Marzo 2006

Il nome della fame salentina

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Cronache dalla corte dei miracoli
Ezio Sanapo, Aldo Bello, Aldo De Bernart, Gino De Vitis, Maria Mafalda Ciardo
 
 

 

 

 

 

 

 

I sogni hanno le scarpe rotte

Ezio Sanapo

A mia zia Pina

Il concetto di “poveri” come ceto sociale autonomo e distinto è finito con gli anni Cinquanta. Come tutte le classi sociali, aveva avuto una storia, un’identità culturale, proprie regole e un proprio modello di vita. Da allora diventò quello che noi conosciamo: un ceto popolare “piccolo borghese”, a imitazione di quello medio borghese che fino ad allora era stato dominante.
Il tutto si è rimescolato in un’unica fascia sociale, senza più alcuna identità. Come tale, poteva essere più facilmente asservita in un nuovo modello di società, “sbarcato” da noi, in quegli anni, dall’Occidente. La nuova parola d’ordine diventò: consumare! Chi non poteva farlo, veniva escluso dalla nuova fascia che, non avendo più storia, non aveva nemmeno doveri né diritti di appartenenza.
Così, questo nuovo modello, abolendo il principio di solidarietà, che era stato considerato “sacro” dalla comunità più povera, ha messo in atto un nuovo tipo di emarginazione: quella del singolo individuo, e non più di un’intera comunità. L’individuo, da solo, non avrebbe più avuto la possibilità di difendersi né di ribellarsi.

Stagioni parallele

Fino agli anni Cinquanta, prima dell’emigrazione di massa, il ceto popolare di origine contadina aveva avuto, come unica possibilità d’impiego, il lavoro bracciantile sui terreni di proprietà dei piccoli o grandi latifondisti, non quindi su terreni di propria appartenenza.
Una larga fascia dello stesso ceto era comunque esclusa, dal momento che le assunzioni venivano fatte senza regole e sulla base delle simpatie e delle convenienze degli stessi proprietari terrieri. Una massa enorme di povera gente veniva così emarginata dal processo produttivo, anche se, per puro scrupolo, era tollerata sul piano sociale, con la concessione della libertà di movimento su quei terreni che potevano invece essere fonte di lavoro e di reddito.
Così intere famiglie, spinte dalla povertà e dalla fame, potevano “vendemmiare”, fuori stagione, nei vigneti già vendemmiati, raccogliendo “craggioppi”, grappoli di uva tardiva. Potevano cercare e raccogliere olive, negli uliveti, a raccolta ultimata e con gli alberi già mondati: erano le “ulie rringa”, olive secche e gonfie d’acqua dei canali, raccattate nel fango e tra l’erba fitta, allo scopo di poterle vendere. E si raccoglievano le ultime spighe rimaste nei campi di grano già mietuti, prima che le stoppie secche e pungenti venissero bruciate: questa spigolatura estrema veniva chiamata “rispigo”. Infine, si raccoglievano sotto gli alberi gli ultimi fichi sfatti caduti, i “chichirizzi”, che opportunamente essiccati potevano essere venduti a compratori ambulanti che ne ricavavano alcol.
Per queste attività, svolte con un’esperienza secolare, tramandata di generazione in generazione, era necessaria la conoscenza dei luoghi di frequentazione, delle colture, delle condizioni climatiche, dei tempi e delle stagioni. Stagioni svolte parallelamente a quelle dei raccolti veri e propri da persone d’ambo i sessi e di ogni età. Persone semplici, dignitose e senza ambizioni, che avevano con la natura un rapporto familiare, religioso e di profondo rispetto. Non potendo loro coltivare, la natura coltivava per loro. Ed essi raccoglievano cicorie selvatiche e lumache, sia in estate che in inverno, da vendere in giro per il paese. Con la stessa dignità, facevano lunghe file per una scodella di pasta e ceci che alcuni proprietari terrieri offrivano, ogni anno, il 19 marzo, per devozione a San Giuseppe. Era la stessa devozione che essi avevano per il vicino di casa, perché quando il povero poteva cucinare, cucinava anche per lui.
Tutta la religiosità non impediva ai poveri di esprimersi con un originale e antico dialetto che abbondava di parole e di frasi “scabrose” e oscene, che tuttavia non erano volgari, non facevano perdere la “purezza d’animo” e l’innocenza. I poveri, oltre tutto, non si scoraggiavano mai: pregavano senza essere ascoltati, chiedevano senza ottenere. Bestemmiavano senza peccare.
La dignità e lo spirito di appartenenza costituivano la loro arma potenziale, ed erano la loro unica risorsa.

La speranza come ragione di vita

I poveri di allora, diversamente da quelli di oggi, avevano accumulato un enorme patrimonio culturale, ricco di regole, di abitudini e di antichi rituali. Tutto questo li aveva resi autonomi e autosufficienti rispetto al resto della società che li aveva storicamente emarginati.
Per la loro abitudine a girovagare come randagi, inseguendo le stagioni su sentieri e su campi altrui, avevano maturato una propria libertà e uno spazio illimitato. In quello spazio immaginario i poveri di una volta coltivavano sogni.

I sogni delle masse popolari sono sempre stati frutto di una fede e di un’incrollabile speranza. La speranza, quindi, era loro esclusiva proprietà, e rappresentava l’unica ragione di vita. I poveri credevano, o gli era stato imposto di credere, che l’esistenza terrena e le condizioni della loro vita fossero un castigo o uno scherzo del destino, e accettavano di pagare, di espiare colpe che non avevano, errori che non avevano mai commesso. La condivisione di questo sacrificio collettivo ha sviluppato nel loro mondo quella solidarietà diventata modello di vita e riparo da ogni minaccia terrena.
L’unica, originale difesa di questi poveri era l’ironia, arma temuta e difficilmente contrastabile, che, opportunamente usata, riusciva a “dissacrare”, a smascherare e a ridimensionare tutto ciò che di ineffabile, di prepotente e di minaccioso li circondava. L’ironia era nata dalla fantasia e dalla creatività popolare come risorsa vitale, da usare per difendersi da tutto ciò che faceva paura, e per mitigare ed esorcizzare non solo la prepotenza altrui, ma anche la propria impotenza e il senso di nullità che ha sempre caratterizzato i poveri.
La stessa consuetudine di crearsi vicendevolmente nomignoli e soprannomi, spesso sconci o ridicoli, a danno dei veri nomi d’origine, è tipica dei ceti popolari e della loro capacità di ironizzare persino sulla propria irrilevante identità sociale e sulla propria umile ascendenza. Affibbiare quindi un soprannome era come dare a una persona dello stesso ceto un titolo simbolico, e allo stesso tempo irridere indirettamente il ceto superiore, che aveva invece titoli veri e nobiliari, grazie ai quali poteva dettar legge e imporre il proprio predominio.
Oggi, vergognarsi del proprio soprannome significa vergognarsi, allo stesso modo, delle proprie origini: significa essere povero non solo economicamente, ma anche culturalmente.
Mia zia Pina, ultima di quella stirpe e povera per antonomasia, morì che aveva appena quarant’anni, agli inizi degli anni Sessanta, cioè agli albori di questa nostra civiltà. Aveva vissuto fino all’ultimo con la dignità dei poveri e con la speranza di una vita “normale”. Incrollabile nell’attesa di un marito che stava sempre lontano, e che, da quella lontananza, le inviava come sostegno materiale, non denaro, ma sacchi pieni di scarpe usate, che lei ammucchiava in mezzo al locale in cui abitava, e che vendeva ad altra gente povera come lei. Aveva i polmoni malati, e l’aria inquinata dalle vernici di quelle scarpe, respirata giorno e notte, per mesi interi, anticipò la fine della sua esistenza.
Senza marito, senza figli, attorno al suo letto di morte si radunarono soltanto parenti e vicini di casa.
Quando arrivò il prete per l’estrema unzione, zia Pina si guardò intorno, accennò una risatina ironica, e con la lingua fece uno sberleffo ai presenti; dopo di che si girò su un fianco e, volgendo le spalle a tutti, morì.
Lasciò un grosso registro sul quale aveva minuziosamente segnato i nomi dei suoi debitori (i soprannomi, in verità). Era un lungo elenco di nomignoli sconci e curiosi, con accanto a ciascuno la misera cifra che zia Pina avrebbe dovuto incassare, ma che non avrebbe più riscosso. Così tutti poterono constatare che la sua vita precaria, (come quella di ogni persona povera), si era conclusa, tutto sommato, in credito.

Conclusione

Così, con uno sberleffo, si chiudeva un’epoca storica e un’altra ne iniziava. L’emigrazione ha disperso quella massa di gente che era stata una comunità. Ciascuno per proprio conto ha conosciuto finalmente il benessere, ma ha rinnegato, credendole ormai superate, le proprie origini. Molti, per scrupolo, hanno cercato rifugio nel passato, ma tutto era stato ormai cancellato, oppure strumentalizzato, e non esistevano più le condizioni per una presa di coscienza di massa e di revisione critica della nostra storia, soprattutto quella più recente.
Lo stesso uso che si fa oggi del “tarantismo”, per esempio, serve solo a speculare sul patrimonio culturale di un ceto popolare povero che, come tale, non esiste più, e sul suo rituale religioso, che meritava certamente maggiore rispetto perché, prima di essere affossato del tutto o trasformato in spettacolarizzazione mediatica, avrebbe potuto ancora farci riflettere sul malessere di ieri e su quello di oggi.
Senza più regole tutto è permesso, se motivato da una logica di profitto. Molti di quelli che ieri erano poveri e sfruttati oggi sfruttano a loro volta altra povera gente, arricchendosi. Altri, invece, ieri raccoglitori di racimoli abbandonati, oggi più poveri ed emarginati di allora, ingannati da un modello di sviluppo economico che non c’è stato e svincolati da un ordinamento sociale non più credibile, sono stati risucchiati in organizzazioni criminali e in attività illegali. L’antica solidarietà ha lasciato il posto alla diffidenza, e il povero di oggi è diventato una persona molto sola, non ha più nemmeno una controparte, e l’arma dell’ironia, se mai l’avesse ancora, non gli servirebbe più: una persona, da sola, non può ridere né di sé né degli altri, perché la realtà che gli sta intorno è diventata troppo seria e pesante.
A un amico che mi chiede se c’è ancora speranza, io, come tutte le persone in buona fede, non so cosa rispondere. Forse, le persone in malafede, che hanno molta più lungimiranza di noi, possono dirci cosa intravedono nell’immediato futuro. Costoro temono che la speranza torni a risvegliare le coscienze, e per difendere se stessi e tutti i loro privilegi hanno alzato imponenti barriere nei confronti del prossimo che li circonda, segno evidente che non tutto è ormai scontato, e questo mi fa ben sperare. Al mio più caro amico posso allora dire che una speranza forse esiste. Qualcuno la indovina oltre quelle altissime barriere, camuffate da siepi sempreverdi, sormontate da un minaccioso filo spinato.

* * *

Il mio paese è il centro, l’ombelico del Salento, così come piazza IV Novembre è l’ombelico del paese. Non è una piazza, in realtà è la strada principale che da nord a sud spacca in due il paese e lo priva di ogni intimità: non una meta, quindi, ma un punto di passaggio all’infuori del tratto in cui la strada si allarga e forma due “piazzole di sosta”, una di fronte all’altra, dove nessuno, per un motivo qualsiasi, si sarebbe mai fermato. Tranne i cani randagi e i ragazzi assidui frequentatori della piazza, perché nelle case non c’era spazio sufficiente per tutti. La piazza era allora abitata.
Almeno una volta al giorno la casa (unico vano, due al massimo) veniva completamente oscurata e il ragazzo prima di uscire aiutava la madre a scacciare le mosche: all’interno, il ragazzo apriva e chiudeva ripetutamente uno spiraglio della porta che dava sulla strada, con movimenti rapidi e regolari, per indicare alle mosche un punto di luce e una via d’uscita, e la madre, partendo dall’angolo più interno e opposto, sventolando un asciugamano, spingeva le mosche verso quello spiraglio. Allora bastava spostarsi di lato, spalancare la porta e con rapidi colpi d’asciugamano cacciarle via. Questa operazione, per due o tre volte. E con le ultime mosche, quasi inseguendole, anche il ragazzo scappava via. Restava la madre, a porta chiusa e in penombra, sola finalmente.
A differenza dei cani randagi, maschi e femmine che stavano insieme sulla piazza, del genere umano potevano riunirsi soltanto i maschi. Le ragazze, invece, già da piccole, terrorizzate dai genitori (“Se stai con i maschi ti muore la mamma!”), facevano una vita più riservata, quasi anonima.
Senza la presenza adulta e femminile, quasi sempre svezzati e cresciuti senza un abbraccio, senza baci né carezze, senza dialogo né allegria né giochi da parte dei propri familiari, i ragazzi di strada erano in realtà soli tra loro, e proprio per questo liberi di dare sfogo al loro istinto naturale, alla loro rabbia che tanto li faceva assomigliare ai cani.
I cani, a loro volta, erano terrorizzati dai sassi che in ogni momento e da ogni direzione potevano arrivargli addosso: la loro permanenza nella piazza o soltanto il loro passaggio era un’incognita, un rischio. I ragazzi si divertivano a spaventarli, ad inseguirli con bastoni e a sassate, e a interrompere i loro amplessi.
Certo è che le strade e le piazze allora erano popolate, le case traboccavano di animali e di persone, giorno per giorno si dovevano fare i conti con la realtà, per avere spazio sufficiente a legittimare la propria esistenza anche nel più remoto angolo del mondo, nel paese più interno del Salento.
La seconda tragica guerra mondiale era finita da un decennio, ma il paese era ancora stremato, la popolazione più attiva era stata decimata e la generazione successiva non era ancora matura. Erano al completo e quindi più numerosi gli anziani, le donne e i bambini. Ai quali si aggiungevano i gatti e i cani.
Dopo ogni guerra c’è un periodo di tregua, si parla di rinascita, di speranza, di pace, viene spontaneo un clima di euforia. Si guarda con maggiore fiducia al futuro e al prossimo.
In piena ricostruzione, ogni paese, anche il più sprovveduto, si sentiva in diritto di sperare; anche quei paesi nei quali non succedeva mai niente, dove nonostante le guerre nessun esercito era mai passato, dove non si era mai visto sangue versato, o un soldato sparare, dove c’erano solo lutti e monumenti ai caduti con tutti i nomi scolpiti sul marmo. Il mio paese non è stato mai liberato perché non è stato mai occupato. Ma nonostante abbia pagato ugualmente il suo tributo di sangue, nessuno poteva sentirsi tranquillo e al sicuro, neanche in tempo di pace.
I gatti erano trattati bene: erano coccolati, accarezzati e soppesati. Quando raggiungevano il peso giusto, venivano chiusi vivi in un sacco, bastonati a morte e poi scuoiati e cucinati. I gatti, si sa, non hanno padrone: così ognuno si sentiva libero di tentarne la cattura e di appropriarsene.
I cani invece rischiavano solo sassate, conoscevano ad uno ad uno i ragazzi e la loro indole, e stavano al gioco. Bastava guardarsi le spalle, scappare quando c’era da scappare, dimostrarsi disponibili, scuotendo la coda quando era necessario e quando ne valeva la pena.

Chi passava o chi si soffermava su quella piazza erano sempre le stesse persone conosciute. Gli unici forestieri erano due o tre, che in giorni diversi transitavano diretti a sud, con motociclette di piccola cilindrata, cariche di enormi fasci di lunghi e sottili fili di piante di vimini per intrecciare sporte, borsette e fische. Per strappare loro, in corsa, una certa quantità di fili, i ragazzi ricorrevano alla violenza e tirando, da una o dall’altra parte, li strattonavano e spesso li facevano rovinare a terra.

Altro forestiero era l’autista dell’unica corriera che passava una volta al giorno il pomeriggio, e anche a questa i ragazzi correvano dietro, aggrappandosi al paraurti fino alla fermata del bar, per il gusto di respirare quello strano odore di bruciato che usciva dalla marmitta. Alla fermata solitamente nessuno scendeva e nessuno saliva, e siccome la corriere era alta, nessuno dei ragazzi riusciva a vedere se seduti dentro ci fossero altri passeggeri che, oltre all’autista, transitavano di lì tutti i giorni.

E un giorno di questi, un furgone scuro e mai visto si fermò di traverso nella piazza: scesero due persone in divisa, con gli stivali di cuoio, presero di mirra due cani randagi, uno aveva in mano qualcosa da mangiare e lo mostrava avvicinandosi amichevolmente, mentre l’altro nascondeva dietro di sé un lungo e flessibile bastone, anch’esso di cuoio, con in cima un cappio aperto a nodo scorsoio. Il cane ignaro mangiava mentre l’altro tendeva lentamente il cappio verso la testa dell’animale. Era come il filo di biada alla cui estremità i ragazzi formavano un nodo scorsoio, grande quanto bastava per farlo passare attorno alla testa delle lucertole: lentamente, senza toccarla, mentre cessava ogni rumore e tutt’intorno ogni cosa si fermava.
Ricordo l’espressione della lucertola: doveva aver capito la situazione e la sua immobilità era un segnale di resa, pareva anzi che volesse abbreviare i tempi e facilitare la propria cattura, porgendo volontariamente il collo al cappio che avanzava fatalmente.

Una sassata colpì in pieno il cane che mangiava, e tutti e due scapparono via. Gli acchiappacani si guardarono intorno increduli, videro per la prima volta la piazza, la presenza dei ragazzi e dei passanti che si erano fermati a guardare, risposero con imprecazioni e bestemmie, e se ne andarono lasciandosi dietro gesti e frasi oscene, e una risata generale.

Nè, nè, nè,
Sutta a mammata ce ncè
Ncè nu purginella
Ca trase e esse
T’a portella...

Sguaiato, solitario e senza angelo custode, Vituccio “Paracazzi” era quello che si notava di più tra i ragazzi di strada, non solo per la statura e i muscoli che aveva, ma anche per la sua maggiore età; era di qualche anno più grande di noi tutti e questo sarebbe bastato per invogliarlo a farsi da parte. Poteva cominciare a imparare un mestiere, ma nessuno lo accettava, neanche noi ormai più di tanto, e questo lo rendeva nervoso e irascibile. Non era ritardato né cattivo, ma col passare del tempo Vituccio avvertiva sempre di più che il suo spazio si restringeva: forse nato in anticipo, forse in ritardo, si sentiva schiacciato nell’interstizio che si era creato tra una generazione e l’altra.

Non trovando spazio tra quelli più grandi di lui, cercava di “nascondersi” in mezzo a noi, ma non riusciva a mimetizzarsi. Perciò Vituccio agli occhi del mondo era lì, allo scoperto, sulla pubblica piazza, rasato a zero per risparmiare sul barbiere, scalzo d’estate e malamente calzato d’inverno, con i suoi pantaloni né corti né lunghi, appesantiti dalla fionda e dai sassi che portava sempre in tasca, per difendersi più che per offendere. Era stata sua la sassata che aveva fatto scappare i cani. Appena effettuato il lancio, anche lui scappò via, così come faceva quando ci rubava le noci e i noccioli di pesca che i ragazzi piazzavano in fila per terra per poi allontanarsi e colpire da lontano con un’altra noce o con la “staccia”. Vituccio si metteva vicino alle noci, fingendosi spettatore, poi, al momento giusto, con un gesto rapido si chinava, “brancava” le noci sistemate per terra e fuggiva via. Per lui era uno sfogo, ma molti di noi si arrabbiavano: nessuno lo avrebbe mai perdonato.

Degli accalappiacani si parlò per un po’ di tempo. Molti dicevano di averli visti all’opera in punti diversi del paese e in periferia. Fatto sta che dopo qualche mese i cani in piazza erano rari, e in giro ne circolavano sempre meno.

Ciascuno faceva delle supposizioni, ma riguardo alla fine che avrebbero fatto i cani scomparsi, la più ottimistica ipotizzava che venivano fatti morire in pace e sepolti cristianamente. Alcuni però dicevano che, una volta ammazzati, servivano per fare scatolette di carne, mentre con gli ossi si producevano dadi per brodo. Tutte queste dicerie facevano chiaramente capire quanta inquietudine si era creata tra la gente con questa vicenda che, calata dall’alto, niente aveva a che fare con le abitudini del paese.
In questo contesto si verificò un episodio che non dimenticherò mai: nel tratto di strada tra il bar e il vecchio municipio si fermò in pieno giorno una macchina nera, e come in una scena da film, si spalancarono i quattro sportelli, e altrettante persone si precipitarono fuori, acchiapparono Vituccio, lo sollevarono di peso, lo caricarono in macchina e lo portarono via. Tutto in un baleno, e tra l’immobilità e il silenzio della gente che stava intorno.

Vituccio “Paracazzi” non lo vedemmo più, e nessuno seppe nulla di lui. Certe scene, per quanto rapide, lasciano nella memoria dei fotogrammi, quelli più drammatici, più essenziali: Vituccio che si volta di scatto per guardare dal basso in alto chi lo sta immobilizzando e che capisce che il suo spazio è ormai esaurito; Vituccio che, sollevato di peso, s’inarca agitandosi come un ossesso; Vituccio che in macchina, in mezzo a due persone, sul sedile posteriore, guarda dietro di sé con la bocca spalancata e muta, mentre la macchina accelera allontanandosi verso l’uscita nord del paese.

Dopo un po’ di giorni nessuno parlò più della vicenda; e dopo qualche anno si venne a sapere della morte di un ragazzo di Supersano nel manicomio di Bisceglie: ma nessuno ricordava più chi fosse, sembrava che nessuno lo avesse conosciuto. E poi si sa, la morte di uno “scemo” non fa notizia, anzi mette l’anima in pace.

Da allora la piazza non è stata più la stessa, molti di quei ragazzi vennero presi per le orecchie e portati nelle botteghe degli artigiani: calzolai, sarti, falegnami, e lì crebbero umiliati, picchiati, spesso sottoposti a molestie. Qualcuno riuscì a imparare un mestiere.
Il manicomio di Bisceglie venne chiuso grazie alla legge Basaglia. Era stato fondato negli anni Venti come luogo di accoglienza per bisognosi, poveri e senza casa, come succursale del centro di Torino creato da don Giuseppe Cottolengo, poi beatificato.

Negli anni Cinquanta, passò sotto il controllo dell’allora Democrazia Cristiana e divenne un centro di potere e di scambio elettorale, con posti di lavoro in cambio di voti e preferenze. Fino alla metà degli anni Ottanta, l’ex manicomio contava oltre 3.000 dipendenti a fronte di 5.000 ricoverati con relativi introiti, nelle sue casse, delle rette individuali del servizio sanitario. Lo avevano soprannominato la “Fiat del Sud”.

Per essere un centro economico e un gran serbatoio di voti clientelari occorrevano più ricoverati possibile, che si cercavano nei paesi più sperduti delle province pugliesi, e magari nelle famiglie più povere e bisognose. Così una miriade di “case famiglia”, prima nate come nobile e volontario impegno caritatevole cristiano, infine riviste come impegno sociale diverso con la legge Basaglia, che abolì i manicomi, si erano ridotte molto spesso a un generale opportunistico accomodamento personale e privato, sulla pelle degli altri.

Così il povero Vituccio: che era molto giovane, e che era destinato ad essere solo un numero. Poi morto, e cancellato.

Prego per lui il beato San Giuseppe Benedetto Cottolengo e tutta la Congregazione delle ancelle della Piccola Casa della Divina Provvidenza di intercedere per la salvezza della sua povera anima. Prego perché sia perdonato per le noci rubate. Noi lo abbiamo già fatto.

Quelli che uccisero la speranza
Aldo Bello

C’era un’“azienda impropria”, messa su dai contadini più intraprendenti, e consistente in colonìe esercitate su brandelli di terra sparsi ai quattro punti cardinali: ogni mattina ciascun conduttore decideva da quale parte andare e quale coltura curare, per assicurarsi i raccolti diversificati (olive, uva, grano, legumi, ortaggi...), secondo i cicli stagionali. Questa eccentrica “imprenditoria” agricola su terreni altrui privilegiava la quota più fortunata del popolo degli zappaterra, di coloro che quasi senza eccezione ereditavano dai padri le conduzioni coloniche.
Tutti gli altri, quelli che rappresentavano la massa dei giornalieri, erano ingaggiati come quando piove, su base, appunto, di simpatie, di tradizioni di conoscenza, di fama di buoni lavoratori. Ultimi, venivano gli esclusi per le ragioni, o per i pretesti più diversi: tendenza alla ribellione, frequentazioni politiche non gradite, presunte disonestà, pure e semplici diffamazioni...

E c’era la “corte”, nocciolo nucleare adatto alla difesa da tutti gli invasori, all’interno delle quali era diffusa su larga scala la solidarietà del vicinato. L’insieme delle corti caratterizzava il tessuto urbano di quasi tutti i nostri paesi e villaggi, conferendo identità architettonica (e omogeneità antropologica) a quelli che in seguito, assediati dalle orrende periferie sviluppate nella seconda metà del secolo scorso, abbiamo chiamato “centri storici”. Creati dallo sviluppo spontaneo delle abitazioni, quei centri erano un po’ casbah e un po’ medina: grumi bianchi di case addossate, come a proteggersi reciprocamente, ai lati di viuzze, di vichi e di brevi piazze lastricate, sulle quali si affacciavano le botteghe artigiane del legno, del ferro, del rame e dello zinco, della tessitura e della carpenteria, accanto agli usci dei sarti, dei barbieri, dei sellai, dei rivenditori di pane e di generi coloniali, in un diffuso afrore di bucati e di vini spillati, di domestiche cucine e di pubbliche rivendite di carni di cavallo al sugo e diavolicchio.

E c’era infine il mondo borghese, generalmente piccolo-borghese, talora medio, raramente grande, non proprio illuminato, sempre saldamente collegato al milieu impiegatizio e al circuito degli affari locali o del circondario, soddisfatto del proprio status e delle discriminanti differenze di classe, del conseguente rispetto ricevuto, della conservazione dei diritti di casta, delle protezioni assicurate dal quietismo alimentato dalla fame, dalla precarietà del futuro, dall’analfabetismo, dalle limitate aspettative di vita.

Ecco. Era questo il “Salento della speranza”. Questo era il “Sud della speranza”. Erano il Salento e il Sud che da tempo immemorabile venivano irretiti dall’illusione prospettica della speranza.

Ma che cosa ha prodotto, persino fino ad oggi, quella speranza? La regione lombarda o quella veneta, da sole, producono più valore aggiunto dell’intero Mezzogiorno. Il contributo del Sud (che ha un terzo della popolazione italiana) all’interscambio del Paese si aggira attorno all’11 per cento. Gli esercizi alberghieri del Veneto sono oltre duemila, quelli dell’intero Sud sono 3.200. Se si sommano la disoccupazione, il lavoro nero, l’abusivismo edilizio, l’evasione dell’Iva, un bel po’ di mafie e un gran contorno di pratiche clientelari e di diffuse corruzioni, la situazione è ancora più scoraggiante.
E si capisce così perché in tanti, nel Nord e nello stesso Mezzogiorno, hanno voltato le spalle alla celeberrima e in buona parte sterile “questione meridionale”.

“Questione” che veniva da lontano, e che alimentava la speranza degli uomini e delle donne del Sud con nobili intenti. Cavour credeva che la libertà avrebbe risvegliato le energie conculcate della società delle regioni meridionali. Alcuni meridionalisti, all’inizio del secolo scorso, sperarono che le migrazioni verso le Americhe avrebbe decongestionato il mercato del lavoro, alleggerendo la pressione demografica sulle campagne e favorendo lo sviluppo del Sud. Giustino Fortunato ritenne che il progresso dipendesse essenzialmente dal rinnovamento delle strutture agricole. Dopo il suo viaggio in Basilicata, (il primo di un presidente del Consiglio nel Sud), Giuseppe Zanardelli puntò sull’efficacia delle leggi speciali. Francesco Saverio Nitti indicò una dose massiccia di industrializzazione. Gaetano Salvemini, anticipando Gramsci, sostenne che il Sud era rimasto vittima sacrificale di un’alleanza tra il capitalismo del Settentrione e il latifondismo del Meridione. Don Luigi Sturzo affermò che il Sud aveva bisogno di maggiori autonomie. Mussolini fece di Napoli una città industriale e si illuse che le conquiste coloniali avrebbero soddisfatto la fame di terra delle masse contadine. Guido Dorso, Antonio Labriola, De Viti De Marco, Pasquale Saraceno, Manlio Rossi Doria, Danilo Dolci e molti altri ritennero che la “questione” fosse anzitutto un problema di buon governo e di rinnovamento della società civile.

Gli economisti del secondo dopoguerra puntarono sulla riforma agraria, poi sulle infrastrutture e le bonifiche del territorio, infine sui poli di sviluppo. I comunisti lavorarono all’organizzazione di una classe lavoratrice politicamente consapevole dei propri diritti, e, ovviamente, guidata dal Pci. De Gasperi e Menichella vararono la Cassa per il Mezzogiorno. Poi si parlò di “frontiera degli anni Ottanta”. Poi ancora di “aggancio del Sud all’Europa”. Infine, la “questione” svanì, e tutti voltarono le spalle alle terre illuminate dall’algida luce della luna dei Borboni.

Perché accadde tutto questo? Per due precise ragioni. La prima: tutto, riforma agraria, Cassa per il Mezzogiorno, regioni, Europa, ha dichiarato – implicitanente, o no – fallimento. La seconda: i meridionali la rivoluzione, radicale e silenziosa, l’hanno fatta in proprio, con una parte di società che decise di andarsene, di emigrare, in varie fasi dopo gli anni Cinquanta del Novecento. E fu una doppia emigrazione: verso le regioni del Triangolo industriale e verso l’Europa.

Stanchi di correr dietro alla speranza, quelli che abitavano i vecchi centri storici, le corti e i vicoli, le casbeh e le medine abbandonarono il bianco abbagliante dei loro paesi e lo scialle nero della loro disperata miseria, e salirono sui treni per raggiungere un ignoto Far North. Costoro uccisero la speranza. E con la speranza era fatale che dileguasse anche lo spirito di solidarietà, semmai trasferito negli slums e nelle baraccopoli delle periferie metropolitane nelle quali i salentini e i meridionali approdarono.

In Salento e nel Sud la società mutò pelle, senza tuttavia riuscire ad avviare il motore di un autentico sviluppo autonomo, se non in alcune aree di poche regioni. Così è accaduto che a parlare del Sud, oltre i confini meridionali, ora si suscita solo fastidio. Se poi si sostiene che le politiche per il Sud sono state organiche allo sviluppo del Nord, mentre la speranza è stata funzionale alla catena di inganni perpetrati contro il Sud, si rischia di venire interdetti.

Ecco perché nella speranza, in questo tipo di speranza, non ci può essere nulla di buono. Essa ha cancellato identità, antropologie culturali e umane, linguaggi, tradizioni, letterature e arti, dandoci in cambio una società dei consumi che, nel Sud, è in grado di produrre poco e di consumare ancor meno. Ha relegato uomini e latitudini in piani subalterni. Ha garantito disancoraggi da superate schiavitù, nel nome di simultanei ancoraggi a più efficienti servitù, nelle povertà contemporanee che riguardano quasi esclusivamente le terre del Sud nostro, oltre che del pianeta. Non sono state vinte la fame e le malattie, non sono state debellate le mafie, non sono stati disarticolati i networks politico-affaristici. Come sterili crisalidi, si sono svuotate le ultime generazioni d’ogni interesse per la politica (intesa come “vita della polis”), si è incentivata l’ideologia della concorrenza selvaggia come solitudine di maratoneti in un mercato globale senza regole e senza un lampo di umanesimo che lo renda meno repellente.

Avevano ragione, i nostri emigrati, quelli che hanno buttato a mare la speranza, perché ritenuta un inservibile ferrovecchio, o un grimaldello per spalancare finestre su un nulla che segue a un niente. Avevano ragione, perché così ci hanno indicato le vie di una rivolta interiore che finalmente ha intrigato le nostre coscienze.

Non per niente si è ricominciato a parlare di “valori”, dopo che discorsi e pensieri analoghi anche nel recente passato erano stati sistematicamente irrisi come frutto di intellettuali di Magna Grecia. È una “riconquista” per la quale vale la pena di battersi, giorno dopo giorno, malgrado l’assordante silenzio di quanti dovrebbero essere in prima linea, e sono invece arretrati nel loro banale futuro.

Forse non a caso si sta tornando, sia pure lentamente e senza chiasso, nei vecchi centri storici, a restaurar case dalle volte a botte o a stella, per riabitarle e per restituir l’anima (un poco d’anima) alle corti e alle dimore tradite. E questo è pragmatismo da inizio millennio. Non è malafede, ma diffidenza, e se si vuole, sfiducia nei confronti degli altri.

La speranza, continuo a sostenere, va lasciata alla sfera degli afflati religiosi, nei cui contesti stupendamente si incastona. Al di qua del mondo spirituale, rischia di rendere ancora una volta cieca e dolente la nostra già nuda terrestrità.

E il Belvedere era una bruna foresta
Aldo De Bernart

Così la chiama, nel 1789, lo svizzero Carlo Ulisse De Salis, signore di Marschlins, nelle sue note di viaggio dal titolo Nel Regno di Napoli, alludendo al famoso Bosco Belvedere, disteso nei Comuni di Scorrano, Spongano, Muro, Ortelle, Castiglione, Miggiano, Poggiardo, Vaste, Torrepaduli, Supersano, Montesano, Surano, Sanarica, Botrugno, San Cassiano e Nociglia.

Immenso latifondo boschivo, che al suo proprietario, il principe Gallone di Tricase, assicurava la pingue rendita di L. 42.500 e a tutti i Comuni confinanti gli usi civici.
Smembrato, nel 1851, e suddiviso fra i Comuni interessati, a Supersano, dopo Scorrano e Nociglia, toccò la quota maggiore e forse la più bella, non solo per impianto e varietà di piante, ma anche per i pascoli eccellenti.

«Nei pascoli sopra queste alture – scrisse il De Salis – e nella foresta di Supersano, sono allevate due razze equine appartenenti al Marchese di Martina e al Duca di Cutrofiano, le quali forniscono buonissimi cavalli da sella e da tiro. Vi sono anche degli armenti, ed assaggiai qui una nuova qualità di formaggio fatto di latte di capra, che è davvero eccellente».

Famosa, un tempo, per le sue diciotto masserie, disseminate per l’intero feudo, Supersano deteneva la palma di tipici prodotti caseari, in concorrenza con quelli dell’Arneo di Nardò, mentre spiccava per la selvaggina abbondante che stanziava nel suo immenso bosco e che richiamava cacciatori da ogni parte del Salento, che pernottavano, a volte, nelle masserie, e, i nobili, nel Casino della Varna, ancora oggi esistente, in agro di Torrepaduli; è questo uno stupendo casino di caccia di impianto seicentesco, la cui mole si staglia in una brughiera odorosa di timo, solcata da un’antica carrareccia scavata nella macchia pietrosa. Situato nel cuore di Bosco Belvedere di Torrepaduli, il Casino fu, appunto, luogo d’incontro per le battute di caccia e per i conviti che le allietavano. Dimora un tempo veramente principesca, se ancora oggi conserva, malgrado i guasti, lo smalto dell’antico splendore, il Casino della Varna, che non guarda più le antiche querce del suo bosco che correvano fino a Supersano, rimane oggi l’unico testimone muto dei fasti e della bellezza selvaggia del Bosco Belvedere.

Quel “bosco” che ha dato 1’“aria sana” a Supersano e che ancora, nei suoi avanzi, richiama turisti sulla più bella terra del Salento, così come un tempo richiamava gli scienziati. Scrisse, infatti, il De Salis: «Supersano è un piccolo villaggio isolato, romanticamente situato tra boschi e colline, che ha servito sinora da ritiro al mio intelligente compagno».

L’«intelligente compagno», al quale allude il De Salis, è il Dott. Pasquale Manni (1761-1841), da San Cesario di Lecce, fisico ed entomologo di chiara fama, che nel Bosco Belvedere di Supersano aveva raccolto vari insetti, passati poi al famoso Domenico Cirillo, che li aveva catalogati nel suo lavoro Specimen Entomologiae Napolitanae.

Il Dott. Manni – scrive ancora il De Salis – «mi mostrò anche della cenere vulcanica da lui raccolta a Supersano nel 1784, dove cadde dello spessore di una mezza linea; e siccome è noto che in quell’anno lo Stromboli eruttò violentemente, niente di più facile che il vento ne abbia sospinte le ceneri fin qui. E siccome la distanza in linea retta è di 160 miglia italiane, sarebbe questa una prova indiscutibile, come gli antichi descrittori delle eruzioni dell’Etna e del Vesuvio non raccontassero fiabe, allorché dicevano di ceneri trasportate sino a 200 e 300 miglia, durante le forti eruzioni di questi vulcani».

Con questa annotazione sui vulcani termina la visita del De Salis a Supersano, e nel lasciare il “piccolo villaggio”, crediamo che in quel lontano pomeriggio del 1789 abbia spinto lo sguardo, ancora una volta, sul verde cupo della “foresta”, senza dubbio una delle cose più belle che l’illustre viaggiatore d’Oltralpe abbia visto nel Basso Salento.

L’Arditi, che nel 1851 aveva conosciuto in tutta la sua vastità e bellezza il Bosco Belvedere, perché ne aveva tracciato la mappa e proceduto alla divisione della terra tra il principe di Tricase e i Comuni interessati, nel 1879 scriveva: «Era questo forse nella provincia il bosco più vasto e vario per essenze arboree, ma oramai non rimangono più di arbustato e di ceduo, se non poche moggia a nord-ovest verso Supersano».
Quelle “poche moggia” che nel 1882, a distanza di 84 anni dalla visita del De Salis, il De Giorgi, visitando Supersano, vide: «E verso l’orizzonte a sinistra si profilano gli ombrelli dei pini d’Italia, che sollevan le loro chiome pittoresche sulla bruna massa delle querce di Belvedere».
La “bruna massa” di querce ora non c’è più!

 

Quando muore una grande quercia
Gino De Vitis

Un decreto del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, concedeva, in data 19 maggio 1971, un nuovo stemma al Comune di Supersano, su domanda del sindaco. Il nuovo stemma, raffigurante “Bosco Belvedere”, sostituiva il vecchio, glorioso emblema, raffigurante la “Quercia”.

Opportuna o meno la decisione del sindaco in carica che ne aveva chiesto la soppressione, rimane il fatto che i Supersanesi, almeno una buona parte di loro, non sanno ancora del cambiamento avvenuto, non sanno ancora che la “loro” quercia è stata definitivamente abbattuta.

E che la quercia sia stata per non poco tempo lo stemma del paese, lo si deve al fatto che una grande pianta (ma che dico, “grande”!? Immensa era, invece) costituiva il più significativo “indicante” del nostro paese. Ecco la quercia, siamo a Supersano!
Non è vuoto sentimentalismo, se da queste colonne si fa lode a questo gigantesco “personaggio”. Perché di personaggio si tratta, non ci sono dubbi, vista l’importanza che la pianta ha avuto per noi, sì da essere stata, appunto, per tanto tempo, il simbolo del paese.
Ci tornano alla mente i bei versi del Pascoli, nella poesia “La quercia caduta”. Anche la “nostra” quercia, ora, non più «coi turbini tenzona».

Venne abbattuta!

Essa era all’ingresso del paese, lato nord, nel luogo compreso, oggi, tra il canale “Muto” e la strada provinciale per Scorrano, là dove ora è stato sistemato un trasformatore dell’Enel. Intorno alla pianta, un enorme spiazzo. La sua chioma era maestosa, capace di dare ombra, tanta ombra al viandante, che, stanco, ne avesse avuto bisogno. Ma più che la sua chioma, il “fenomeno” era costituito dal tronco: una circonferenza da capogiro. Dicono, coloro che la conobbero e che ne ascoltarono i suoi ultimi battiti, che occorrevano ben quattro persone (sic!) con le braccia aperte, per abbracciarne l’enorme tronco; basti pensare, per avere un’idea più verosimile, che nel suo tronco era stato ricavato un vero e proprio antro, nel quale potevano trovare comodo riparo quattro o cinque persone, sedute attorno ad un tavolino.
E si pensi quanto cara fosse stata la quercia di Supersano agli zingari, a questa gente senza casa, che, facendo sosta nel nostro paese, trovava un certo riparo all’ombra e nel tronco della secolare pianta.
Quanto tempo era vissuta? La gente se la sarà sempre posta questa domanda e ce la poniamo oggi anche noi. Ma chi può sapere la durata della vita della nostra quercia! Purtroppo non siamo in grado di dirlo, poiché non abbiamo alcuna documentazione, anche se si può affermare con sufficiente sicurezza che la nostra quercia non avesse meno di dieci secoli.
Una cosa, quindi, è certa: la sua vita è stata straordinariamente lunga.
Perché la sua fine? Il racconto di chi la ammirò ha veramente del patetico. La quercia era “sofferente”, ormai decrepita, per cui si pensò bene di abbatterla. Sofferente per aver dato riparo, nella sua cavità, a tanta gente! Sì, la sua generosità fu la causa della sua morte. L’enorme buca nel suo ventre l’aveva percossa inesorabilmente: la linfa non aveva avuto più la possibilità di ascendere facilmente dalle radici al resto della pianta, impedita, appunto, dall’enorme taglio nel tronco. E così la scure si abbatté su di lei. Questo accadeva circa novant’anni fa. Venne dato l’incarico dell’esecuzione a Guerino Sanapo, il quale si valse della praticità nel mestiere di Paolo Negro. Ci manca la testimonianza dei due, poiché entrambi sono morti. Finiva così la lunga vita di questa nostra forte pianta, tra il rimpianto generale dei Supersanesi, e non solo dei Supersanesi, e il dolore degli uccelli con i quali la quercia, mamma quercia, era stata così buona.

Le querce del Salento

Numerose erano le specie di alberi e arbusti che vegetavano nel Bosco Belvedere, fra le paludi e gli acquitrini: il frassino, il carpino, il castagno, la quercia spinosa, il leccio, il fragno, la roverella, insieme con l'intera gamma di piante della macchia mediterranea.
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, per venire incontro alle necessità degli agricoltori, il bosco fu in gran parte distrutto per far posto soprattutto agli ulivi che ancora oggi ricoprono quei fertili terreni.
Scrive il tecnico ambientale e naturalista Roberto Gennaio: «I disboscamenti irrazionali (clearcutting), gli incendi ripetuti, le attività pastorali, lo smacchiamento e le opere di dissodamento necessarie per reperire nuovi terreni coltivabili, si accentuarono in maniera esponenziale a partire dai primi anni del ‘700 e continuarono dissennatamente nei secoli successivi […]. Anche la richiesta sempre più incalzante di combustibile vegetale determinò la specializzazione di diverse maestranze nel taglio degli alberi e delle grandi querce e nella preparazione del carbone e i “craunari” di Calimera e di Supersano erano i più noti e specializzati del
Salento […]».
Scriveva il De Giorgi nel 1877: «Non è senza il massimo dolore ch'io osservo di anno in anno cadere atterrate al suolo quelle querce maestose che hanno sfidato per tanti secoli le ingiurie del tempo, dell’atmosfera, degli uomini e degli animali. La falce e la mannaia livellatrice del boscaiolo segnano intanto, inesorabili su questa via di distruzione [...]».
Dice Gennaio: «Forse non tutti sanno che nel nostro Salento sono presenti nella flora spontanea ben dieci specie di querce e dodici in Puglia, tanto che il botanico pugliese E. Carano la definì la “terra delle querce”».
Le querce salentine sono: il leccio (Quercus ilex), la quercia spinosa (Quercus calliprinos), la quercia virgiliana (Quercus virgiliana), la quercia di Dalechamp (Quercus Dalechampii), la vallonea (Quercus thaburensis subsp. macrolepis), la sughera (Quercus suber), il farnetto (Quercus frainetto), il fragno (Quercus trojana), la rovere (Quercus petraea), la roverella (Quercus pubescens).

 

Paola la mammana
Maria Mafalda Ciardo

Un mestiere tramandato

Il parto, «tempo “breve” e risolutivo, tempo di sofferenza ma anche di liberazione» (G. Ranisio, Venire al mondo. Credenze, pratiche, rituali del parto, Roma, 1996), nel passato si configurava insieme alla gravidanza e all’allattamento come la fase della vita della donna nella quale «il controllo sociale veniva esercitato all’interno del gruppo femminile da alcune donne su altre donne». Così il parto diventava uno dei pochi momenti gestiti dalle donne, all’interno di una società che certamente non poteva essere definita “femminile”.
Infatti le testimonianze orali raccolte evidenziano la presenza, al momento del parto, di sole figure femminili: le vicine di casa, le zie, la madre della partoriente e l’immancabile “socra”, la suocera, con una “funzione di controllo” che al momento topico della nascita suscitava nelle nuore atteggiamenti di ostilità e di ambivalenza.
A queste si aggiungeva la donna “esperta” o “pratica”, la “mammana”, figura attiva a Depressa di Tricase, nella persona di Paola De Iaco, fino al 1969, anno della morte. La sua “conoscenza empirica del corpo” la portava ad aiutare la partoriente basandosi su ciò che questa «sentiva e diceva di sentire», nel rispetto dei suoi tempi e dei suoi ritmi.
Si trattava di un mestiere tramandato dalla suocera, la “mamma Là” (Addolorata), che, vista la predisposizione della nuora, l’aveva portata con sé ad assistere ai parti e ad apprendere l’arte. La stessa Paola De Iaco avrebbe potuto tramandare l’arte ad una delle figlie, ma non se ne fece nulla per l’opposizione del genero, come una delle figlie della mammana riferisce: «Una vulia se ‘mpara, na soru mia, Vata, però u maritu nu vulia cu la manna perché tania quattru masculi» (M.R. 70 Depressa).
L’arte della mammana prevedeva un impegno notevole e una disponibilità assoluta in quanto veniva richiesta un’assistenza totale non solo della madre ma anche del bambino, in tempi tra l’altro in cui la natalità era molto alta («Tannu nasciane muti, non è come moi ca ne nascene unu, doi; tannu otto, nove, dieci, cinque, sei, sette. Quistu era». (M.R. 70 Depressa) . Il suo intervento, infatti, non si limitava al solo momento del parto: l’assistenza psicologica e fisica delle puerpere, dei neonati, le medicazioni, l’applicazione di tagli, di punture e di salassi la tenevano impegnata dalle prime luci del mattino fino a sera, in un vero e proprio giro di visite («... e allora a mane se ne ssia alle sette e se cuia alle dieci, alle undici e facia u giru du paese» (M.R. 70 Depressa).
Tra le attività svolte, la fasciatura dei bambini, la visita delle puerpere, in particolare delle “primelure”, le donne che rimanevano incinte per la prima volta. Verso queste donne, magari quelle più apprensive, la visita si concludeva con delle rassicurazioni e degli incoraggiamenti.
La mammana era inoltre in grado di praticare tagli attraverso un seghettu o un temperino, cosa che aveva imparato a fare dal medico condotto del paese, al quale spesso si accompagnava come assistente. I tagli si imponevano per raccogliere il latte, per curare le infezioni, per drenare le suppurazioni. In questo modo le donne che ricorrevano alle prestazioni della mammana risparmiavano e riservavano l’intervento del medico a circostanze più delicate o rischiose.

Il parto: luoghi, metodi e riti

Fino all’avvento del parto medicalizzato, negli anni Cinquanta, risultava prevalente quello effettuato in casa. In particolare, nella realtà rurale di Depressa, questo si verificò fino a tutti gli anni Sessanta. Solo negli anni ‘65-‘70, da quanto si ricava dalla testimonianza di un medico della mutua, si è incominciato a parlare di ospedali.
I più vicini al Capo di Leuca erano quelli di Scorrano e di Poggiardo ai quali si ricorreva solo in poche, gravi, occasioni, data la mancanza di mezzi di trasporto («Portare una a Scorrano o a Poggiardo bisognava trovare la macchina a nolo oppure di qualchedun altro insomma disponibile» (V.R. 78 Tutino) e il sentimento di diffidenza e di paura che l’ospedale incuteva nella gente.
Quando il parto presentava complicazioni particolari si ricorreva, prima ancora dell’ospedale, all’ostetrica condotta o al medico condotto del paese e a quest’ultimo soprattutto quando il bambino si presentava in posizione anomala e «aveva difficoltà ad uscire fuori» (V.R. 78 Tutino). In questo caso per estrarre il neonato veniva utilizzato «il forcipe, una specie di tenaglia […] con due valve grandi che abbracciavano in genere la testa» (V.R. 78 Tutino). Veniva utilizzato come alternativa al cesareo praticato sempre in ospedale da personale specializzato e non da medici generici. Mentre il forcipe poteva essere utilizzato pure da medici generici. Numerosi erano gli inconvenienti che derivavano dall’utilizzo di tale strumento: lussazioni della spalla, malformazioni, schiacciamento della testa.
Se invece interveniva l’ostetrica, questa poteva praticare, con le sole mani, «il rivolgimento: se c’era un piedino fuori dall’utero, dovevi far rientrare quel piedino, farlo girare, far vedere il culetto e… tirarlo poi fuori» (M.A.L. 86 Alessano). Si tratta di una manovra un tempo piuttosto frequente, oggi utilizzata in casi eccezionali, effettuata per modificare una postura sfavorevole del feto, come poteva essere la cosiddetta “presentazione di spalla”.
In tutti gli altri casi la mammana svolgeva il suo lavoro da sola in casa della gestante, allertata dai parenti in presenza di doglie o di sintomi che lasciavano presagire l’imminenza del parto. La donna veniva fatta poggiare o per terra «su li vancuteddhi» (M.R. 70 Depressa) o sugli «scannetti» o su dei cuscini, oppure «a taiu de lettu» (V.R. 74 Depressa), o ancora su un tavolo.
Al momento delle doglie, e subito dopo il parto, la gestante doveva ingerire dell’olio di ricino o di oliva («Quannu te santivi le doglie ziccavi e te piavi oiu de ricinu e olio de vulia e te puracavane primu. Poi nascia lu vagnone o la vagnona e però le puracavane ‘ntorna»). A Tricase è ricordata anche l’usanza di «ungere il collo dell’utero con del sapone, perché rendesse più facile l’uscita del bambino» (Emilia 60 Tricase).
La mammana si disponeva quindi di fronte alla partoriente, avendo a portata di mano un recipiente con acqua e disinfettante («cu la bacinella de acqua cu lu iusuforum» (M.R. 70 Depressa). Venivano utilizzati dei panni, preparati in precedenza, e dell’acqua calda. Si pensava infatti che il caldo alleviasse i dolori; basti pensare che molto spesso la partoriente «veniva fatta avvicinare ad una fonte di calore» (Emilia 60 Tricase).
Nel parto l’esperta agiva esclusivamente con le mani. Nel caso considerato, la mammana Paola utilizzava un guanto di tipo ospedaliero, fornitole dall’ostetrica («Cu le mani, tania u guantu ca ne l’era datu a condottata. Cu li mani» (M.R. 70 Depressa). Con queste praticava dei massaggi sul ventre e aiutava la creatura ad uscire fuori dall’utero. Al bambino venivano fatti dei massaggi; ma se si presentava cianotico e sofferente, a causa di un travaglio lungo, la mammana gli praticava una sorta di respirazione bocca a bocca («Certi ca stavane tantu tiempu cu nascene, nascivane neri e la mamma li suffiava alla bocca»). Si tagliava dunque il cordone ombelicale, con il rituale di gettarlo nel fuoco perché di buon auspicio («Quannu cadia lu mintivane nta lu focu e lu brusciavane è […] perché cusì dice ca era usanza»).
L’espulsione della placenta, detta “la secunda” (V.R. 74 Depressa), rappresentava un momento non meno doloroso del parto. In questa fase la mammana continuava a massaggiare il ventre della partoriente per favorire l’espulsione della placenta. La sua mancata eliminazione avrebbe potuto mettere in pericolo la vita della donna. Ritenuta pericolosa, la placenta veniva buttata dentro la “fossa” (M.R. 70 Depressa).
Durante il parto, «quannu propriu erano i mumenti», si recitavano le litanie alla Madonna, «ne rivolgiane a Santa Liberata, a Sant’Anna, a Santa Liutcarda, a chiamavane cusì ca era la patruna de le partorienti». Colpisce la presenza, accanto a Sant’Anna, patrona delle partorienti, di altre due sante, Liberata e Lutgarda (patrona dei fiamminghi), non legate al parto. Le litanie alla Madonna possono essere collegate anche al culto della Madonna della Libera o del Carmine, che soccorreva le anime del Purgatorio.
Infine il bambino veniva «lavato fra l’altro sempre con acqua calda e tutte le regole dell’igiene e fasciato» dalla “pratica”. Un’usanza quest’ultima respinta dalla medicina ufficiale dell’epoca, come ricorda un medico: «Il neonato veniva fasciato in una maniera barbara, perché c’era l’idea che se non si fasciava molto stretto il bambino, e non si tenevano strette le gambe, il bambino avrebbe sviluppato gambe storte. E allora mettevano prima dei panni, belli, grossolani. Poi li tiravano e li mettevano così come se fosse un fazzoletto e poi lo giravano in questa maniera; poi giravano da un lato e dall’altro: diversi strati di panni fino a che per ultimo venivano fasciati... Per cui se tu pigliavi il bambino da sotto, così, non riuscivi a tenerlo in piedi per quanto era impedito dai panni. Ma se il medico diceva: “Li dovete tenere sfasciati”, c’era sempre l’esperta o la nonna o un’altra che insisteva per tenerli fasciati».
A parto concluso, interveniva l’ostetrica condotta del Comune, che era tenuta a compilare una relazione sul parto, con l’indicazione dell’ora, delle modalità della nascita e le generalità del neonato, in questo aiutata dalla mammana che, non sapendo leggere né scrivere, le forniva tutti gli elementi utili per la compilazione dell’atto.
Non così accadeva ad Alessano, dove l’ostetrica condotta ricorda che nel paese c’erano sì le “pratiche”, ma a queste non lasciava fare niente, limitandosi a chiamarle all’occorrenza come aiutanti. Un malcelato senso di superiorità della condotta rispetto alla “pratica”, che traspare anche nei nomi: “Signora”, la prima; “comare”, la seconda. Questo fatto può essere spiegato osservando che la realtà cittadina di Alessano era profondamente differente da quella agricola di Depressa. Nella piccola frazione di Tricase la lontananza della condotta e l’assenza di mezzi di trasporto ne rendevano difficile l’intervento giornaliero e sporadiche le visite e quindi più freddi e professionali i rapporti; a questo bisogna aggiungere i pregiudizi della gente, che preferiva l’aiuto della “pratica” a quello della più istruita condotta.

L’alimentazione

Un “rito”, se così possiamo chiamarlo, legato al momento successivo al parto era quello della preparazione del brodo di gallina. Questo alimento veniva dato alle partorienti, dopo due giorni di digiuno, perché considerato un ricostituente (V.R. 78 Tutino). Veniva consumato il terzo giorno dopo il parto senza l’aggiunta di pastina; questa poi veniva aggiunta al brodo del giorno successivo, come ricorda la figlia della mammana: «Poi dopo doi giurni cidivane na caddhina, poi cuivane tuttu l’oiu, cu nu ne face dannu cu nu ne vene la freve; allora poi ziccavane e ne davane nu stozzu de brodu; allotru giurnu poi ne calavane nu picchi de pastina» (M.R. 70 Depressa).
Sempre nei giorni successivi si continuava per quanto possibile a curare l’alimentazione, soprattutto per favorire la produzione di latte. Infatti si consigliava di bere molti liquidi (anche il vino) e di mangiare gli alimenti che si pensava favorissero la produzione di latte, come le fave. C’è da aggiungere che l’alimentazione all’epoca «non era la più varia possibile» (V.R. 78 Tutino) e in determinate fasce sociali «non era […] possibile per esempio date le condizioni di ristrettezze economiche consumare carne». Ecco perché la donna «durante il periodo post gravidanza, insomma, stentava a riprendersi, condiderato poi l’alto numero di gravidanze che aveva già affrontato».

La vita negata

Dalle testimonianze raccolte emerge un altro aspetto della gravidanza che merita una certa attenzione, ossia quello dell’aborto.
La vita della donna, negli anni Cinquanta e Sessanta, era infatti caratterizzata da numerose gravidanze che non sempre andavano a buon fine.
In caso di aborto spontaneo, la mammana interveniva eliminando il feto ormai morto con le mani. Si ricorda anche l’utilizzo della camomilla e dell’acqua calda.
In realtà, la mammana non aveva alcun requisito per intervenire, così come non ne aveva l’ostetrica condotta. Questa infatti era obbligata in presenza di un aborto o di una minaccia d’aborto a chiamare il medico, e sarebbe stata una sua grave inadempienza, passibile di denuncia, non farlo. Il medico, tra l’altro, poteva rifiutarsi di firmare la relazione se non aveva assistito all’aborto.
L’aborto “provocato”, illegale a quell’epoca, non era invece particolarmente diffuso, ma «praticato più che altro da persone esperte, non certo da ostetriche perché […] non si prestavano; almeno non si sarebbero dovute prestare. Era praticato con mezzi empirici, magari distillati di erbe (il medico ricorda l’uso del prezzemolo) o in maniera cruenta con ferri od altro che provocava la morte del feto e successivamente la sua espulsione».
Pratica alla quale non si piegava la mammana di Depressa, visto anche il forte legame di amicizia che la legava al parroco del paese. Le figlie ricordano alcune giovani donne che le avevano chiesto inutilmente di farlo.
Le gravidanze indesiderate portavano comunque alla nascita di bambini, il cui destino era alla mercé delle madri: alcune sceglievano di dare alla luce il figlio lontano dal paese e di abbandonarlo alla “ruota” di Lecce: nonostante la presenza della ruota a Tricase, infatti, le donne trascorrevano il periodo della gravidanza presso qualche convento e lì abbandonavano il bambino.
Altre invece partorivano da sole e si liberavano sbrigativamente del neonato. Subito dopo il parto non pochi di questi bambini hanno conosciuto la morte, buttati in qualche cisterna o abbandonati nei dirupi. Il fenomeno era particolarmente diffuso ed erano numerosi i casi di imputazione per infanticidio. («Mo li portavane a Lecce ca ‘nc’era quira cosa ca nu sacciu come se chiamava, quira cosa e li lassavane già. Se sapia sempre, ma qualcuno l’hannu puru ccisu. Dopo se sapiane. Quelli nasciane suli. Mancu chiamavane la mamma, no» (M.R. 70 Depressa).
Una delle figlie della mammana ricorda una donna che prima del matrimonio aveva concepito un figlio e lo aveva ucciso buttandolo «antra lu puzzu». Al pranzo di nozze, secondo quanto le era stato raccontato dalla suocera, si era verificato un episodio strano e curioso: una gallina uscita dal pollaio, dopo essersi posata sul piatto della donna che aveva ucciso il figlio, era morta stecchita. La donna racconta: «Nc’era na ristiana incinta, cu la ventre rossa. Hannu truvatu nu vagnone antra lu puzzu; […] poi è vanuta ca sa spusata sta ristiana, s’ha spusata e dicene ca tannu stavane ‘nta nu curtiu ca staci se manciavane na cosa. Allora dice ca ‘nc’era na caddhina. Esse du puddaru de caddhine. Allora zicca e esce na caddhina de stu puddharu. Ha cumanzatu a spattire. Spatti spatti vane e se va nta lu piattu arunca manciava quira ristiana c’ha abortito. Cade antu piattu e more a caddhina.[…] E dicia a socra mia, me disse: a cosa vivente, propriu varda sarà ca Gesù Cristu…, a dittu, varda propriu ca sa ‘nfucata a caddhina» (M.R. 70 Depressa).

Il battesimo

La mammana durante il rito del battesimo ricopriva un ruolo importante; esso consisteva nell’accompagnare i bambini al fonte battesimale. Questa particolare funzione, che non deve essere confusa con quella della madrina (che era presente insieme al padrino), ha origini antichissime, come attestato da una “dichiarazione di fede della mammana” contenuta nel Liber baptizatorum di Tricase:
Faccio fede io Caterina Ruberta della Terra di Tricase, mammana et allevatrice, a chi la presente spettarà vedere, o sarà in qualsivoglia modo presentata, come da tutto il tempo passato nel quale ho esercitato l’ufficio di mammana et allevatrice in detta Terra, che sono anni 14 in circa sempre ho portati li figlioli e figliole al battesimo in fra lo termine di giorni sei ad summum da che sono nati, e quelli fatti battezzare secondo il rito di Santa Chiesa, et in fede del vero ho fatto fare lo presente per mano di notaro Francesco Micetti di detta Terra, signata col segno di croce di mia propria mano per non sapere scrivere. In Tricase le X di Decembre 1619.
In quella particolare occasione la mammana Paola preparava dei liquori che venivano consumati durante la piccola festa organizzata subito dopo il battesimo e riceveva dai genitori e dai cumpari il compenso, che poteva essere in denaro («Alla chiesa poi i cumpari li davane cinquanta lire, cento lire» (M.R. 70 Depressa) o in natura.
Per le ostetriche condotte, invece, esisteva un tariffario che variava da paese a paese e in funzione delle prestazioni. In ogni caso, chi era iscritto all’elenco dei poveri era esentato dal pagamento di qualunque tariffa, prefigurandosi già la successiva assistenza delle persone indigenti, caratteristica del welfare moderno.

 

 

   
   
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