale.
Manco a dirlo, il successo dell’operazione scatenò una sorta di “febbre dei canali” e dette il via a progetti analoghi nella stessa Inghilterra, in Francia e in America. Da noi l’eco di quelle grandi opere pubbliche arrivò tardi, affievolita dalle distanze e dalla scarsa attenzione delle nostre classi dirigenti per i problemi della modernizzazione.
Agli inizi del Seicento l’Italia aveva probabilmente il Pil superiore a quello della Francia e della Gran Bretagna. Alla fine del Settecento, con qualche eccezione, (l’agricoltura lombarda e le bonifiche toscane), era divenuta una delle regioni più conservatrici e stagnanti del Vecchio Continente.
Il presente, tanto per dire. Il caso della Val di Susa (e di Civitavecchia, di Brindisi, di Venezia, di Messina, e via negando) non sarebbe così preoccupante se non fosse un altro segnale di una cultura antimodernizzatrice che sembra essere divenuta l’ideologia dominante del Paese. Negli anni Sessanta, quando furono terminati i lavori per l’Autostrada del Sole e fu rinnovata la rete telefonica nazionale, l’Italia era più dinamica della Francia. Avevamo una grande industria chimica, costruivamo dighe colossali in America e in Asia, detenevamo posizioni di tutto rispetto nel settore ferroviario e in quello aeronautico, eravamo una potenza nucleare emergente.
Conosciamo gli scandali e le tragedie, dal Vajont al Petrolchimico di Marghera e alla diossina di Seveso, che hanno offuscato l’immagine di alcuni grandi comparti dell’economia nazionale. Ma in altri Paesi (si pensi al grave incidente nucleare di Three Mile Island, e altri) scandali e tragedie ebbero l’effetto di rafforzare i controlli e le misure di sicurezza. Da noi, invece, vennero usati dal violento massimalismo ambientalista per creare un’atmosfera di sospetto e di diffidenza verso qualsiasi progetto industriale e tecnologico di grande respiro.
Dopo aver gettato alle ortiche (per un incidente avvenuto altrove) la sua notevole esperienza nucleare a scopo pacifico, l’Italia conservatrice oggi non vuole le centrali elettriche, le opere di sbarramento e di regolazione della Laguna veneta, i raddoppi autostradali, i depositi delle scorie nucleari, le ferrovie urbane, i trafori, il Ponte sullo Stretto, l’alta velocità e persino i mulini a vento per l’energia eolica. E in questo “fronte del no” confluiscono verdi, no global, centri sociali, qualche parroco populista, qualche sindacalista in libera uscita, qualche politico ultrà, tutti disposti a barattare il futuro del Paese contro un po’ di consenso. Dietro questi apostoli dalla carne (politica) debole, gli adepti alle culture locali, dagli orizzonti limitati, incapaci di spirito predittivo. Da mettere in mora al più presto, se non si vuole tornare alle latitudini bucoliche del Paese rurale. Restino, costoro, e solo costoro, imprigionati nel loro passato.

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2006