Giugno 2006

CONTRO GLI EGOISMI LOCALISTICI

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Infrastrutture
per crescere
Andrea Monorchio Già Ragioniere Generale dello Stato
 
 

 

 

Un efficiente
sistema integrato
di trasporti
su scala europea
rappresenta
un obiettivo
prioritario ai fini della riduzione degli squilibri
regionali.

 

Molti studi teorici ed empirici sottolineano la relazione che intercorre tra le potenzialità di sviluppo di un’area geografica e il volume delle infrastrutture economiche e sociali di cui essa dispone. Un soddisfacente livello di dotazione infrastrutturale del territorio genera infatti una serie di vantaggi economici diretti e indiretti, sotto forma di maggiore produttività e di maggiore efficienza del settore industriale, che nel complesso accrescono la capacità competitiva di un Paese sul mercato globale.
Di fronte all’incalzare della concorrenza e alle crescenti difficoltà dell’industria europea, il problema dello sviluppo infrastrutturale dell’Unione europea – e soprattutto delle sue regioni più svantaggiate, che rischiano di rimanere del tutto emarginate dal processo di integrazione – ha assunto sempre maggiore rilevanza.
Ad alimentare il dibattito su questo argomento hanno contribuito, oltre all’allargamento ad Est delle frontiere dell’Ue, che ha portato la propria superficie territoriale vicino ai quattro milioni di kmq, anche gli effetti prodotti dall’applicazione delle regole fissate in sede comunitaria dalla disciplina di bilancio degli Stati membri. Gli stringenti vincoli posti dal Trattato di Maastricht e dal Patto di stabilità alle politiche fiscali nazionali hanno infatti spinto i governi di molti Paesi a risanare le finanze pubbliche anche attraverso la compressione delle spese per investimenti delle amministrazioni.
Questa decisione, se da un lato sembra giustificarsi per l’impraticabilità politica di più incisivi interventi sul versante del welfare, che assorbe in media nell’Unione quasi la metà della spesa pubblica corrente, dall’altro appare in netto contrasto con la necessità di realizzare in tempi ragionevoli un efficiente sistema europeo di grandi reti infrastrutturali, necessario per sfruttare appieno le opportunità offerte dall’istituzione del mercato unico.
Dopo avere oscillato nel periodo che va dalla fine degli anni Ottanta all’inizio degli anni Novanta attorno al 3 per cento, in Europa l’incidenza degli investimenti pubblici diretti sul prodotto lordo si è progressivamente ridotta, fino ad attestarsi (nel 2004) poco sopra la soglia del 2 per cento (in Germania, all’1,4 per cento); cioè ad un valore che, tenuto conto delle carenze e delle strozzature nelle opere infrastrutturali, non appare certamente coerente con l’obiettivo della Strategia di Lisbona di fare dell’Europa «l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale».
Il Trattato di Maastricht del 1992 attribuisce notevole importanza, ai fini del consolidamento della Comunità, alla creazione di reti transeuropee nel settore dei trasporti, dell’energia e delle telecomunicazioni. Probabilmente, però, è solo a partire dal 1993, a seguito della pubblicazione del celebre “Libro Bianco” della Commissione Delors, (Crescita, competitività ed occupazione), che si è cominciato ad acquisire una crescente consapevolezza degli svantaggi derivanti dalla carenza di grandi opere infrastrutturali; carenza che ha indotto parecchi studiosi e policy-maker a mettere in dubbio la compatibilità delle regole sovranazionali di bilancio con le esigenze di sviluppo e di integrazione del Continente europeo. In particolare, è apparso sempre più evidente come la realizzazione di un efficiente sistema integrato di trasporti su scala europea rappresenti un obiettivo prioritario ai fini della riduzione degli squilibri regionali e del pieno rispetto del principio della libera circolazione delle persone e delle merci all’interno della Comunità.
A più di una dozzina di anni dalla pubblicazione del Rapporto Delors si registrano, purtroppo, ancora sensibili ritardi nella costruzione delle reti transeuropee, pur avendo più volte le istituzioni comunitarie ribadito che esse rappresentano progetti determinanti per sostenere la crescita economica e garantire la coesione territoriale dell’Europa, soprattutto ora che i suoi confini si sono allargati ad Est.

Per quanto riguarda il settore dei trasporti, è vero che sono stati compiuti apprezzabili progressi in materia di interoperabilità ferroviaria, ma è anche vero che sono pochi i progetti di grandi dimensioni finora ultimati: il collegamento fisso tra la Danimarca e la Svezia, l’aeroporto Malpensa alla periferia di Milano, la rete di treni ad alta velocità tra Londra, Parigi e Bruxelles, e la linea ferroviaria che collega l’Irlanda del Nord e l’Eire.
Secondo alcune stime, una volta entrate in funzione, le reti transeuropee potrebbero assicurare un incremento del prodotto lordo dell’Unione di quasi mezzo punto percentuale all’anno e circa un milione di nuovi posti di lavoro; esse però richiedono massicci investimenti da parte degli Stati membri, dato che il contributo dei fondi comunitari risulta limitato ad appena un decimo del loro importo. Cioè, in assenza di compartecipazione dei capitali privati, gli Stati per realizzare tutti gli interventi programmati si dovrebbero accollare una spesa addizionale di circa 400 miliardi di euro, corrispondenti a più del 4 per cento del Pil della Ue-25. Naturalmente, questo enorme sforzo finanziario andrebbe a ricadere soprattutto sulle spalle dei maggiori Paesi dell’Unione, che sono poi quelli che, avendo sfondato il tetto del disavanzo, debbono mettere in atto severe misure di risanamento.
Per ovviare a questa situazione d’impasse, che penalizza in modo particolare le regioni più periferiche della Comunità, alcuni economisti hanno proposto di introdurre nel Patto europeo di stabilità la cosiddetta “golden rule”, con l’obiettivo di escludere dal calcolo del deficit di bilancio dei singoli Stati membri le spese pubbliche per investimenti, le quali potrebbero essere così finanziate ricorrendo all’indebitamento. In linea di principio, questa proposta non sembrerebbe mettere a repentaglio la sostenibilità delle finanze pubbliche né il livello di benessere delle generazioni future. I maggiori oneri derivanti dal servizio del debito potrebbero essere fronteggiati, infatti, con la maggiore ricchezza generata dagli investimenti pubblici.
Dato che la “golden rule” presuppone una precisa individuazione delle spese effettivamente suscettibili di generare reddito addizionale, e dato che la sua adozione potrebbe indurre i governi ad assumere comportamenti opportunistici, il suo ambito di applicazione potrebbe essere circoscritto proprio alle reti transeuropee. Spingerebbero verso questa soluzione sia le oggettive difficoltà che incontrano numerosi Stati membri a finanziarne la costruzione senza espandere il disavanzo, sia il fatto che esse costituiscono uno dei mezzi più importanti per accrescere le potenzialità dell’economia europea.

La saturazione di alcune grandi arterie di comunicazione, la crescita del trasporto su strada a scapito di quello ferroviario e del cabotaggio marittimo, nonché i ritardi registrati nella realizzazione delle reti transeuropee, sono tutti fattori che rischiano di pregiudicare seriamente le prospettive di sviluppo economico e sociale dell’Unione.
In base ai due principali indici impiegati per la misurazione della competitività delle diverse regioni del globo (il “Growth Competitiveness” del World Economic Forum, e il “World Competitiveness Year-book” dell’Institute for Managerial Development), nel 2004 l’Italia si collocava già agli ultimi posti fra i principali Paesi dell’Ocse per quanto concerneva rispettivamente la qualità del complesso delle infrastrutture, l’efficienza delle reti di trasporto, la disponibilità di impianti energetici, lo sviluppo dei sistemi logistici, e gli investimenti nel settore della ricerca e nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Focalizzando l’attenzione sui maggiori Paesi europei, da un recente studio di Confindustria si evince che l’Italia presenta un livello di infrastrutturazione del territorio superiore a quello della Spagna, ma di gran lunga inferiore a quelli del Regno Unito, della Germania e della Francia. I punti più deboli del nostro Paese sono costituiti, sempre secondo quello studio, dalle linee ferroviarie e dalle reti di telecomunicazione: posto infatti pari a 100 il dato medio dei cinque Paesi considerati, per entrambe queste infrastrutture l’indice si colloca su un valore inferiore a 93. Solo nella dotazione di reti stradali, pur rimanendo sotto la media, l’indice dell’Italia si attesta su un valore prossimo a quello della Francia e della Germania.
Il nostro sistema di trasporti, in particolare, non solo appare sottodimensionato rispetto a quello dei principali Paesi dell’Ue, ma è anche afflitto da un persistente squilibrio in favore della strada. Basti rilevare che in Italia si contano ben 5,5 tonnellate di merci trasportate su gomma per ogni tonnellata di merce trasportata su ferro, a fronte di un rapporto che in Germania risulta pari a 0,5, in Francia e nel Regno Unito a 1,1 e in Spagna a 4.

 

   
   
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