Giugno 2006

LA COMPETIZIONE AL TEMPO DEL GLOBALISMO

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Dal Welfare al Workfare
Richard B. Freeman Premio Nobel per l’Economia
 
 

 

 

L’arrivo dei
nuovi protagonisti,
la necessità di
restare competitivi,
la pressione
sui salari, indicano per il futuro
un ruolo diverso,
ma non minore
dello Stato.

 

Greed è il termine che viene tradotto in “avidità”, e sta a indicare il desiderio smodato di accumulare risorse. Agli americani è stato sempre riconosciuto un tasso di greed mediamente superiore a quello europeo.
È possibile non citare Alexis De Tocqueville? Fu lui, comunque, a identificarlo nel modo più chiaro e a descriverlo più compiutamente nei vecchi europei che avevano attraversato l’Atlantico, quasi sempre per sfuggire alla miseria.
Bene, io credo che, ed è nella nostra storia un fatto ciclico, sia arrivato il momento in cui il greed è sottoposto a critica in America e non è più facilmente e ampiamente accettato. E questo per una serie di fatti naturali, a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso.
Limitandomi a due fenomeni, dico: l’esplosione delle stock options ai top manager e l’ascesa inarrestabile dei loro salari, e i forti tagli alle tasse. Queste si sono ridotte così tanto, che la spinta a ricavare fette sempre più grandi per sé si è moltiplicata. La spartizione con il fisco è diventata più che generosa, per il megacontribuente.

Tuttavia, le minori tasse non spiegano tutto. All’origine c’è l’aver legato il compenso alla performance. Prima avveniva in modo assai più contenuto. Poi nel clima dell’esplosione di Borsa nella seconda metà degli anni Novanta sono saltate tutte le regole. Ad Harvard abbiamo sentito decine di grandi esperti nel trattamento salariale dei top manager, e tutti ci hanno detto che era arrivato a livelli eccessivi, tali da spingere a mentire – falsificando i conti, anticipando incassi non avvenuti per far felice la Borsa, ad esempio – e a deformare le cifre.
Supponendo per un momento che esista un solo modello di capitalismo nel Vecchio Continente, io pendo dalla parte di quello europeo, piuttosto che americano. Però, parlando di un Paese che a differenza di altri conosco bene, e che è considerato un po’ al polo opposto dei capitalismi rispetto agli Stati Uniti, mi riferisco alla Svezia, posso dire questo: non farebbe male agli svedesi lasciare un po’ più di spazio al loro greed, aiuterebbe la loro economia. Così come non farebbe male agli americani abolirne una quota più consistente di quella che gli svedesi farebbero bene ad aggiungere.
Un capitalismo senza gli eccessi del greed può esistere, senza greed in senso stretto, no. Ma il greed va tenuto sotto sorveglianza della polizia, per usare un’immagine. Negli Stati Uniti, e anche in Europa in vari casi, mi pare di capire, si è aperta una grossa falla nel primo e più importante livello di controllo, quello del “board of directors”, il Consiglio di amministrazione. Ed è avvenuto in questo modo: mentre un top manager viene ingaggiato dopo severe selezioni professionali, per essere chiamato a far parte di un Consiglio occorre prima di tutto appartenere a un certo giro, insomma un circuito di “old boys”, come si dice da noi. Ma si sa che l’Università di Stanford offre un corso per chi è stato chiamato a far parte di un board, e deve imparare come si leggono i bilanci e gli altri atti fondamentali di una società? Quello che conta non è saper spulciare i conti e fiutare, se del caso, l’imbroglio. Quel che importa è “essere dei nostri”. I consiglieri sono troppo spesso nominati di fatto dall’amministratore delegato. È stata una falla nel sistema di corporate governance.
Tutti i sondaggi indicano un netto aumento della sfiducia verso l’empireo societario, e mentre il Paese ha una disoccupazione del 4,7%, a livello cioè di pieno impiego, o quasi. Ma c’è di più. Ho registrato in molti sondaggi un diverso atteggiamento verso il sindacato dei lavoratori. Dunque, il sindacato americano era forte dopo la seconda guerra mondiale, poi ha gradatamente perso peso e oggi raccoglie solo una frazione dei lavoratori, ed è giudicato piuttosto male. Ma l’idea di appartenenza a un sindacato ideale, diverso da quelli esistenti, è tornata ad essere popolare, ai livelli di mezzo secolo fa. E questo perché piacerebbe avere un’organizzazione che difende, a fronte dei disastri aziendali, dalla perdita della pensione aziendale, dell’assicurazione medica aziendale, e altro.

Houston è cambiata. Houston del caso Enron. Houston è Texas, e nessuno lì voleva sentir nominare il sindacato, il principio del sindacato. Adesso non è più così. Hanno fatto fatica a mettere insieme una giuria, che deve essere insospettabile di pregiudizi, tanto è diffuso il sentimento anti-Enron in città. Insomma, il Texas è cambiato! Credo che chiunque venga eletto nel 2008, anche un repubblicano, sarà molto deciso nel ristabilimento delle regole della corporate governance.
Nel novembre 2004 abbiamo svolto un’indagine in cui osservavamo come l’arrivo tra il 1980 e il 2000 di 1,4 miliardi di nuovi lavoratori nel sistema industriale mondiale, e il fatto che qualche centinaio di milioni ancora arriverà, si trasformino in una pressione al ribasso su tutti i salari dei nostri Paesi, almeno per una generazione. Ora, se questo è vero, come far convivere due mondi così diversi, il top che guadagna sempre di più e la base che dovrà scordarsi le buone paghe, se già non se le è scordate?
La risposta è in un nuovo rapporto tra le condizioni di vita e i salari. Visto che il Prodotto interno lordo dei nostri Paesi cresce, occorrerà investire di più nei servizi sociali, nella sanità, nella sicurezza, nella scuola, per dare ai cittadini quello che non tutti potranno pagare come forse facevano prima. So che è un principio non facile da far passare, oltre che difficile da finanziare in clima di tagli fiscali. Ma probabilmente è meno difficoltoso di quanto sembri. Negli Stati Uniti c’è diffusa ostilità all’aiuto indiscriminato, all’aiuto di chi non aiuta se stesso, potendo farlo, alla burocrazia del Welfare State, più che al Welfare State. Però non dimentichiamo che uno dei programmi sociali completamente ribaltati da Clinton, ed esplosi da allora, l’Earnend Incombe Tax Credit, aiuta chi lavora ma non raggiunge un reddito sufficiente. E non dimentichiamo che in Alaska, dove possono contare sui proventi del petrolio, lo Stato dà circa duemila dollari a testa all’anno. Fanno ottomila per una famiglia di quattro persone. E non è poco.
Credo che i cambiamenti imposti dall’arrivo dei nuovi protagonisti, la necessità di restare competitivi, la pressione sui salari, indichino per il futuro un ruolo diverso, ma non minore, dello Stato. Poiché le società resteranno ricche e i lavoratori lo saranno meno, occorre trovare un punto di compensazione. Che non può più essere nemmeno la tradizione europea di pagare la gente che non lavora, con lunghissimi sussidi di disoccupazione. Occorre passare dal Welfare al Workfare: aiutare chi lavora.

 

   
   
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