Giugno 2006

Società senza progetto

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Quel muro nel cuore
Aldo Bello  
 
 

 

 

Al di là del
tricolore e dell’inno di Mameli,
i problemi sorgono se qualcuno osa chiedere qualche cosa di più,
e parla di identità o addirittura di
orgoglio nazionale.

 

In questi nostri tempi di confusioni reali e strumentali, di crisi come segno di transizione non si sa ancora verso dove né verso cosa, di ferree resistenze e di dolorose lacerazioni, per non smarrire misura del giudizio e possibilità di scelta è indispensabile tener presente esclusivamente la realtà: sostantivo che deriva dal latino res, e che significa semplicemente “cosa”, “dato di fatto” con il quale e sul quale confrontarsi. E i dati predominanti oggi sembrano essere di natura fisica ed etica, a giudicare da quanto è non emerso, ma confermato dall’esito del referendum sulle riforme costituzionali. Vediamo di chiarire i termini della questione.

«L’orgoglio e l’egoismo dell’uomo creano sempre divisioni, innalzano muri d’indifferenza, di odio e di violenza», ha detto Benedetto XVI celebrando la Pentecoste. Discorso che, intanto, allude alle realtà fisiche, cioè visibili e persino tattili che coinvolgono tutti gli orgogli e tutti gli egoismi e i pregiudizi, i muri e le cortine che continuiamo ad innalzare nei punti critici del pianeta. Sono geografie del disagio planetario che possiamo elencare a volontà. Noi chiamiamo “Linea della pace” quella che a Belfast è stata prodotta dalla guerra tra cattolici e protestanti. Il piccone della storia ha abbattuto dopo mezzo secolo il muro che spaccò Gorizia. Nato nell’agosto ‘61, il Muro contemporaneo per antonomasia che per 155 chilometri divideva le due Germanie attraversando Berlino è crollato su se stesso nel novembre ‘89. Ma a Cipro ancora oggi Nicosia è l’unica città europea bisezionata da una guerra etnica. In Golan, nella Valle delle Grida, da più di trent’anni c’è il più affollato parlatorio del mondo, con una “Striscia di nessuno” tra Israele e Siria dove persino i funerali si celebrano con metà famiglie da una parte e metà dall’altra.
Sarà lungo settecento chilometri il Muro di Sicurezza tra Israele e la Palestina, mentre quello tra l’India e il Bangladesh è la più lunga cortina d’acciaio dell’Asia meridionale, con oltre quattromila chilometri. Sulla sponda meridionale dell’unico fiume della Terra che ha due nomi, (da una parte è Rio Bravo, dall’altra Rio Grande), corre la barriera di oltre tremila e duecento chilometri tra Messico e Stati Uniti. Sul celebre 38° Parallelo dal 1953 resiste un muro di 240 chilometri che separa le due Coree. Da quelle parti, l’Unesco ha dichiarato Patrimonio dell’Umanità gli oltre seimila e trecento chilometri della Muraglia Cinese, mentre attendiamo che un’analoga decisione venga presa per il Vallo romano presente in terra britannica. Un gran terrapieno con casematte, fili spinati, nidi di armi automatiche e sofisticati congegni elettronici separa il Marocco dal deserto del sud e dell’ovest, mentre l’Europa coloniale spagnola e l’Africa colonizzata marocchina sono due isole fortificate a Ceuta e a Melilla con due doppie barriere metalliche sulle quali, come al confine messicano, si concentra la pressione di milioni di uomini in cammino.

Si dice: ogni muro è un segnale di sfiducia, in contraddizione con la tendenza della politica internazionale che vuole creare ponti e non barriere. Si dice ancora: i muri non saranno mai il fondamento di un’amicizia tra due popoli. E si replica: come proteggere la porta di casa da chi entra e da chi fugge? Milioni di clandestini non sono soltanto dei numeri, sono anche uno stato d’animo. Perciò, per abbattere un muro, ci vuole senso del limite.
E qui siamo alle altre realtà, quelle invisibili, non immediatamente tattili né agevolmente definibili nel peso e nelle dimensioni, perché figlie di un mood, di psicologie diverse, di percorsi civili e di traiettorie culturali differenziate. Per fare un esempio esplicativo: ancora oggi nulla unisce un bavarese a uno svevo, un irlandese ad uno scozzese, o un catalano a un castigliano, che tendono a declassare le reciproche antropologie culturali, ma che tuttavia reagiscono all’unisono al cospetto di attacchi alla generale civiltà nazionale, sigillo identitario per chiunque sia in un modo o in un altro tedesco o inglese o spagnolo.
Ciò non accade, o accade molto raramente, per l’Italia. Intanto, perché il senso di “Patria” resta per noi una meta ancora molto lontana. E poi perché la nostra è una società storicamente priva di un equilibrato progetto di sviluppo civile, culturale, immune dalle contaminazioni delle ideologie, non supina di fronte alle imposizioni delle più volgari delle mode sfornate, come ha scritto Goffredo Fofi, da quei fabbricanti di merci e manipolatori di tempo libero che fanno dei nostri figli ottimi e sfrenati consumatori ma finti individui, conformisti, fiacchi, ipocriti, massificatori.
Il senso perduto, o mai definitivamente acquisito, di Patria. Al di là dell’euro in tasca, del tricolore sventolato e dell’inno di Mameli canticchiato allo stadio, della corsa dei bersaglieri una volta l’anno in Via dei Fori Imperiali, (profilo del cittadino-modello di cui una larga parte della classe politica auspica la diffusione nel Paese), i problemi sorgono se qualcuno osa chiedere qualche cosa di più, e comincia a parlare di identità o addirittura di orgoglio nazionale, come da qualche tempo a questa parte fanno alcuni intellettuali “revisionisti” come Sergio Romano ed Ernesto Galli della Loggia, qualche giornalista fuori dal coro come Oriana Fallaci, o un politico “sui generis” come l’ex capo dello Stato, Ciampi.
Qui l’impresa si fa ardua. Perché – si sostiene – gli interventi in tema di patriottismo si richiamano alle memorie di un’Italia che non c’è più, toccano le corde di un’arte retorica tradizionale, si smarriscono in un Paese vocato al conformismo. Chi studia la politica e si sforza di capirla non può esimersi dal sottolineare come il tipo di italianità rivendicata sia nutrita di valori di cui oggi si sono smarriti il senso e la ragione d’essere. Dietro di essa ci sono il Risorgimento, il Piave, le campagne militari, il desiderio di indipendenza, magari anche il culto di trascorse grandezze. Come si fa a coniugare questo tipo di orgoglio, e hanno qualcosa a che vedere le memorie belliche eroiche e sfortunate di parecchi decenni fa, con il nostro odierno ruolo all’Onu e nella stessa Nato? Come si può invocare un’identità unitaria della Patria, quando sono tenute in vita forze politiche di percentuali minime, ma comunque condizionanti, che proprio alla disgregazione dell’idea di nazione indipendente e di Patria hanno dedicato la loro attività saturnina, e tuttora agiscono in nome di sistemi politici pietrificati, messi fuori gioco, nelle terre d’origine, e nelle terre oppresse, dall’inesorabile evoluzione della Storia?
In nome di un malinteso (e malizioso) senso della democrazia e della libertà, si è praticamente conculcato ogni sentimento nazionale, di identità nazionale; il modello che ha prevalso ha ripudiato ogni residuo di “mentalità eroica”, e ha abbracciato i valori e la mentalità del mercato, della transazione, dell’utilità: insegna suprema di coraggio, di audacia “guerriera”, è diventato l’investimento in Borsa su titoli dal futuro incerto. È emersa la società che si basa sulle convenienze e sui vantaggi percepiti: una società che aborre gli slanci ideali.

Qualcuno ha obiettato che proprio gli Stati Uniti d’America, patria di questo modello, hanno dato prova dopo l’11 settembre di grande fusione psicologica collettiva, inalberando centinaia di migliaia di bandiere e proclamando una crociata patriottica. È vero. Ma dobbiamo riflettere anche su questo: gli Stati Uniti incarnano oggi l’unico potere egemonico esistente sul pianeta; hanno un ruolo da svolgere, che in caso di necessità può essere facilmente trasformato in una missione in cui credere. Sono stati colpiti da un nemico, per la prima volta dai tempi della guerra d’Indipendenza, sul proprio suolo; e, per giunta, da un nemico al quale è possibile conferire i tratti fisiognomici dell’assoluta diversità, dell’Altro che può diventare il Male contrapposto a un Sé che si identifica con il Bene. Gli interessi che Washington difende, e chiede di far difendere agli alleati, sono i suoi: sicurezza, potenza, ricchezza, influenza, dominio.
Ma noi? Che cosa resta a noi? Dipende dai punti di vista. A certi politici interessa il patriottismo di nicchia. Ad altri sta a cuore una certa solennità del richiamo istituzionale ad una vaga identità nazionale, che può far da contrappeso alla perdita di rilevanza dello Stato. Gli storici possono discutere anche accanitamente sulla tesi che quell’identità sia andata in fumo l’8 settembre del 1943, per continuare sotto mentite spoglie la multidecennale disputa tra i sostenitori del primato dell’antifascismo sull’anticomunismo, e viceversa. Ma quanto a veder risorgere un vero e proprio senso diffuso di Patria unitaria, c’è da farsi poche illusioni: il traguardo è lontano.
Poiché della perdita di identità, o delle sue generiche enunciazioni, non si parla mai, e poiché la colpa maggiore della classe politica (al seguito di una classe dirigente poco attendibile e che è stata capace di tutto, sempre con perfetto egoismo) è quella di occupare il presente senza preoccuparsi di nessun futuro, se non immediato, tocca a chi avverte il peso di qualche responsabilità nei confronti della collettività e della sua cultura tentare di leggere il quadro di fondo, le necessità imprescindibili che classe dirigente, politici e moralisti hanno dimenticato.
La politica non si dà più progetto, e senza progetto una società può solo seguire il flusso delle cose, lasciarsi guidare dai poteri esperti nel convincere le masse che siano esse a guidare il mondo e a decidere il futuro, mentre in realtà è oggetto di strategie di natura economica, oltre che politica. Problema senz’altro culturale. Perché la cultura è l’educazione, non è strumento per la formazione del consenso, ma per la liberazione e per la valorizzazione dell’individuo; non ci si deve preoccupare della cultura intesa come merce e come spettacolo (la voga dominante): della cultura occorre avere anzitutto una visione antropologica e ideale. È quel che accade in modo particolare per gli «intellettuali di Magna Grecia», che delle discriminazioni geografiche, economiche, sociali, hanno sempre avuto coscienza e consapevolezza, e che per la caduta del Muro che divide la Penisola si sono battuti a lungo, prima di cedere, sfiniti, al cospetto della pervicacia dualistica dell’azione politica e di politica economica delle pessime classi dirigenti italiane.
Fu fittizia l’unità d’Italia perseguita da Cavour. Il Paese non si unificò allora, non si unificò quando fu sconfitto il brigantaggio che di fatto fu protagonista di una guerra civile, né lo fu all’epoca dell’industrializzazione, e meno che mai dopo il primo conflitto mondiale e dopo la Resistenza e il “vento del Nord”. Né lo è oggi, in giorni in cui l’esito del referendum ci dà, nitida, l’immagine di un’Italia crepata in due tronconi che confinano solo per affrontarsi sulla linea – da una parte – della voglia di secessione, e – dall’altra – della diffidenza nei confronti del rinnovamento politico-economico e della caduta di ogni speranza di sviluppo in tempi brevi, viste le cifre (le ultime) che riguardano la condizione del Sud. Infatti, per il prodotto interno lordo, fatto 100 quello per abitante del Centro-Nord, nel Mezzogiorno si sfiora appena quota 60; per gli investimenti per abitante, nelle sei regioni meridionali più Isole si è al 61,2 per cento; per l’occupazione, si è appena al di sopra del 71 per cento: circa trenta punti di distacco dal resto del Paese. Ultimo fotogramma: il rapporto tra tasso di disoccupazione e forza-lavoro è pari al 293,9 per cento! Per le infrastrutture: i chilometri di autostrada per ogni 1.000 kmq sono 100 al Centro-Nord e 67,7 al Sud-Isole; bancomat, sportelli bancari e bancoposta per 100 kmq, al Sud-Isole 48,7 per cento.
Riequilibrare? Scommettere sull’avanzamento dell’Italia grazie allo sviluppo del Sud? Sono sogni, prodotti magari da un buon senso che in una società senza molto senso potranno semmai suscitare ascolto solo tra rare minoranze realisticamente preoccupate del presente e del futuro di un Paese che ha il suo cancro più devastante nella comune assenza di senso di responsabilità nei confronti della collettività e soprattutto delle nuove generazioni, perché questa è sempre stata la scelta delle corporazioni forti.
Ha scritto Magdi Allam (vice-direttore del “Corriere della Sera”, musulmano, sunnita): «Provo orrore per l’Italia che è intollerante nei confronti di se stessa, della propria identità nazionale, dei propri valori. L’Italia ammalata di intolleranza schizofrenica, che si tramuta in un omicidio-suicidio dell’anima prima ancora che del corpo. L’Italia che ripudia parte di sé, che usa la violenza verbale e fisica per aggredire se stessa, che esulta “dieci, cento, mille Nassiriya”, che ha trasformato la festa della Liberazione nella giornata della disunione nazionale, che innalza differenti vessilli partigiani ma quasi si vergogna di marciare unita all’insegna del tricolore».
Sarà questo l’ultimo muro della Storia a cadere? Cadrà mai? La cultura forte del Sud saprà far valere le proprie ragioni al confronto col pensiero debole del Nord? Ci sarà, e prevarrà, un’utopia possibile? E noi sapremo emendarci dei nostri peccati gravi, che hanno condizionato economia e società al di qua della Linea Gustav? Ci sono molte pagine da scrivere ancora, prima che si intacchi il muro che è nel cuore dell’Italia a due dimensioni.

 

   
   
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