Giugno 2006

LA CINA E LA CULTURA OCCIDENTALE

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E Ulisse si smarrì
nell’emporio della seta
Adelmo Marchini  
 
 

 

 

Se il nostro mito
è Ulisse,
eroe dell’astuzia, del rischio e della tecnica, il pensiero cinese è prudente
e insinuante,
non s’impone,
non è dogmatico,
lascia accadere.

 

Si dice sindrome cinese, oppure pericolo giallo: i termini con cui l’immaginario occidentale ha configurato la Cina hanno sempre avuto qualcosa di allarmante. È perché la Cina è veramente l’altro, sostiene Renata Pisu, la studiosa che vi ha vissuto a lungo, e che è autrice, fra l’altro, del fortunato La via della Cina: «Anche ciò che può apparirci come una rapida occidentalizzazione non è proprio così: confuciani di giorno e taoisti di notte, come si dice semplificando, i cinesi sono difficili da descrivere. Il Tao, l’antica filosofia che ispira il loro comportamento, non è una religione, è una forma mentis, qualcosa di organico che li rende quelli che sono, cioè diversi da tutti».

Un filosofo che dedica la sua opera a descrivere il modo di pensare cinese è il francese François Jullien. Già molti dei suoi testi sono stati tradotti in italiano, da Trattato dell’efficacia a Il saggio è senza idee, da Strategie del senso a Il nudo impossibile, all’Elogio dell’Insapore e al più recente Nutrire la propria vita. Libro, quest’ultimo, che spiega come, al contrario della separazione dei piani (esistenziale, morale, spirituale, materiale) del pensiero occidentale, in quello cinese tutto resti unito, e che il saggio non si cura dei risultati, ma soltanto di «evolvere nel Tao, come un pesce nell’acqua».
«Il pensiero europeo, intimamente platonico», sostiene Jullien, «separa l’anima dal corpo, il femminile dal maschile, il bene dal male. Il pensiero classico cinese ragiona per
polarità, yin e yang: è un sistema di relazioni».
Il suo movimento non è mai frontale, ma laterale, e come si legge in Lao-Tse aspira al paradosso: «Non fare nulla (e che nulla sia fatto)». È l’elogio del non agire per ottenere tutto dall’azione dell’avversario. Uno dei più antichi testi, il Tao Tè Ching, insegna che «il Tao è vuoto» e predica «l’utilità dell’inutile».
«In effetti non esiste assolutamente un quadro comune in cui si possa collocare il pensiero cinese e quello occidentale perché, prima di tutto, non c’è un quadro linguistico comune», conferma Jullien. Il quale, essendo un filosofo, non può evitare di andare al nocciolo della questione: «La nostra filosofia, che discende dall’antica Grecia, ha un problema con la saggezza. E viceversa i cinesi taoisti hanno un problema con la filosofia». Perché il saggio non parla al filosofo. «Il saggio non discute, ma contiene, e il grande Tao non si enuncia». Insomma, noi applichiamo un modello alla realtà, siamo idealisti; loro sono pragmatici. Noi analizziamo, loro ascoltano. Noi aspiriamo alla vetta, loro si mantengono in basso, umili come l’acqua. Noi siamo epici, loro prudenti. Noi abbiamo fretta, loro attendono «le trasformazioni silenziose» insite nelle cose. Noi cerchiamo l’evento, loro lo temono.
Come venire a capo di tanta distanza e come non fomentare con questo la paura che il miracolo economico cinese suscita in Occidente? Risponde l’economista Romeo Orlandi, direttore del petroniano Osservatorio Asia: «In realtà, di miracoloso non c’è nulla. Ci sono 25 anni di straordinario sviluppo, mai visto prima, in cui il Paese si è mosso collettivamente verso i risultati di oggi». Ma c’entra il Tao con tutto questo? Risponde il sinologo Giorgio Trentin, curatore del recente La Cina che arriva: «Il Tao c’entra sempre, perché è dentro ogni cinese».

«È un pensiero individualista che curiosamente (per noi) spinge ad adeguarsi in vista del risultato, a non opporre resistenza all’energia del mondo. Però non bisogna dimenticare che quel reddito straordinario è prodotto dai pochi (350 milioni di persone) che si sono arricchiti, mentre gli altri 800 milioni vivono in condizioni al limite della fame». Questo potrebbe provocare, via via inasprendolo, un conflitto di classe interno capace di cambiare sensibilmente l’espansionismo cinese attuale, e di produrre nella vita quotidiana una sintomatica scissione. Lo chiarisce la nipponica Etsuko Kakui, che pratica nella capitale italiana medicina tradizionale cinese ed è insegnante di Tai chi: «Oggi va di moda fra i ricchi orientali essere occidentalizzati. Preferiscono le palestre alle arti marziali nei prati. E succede che Tao e medicina tradizionale siano seguiti dai poveri che non possono permettersi le costose cure occidentali. Salvo poi, fallita la guarigione, tornare alla tradizione».
Lo storico Guido Samarani, autore di La Cina del ‘900, amplia la visione: «La Cina di oggi è un incrocio di varie filosofie, pensieri, stili di vita. Tradizione e occidentalizzazione, più la matrice marxista socialista, formano un impasto complesso e di difficile decifrazione. La storia ci insegna la cautela». E allo stesso modo il Tao. Tornando a Jullien: «Se il nostro mito è Ulisse, eroe dell’astuzia, del rischio e della tecnica, il pensiero cinese misconosce il rapporto teoria-pratica. È prudente e insinuante, non s’impone, non è dogmatico, lascia accadere. Il saggio cinese trae profitto non dalla propria iniziativa, ma dalle cose stesse e dalla loro naturale evoluzione».
E così è il cinese medio, probabilmente. Basti pensare alle Chinatown di tutto il mondo, quell’emigrazione discreta, a gruppi familiari, senza integrazione, ma senza dar fastidio, con la tipica capacità di approfittare degli interstizi, di sfruttare i cedimenti dell’altro, offrendo beni esotici e appetibili.
Dunque, hanno in mano tutte le carte per vincere? «La nostra chance è resistere alla fascinazione, che senza dubbio è grande», chiarisce il filosofo Sergio Givone, autore di Il bibliotecario di Leibniz. «A noi sfugge il senso delle cose, per cui ci affascina ciò che ci sembra loro abbiano conservato: il segreto dell’essere, il suo enigma. Ma la nostra non è una cultura solo biecamente scientista. Non abbiamo bisogno di innamorarci del vuoto del Tao, quando il nulla heideggeriano è qualcosa di molto simile. Cerchiamo di non farci immagini caricaturali, dove Occidente è sinonimo di cattivo e Oriente di buono. Sarebbe un errore grossolano e davvero perdente».
Marco Polo vi arrivò per ultimo. E forse la superò, chiamando “Cipango”, la terra che era a levante di un grande oceano, nient’altro che la costa americana. Comunque sia, molto prima di lui la Cina era già vicina. Dai tempi degli antichi greci, mercanti e avventurieri percorrevano la Via della Seta e delle Spezie, che si snodava per tutta l’Asia, attraverso città leggendarie e cariche di storia, da Antiochia a Ecbatana, a Samarcanda.
Testimoniano i contatti tutt’altro che occasionali, fra l’altro, capolavori d’arte, ma anche testimonianze di una storia che ha conosciuto periodi di incredibile splendore, come la dinastia Tang (618-907 d.C.), l’età più raffinata, libera e disinibita che la Cina abbia conosciuto. E, sullo sfondo, un rapporto ininterrotto con l’Occidente, che a volte affiora a sorpresa in un ricamo o in una statua, dove si coglie un’eco di influenze greche e persino romane.
Dunque, Oriente Estremo e Occidente europeo erano già più vicini di quanto si potrebbe pensare. Fin dal V secolo a.C., l’età di Pericle, i greci avevano aperto scali commerciali nell’Asia centrale, nelle stesse regioni dove, alcuni secoli più tardi, irromperanno gli eserciti di Alessandro Magno.
Già allora la seta era una delle merci più ricercate. E proprio per i prodotti ricavati da essa e da altre stoffe pregiate i romani erano scesi più volte in guerra con l’Impero orientale dei Parti, che dominavano larga parte della Via della Seta. Durante una di queste guerre, nel 53 a.C., il triumviro Crasso era stato sconfitto dai Parti sul fiume Eufrate. Alcuni suoi soldati, presi prigionieri, erano andati a finire proprio in Cina. Qui avevano insegnato ai cinesi le tattiche di guerra della legione e si erano insediati nella cittadina di Li Jien: alcuni loro discendenti, marcati da tratti somatici visibilmente occidentali, vivono tuttora laggiù.
C’è una storia sotterranea, sconosciuta, di rapporti tra il Mar Mediterraneo e la Cina, che proprio le opere d’arte aiutano a ricostruire: ad esempio, un corteo di guardie d’onore del II secolo a.C., con carri, cavalli e cavalieri modellati in bronzo. Ebbene, certe figure rivelano un’evidente influenza di analoghi bronzetti di forma equina dell’antica Grecia. E si pensi alle immagini del Buddha: il buddismo è nato in India, ma sono stati i cinesi coloro i quali hanno iniziato a raffigurare il Buddha, ispirandosi a loro volta alle statue dell’arte greco-indiana del Gandhara.
Rapporti complessi e sorprendenti, che hanno dell’incredibile. Del resto, sarà così anche nei secoli successivi. Il filo tra Oriente e Occidente non si spezzerà mai. Pochi sanno, per esempio, che il più celebre pittore cinese del Settecento, Lang Shining, gran ritrattista della corte imperiale, si chiamava in realtà Giuseppe Castiglione e veniva da Milano. Tra i pezzi esposti in una recente mostra a Treviso, la prima di una serie che per alcuni anni illustrerà la storia e l’arte cinese, c’era anche un drago in bronzo del IV secolo a.C.: la prima raffigurazione in assoluto dell’animale fantastico che poi sarà per sempre il simbolo del potere imperiale. E abbiamo ricordato Treviso perché si trattava di uno dei centri più importanti d’Italia per la bachicoltura, e dunque uno dei terminali europei della Via della Seta.
Abbiamo ricordato, soprattutto, l’epoca d’oro della Cina, quella della dinastia Tang, nota come il Rinascimento cinese, fiorito con una civiltà tanto raffinata quanto spregiudicata. Infatti, un gruppo di terrecotte scoperte solo un anno fa raffigura cammelli e cammellieri in pista: e i cammellieri hanno lineamenti chiaramente occidentali: sicuramente, mercanti che percorrevano la Via della Seta. Un altro gruppo di statuette venute alla luce rappresenta donne con abiti modernissimi, con ampie scollature. I poeti Tang cantavano la bellezza di quelle donne, magari cortigiane, nella capitale di un Impero che già allora era una metropoli di un milione di abitanti. Il che vuol dire, con tutta probabilità, che quella Tang era un’epoca di grande libertà, anche nei costumi sessuali. Forse mai, in tutta la sua storia, la Cina è stata così libera. Forse mai, come ora, le sue città più importanti si sono aperte alle influenze del mondo occidentale, non soltanto per i traffici di uomini e di merci, ma anche di idee, di filosofie, di visioni del mondo. Sarà faticoso, e lento, il processo di più ampia apertura: ma prevarrà la concretezza delle cose. I cinesi lo sanno. Sta a noi usare la flessibilità, la pazienza e l’intelligenza necessarie per rendere permanente il dialogo.

 

   
   
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