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Allora finibusterrae può essere nostalgia anche di cose
che non sono mai state, un luogo generato dal pensiero, la fantasticheria
di una controra, una sensazione di estraneità alla storia
e di appartenenza alla condizione del mito, può essere soltanto
uninvenzione letteraria realizzata attraverso un processo
di trasfigurazione.
Solo per esempio: due luoghi distanti tra loro; due autori diversi;
probabilmente la stessa trasfigurazione.
Pointe du Raz, estremità occidentale della Bretagna, dove
sinnalza la statua di Notre-Dame des Naufragés, è
uno dei due luoghi; lautore è Sylvia Plath; la poesia
sintitola
Finisterre. Dice di estreme dita della terra «nocchiute e
reumatiche, rattrappite sul nulla»; dice di visi dannegati
e neri dirupi, di ammasso di rocce e mare senza fondo che esplode,
e dello sguardo oltreconfine di Nostra Signora dei Naufraghi, che
non contempla ritorno.
Laltro luogo è quello di Vittorio Bodini, la sua Finibusterrae,
che genera un desiderio di deriva, che assiste a crolli di donne
in fuga e al vacillare del giorno nellincertezza del tempo,
limitare che accoglie il passo di un andirivieni tra la vita e la
morte.
Luno e laltro sono luoghi inesistenti. Sono figure del
pensiero che trasformano la presenza in assenza e lassenza
in materia, in corpo che resuscita nel fenomeno di una visione.
Sono luoghi della parola che da ogni parte confinano con altre parole.
La loro sostanza è fatta soltanto dal loro nome: finibusterrae.
È il nome che provoca la suggestione e lemozione, che
attrae lenergia della parola, che provoca il gesto della scrittura.
Perché la scrittura adora il movimento lungo gli argini frananti
o tra il pietrame di quelli già franati; predilige laggirarsi
tra i resti di città scomparse, per luoghi fantasmatici;
trova la sua condizione naturale sui luoghi di confine, ai limite
delle cose, alle frontiere della realtà e del senso; ricerca
e inventa o simula unesperienza di viaggio tra
i territori dellesistere e quelli del narrare.
La scrittura abita finibusterrae. Finibusterrae è la residenza
della scrittura. Finibusterrae è lorizzonte reale che
si allontana mentre lorizzonte disegnato dal racconto si fa
più vicino. È condizione dellillusione, della
visione, della metamorfosi e dellanamorfosi, della conoscenza
attraverso limmaginazione.
Non cè bisogno di unargomentazione né
della tangibilità di una prova per dimostrare che finibusterrae
è soltanto una parola. Sono quei luoghi stessi che vengono
identificati come finibusterrae da una geografia popolare che trova
le sue coordinate nelle stratificazioni dellimmaginario a
proporsi come argomentazione e come prova.
Quei luoghi, nella realtà, sono (forse sono diventati) comparabili
a qualsiasi altro luogo. Sono forse sono stati deprivati
dellunicità. Ora sono metafora di unesperienza
conoscitiva, la frontiera che richiama lo sguardo della scrittura.
Lo sguardo della scrittura, si sa, unisce e disintegra nella tensione
di scrutare lestremo, i paesaggi delle cose ultime, di sfrangiare
le forme, di trasfigurare: andare oltre la figura, al di là
di quello che appare, per giungere fino alla radice, per scoprire
il fango originario.
Allora ritorna la domanda. Ma dovè finibusterrae.
Si dice che qui, in Salento, finibusterrae sia quella terra che
prende il nome di Leuca. Un santuario. Un faro. Leuca oggi uguale
ad ogni altro luogo di mare, con un santuario e un faro.
Leuca oggi diversa, come ieri e domani, per il suo mito costruito
dalle incertezze della storia, dalle parole di chi la racconta,
dalle credenze che rifiutano il disvelamento del suo mistero, dalla
sua sostanza di motivo letterario luogo del pensiero.
Leuca che mostra, come dice Vittore Fiore, «secoli alla deriva»
sui dorsi dellonda, e navi precoci di morte, destini emersi
dagli scogli.
Il nome è unesplosione di bianco: il bianco della luce,
quello della schiuma del mare, il bianco di una purezza che non
vuole striature. Eppure anche il nome, di origine difficilmente
contestabile, diventa pretesto di dubitazione; si dice: e se invece
venisse dallarabo lug, che significa lume, o dallebraico
lun, che vale pernottare. È improbabile ma si dice, o si
è detto.
Perché Leuca come finibusterrae quasi pretende la confusione
determinata dallimprobabilità, dalla contaminazione
del significato, dalla continua ridefinizione, oscillazione, mutazione
dei suoi orizzonti di senso.
Davvero non importa se lorigine del nome sia greca, araba,
ebraica. Non importa se debba lesistenza a genti venute dalloriente,
da Creta, oppure alla Sirena Leucasia, o ai popoli fenici, o a Re
Idomeneo.
Importa, invece, lindeterminatezza di tutto quello che riguarda
Leuca, perché lindeterminatezza è lorigine
di finibusterrae, la sua natura, perché lincompiutezza
è il suo destino.
Allora dovè finibusterrae. Forse finibusterrae è
qualsiasi luogo che non rappresenta la fine di un viaggio ma la
potenzialità della sua continuazione, per altre vie: ignote.
Il mare è unaltra via. La scrittura è unaltra
via. Il mare è la via che non si conosce. La scrittura è
via che continuamente si dirama in tratturi sconosciuti.
Allora finibusterrae non esiste come finitezza, come confine insuperabile.
Finibusterrae è una soglia, un transito, un passaggio, una
stazione di posta, un cambio di cavallo, un faro che guida sia un
ritorno che una partenza. È un contrasto tra la parola che
contiene la conclusione e la natura che spinge alla continuazione.
Il nome, a finibusterrae, non è una conseguenza delle cose.
Probabilmente è (soprattutto) lesito di unastrazione.
Finibusterrae è il luogo che muove alla preghiera. Una preghiera
come questa:
Signora il cui santuario sta sul promontorio,
prega per tutti quelli che sono in mare,
quelli il cui mestiere è di pescare,
e quelli intenti ad ogni traffico legittimo
e quelli che li guidano.
Ripeti una preghiera anche per le
donne che han visto i loro mariti e i figli
partire e non tornare:
Figlia del tuo figlio,
Regina del Cielo.
Anche per quelli prega cherano in navi e
il viaggio finirono sulla sabbia,
del mare sulle labbra,
o nella gola oscura che non li renderà
o dovunque raggiungerli non può
leterno angelus
della campana del mare.
Sono parole umili di una preghiera popolare, nonostante il verso
dantesco che compare improvviso; parole di gente che ha appreso
lattesa paziente e rassegnata allaccadimento fatale.
Ogni immagine, verso, parola portano a Leuca. Così almeno
sembra. In realtà è una lirica di uno dei Quattro
quartetti di T.S. Eliot: I Dry Salvages, nella traduzione
di Filippo Donini. Unaltra finibusterrae: lontana.
Come esplicita Eliot nella nota dapertura, I Dry Salvages
sono un piccolo gruppo di scogli, con un faro, a nord est di Capo
Ann, Massachusset. Letteralmente vuol dire asciutti salvataggi:
riportare a riva qualcuno, salvarlo dal naufragio.
Allora finibusterrae è il luogo oltre il quale diventa possibile
(probabile) il naufragio.
È lorizzonte imperscrutabile, lincognita della
via per acqua, il punto di partenza per una navigazione senza bussola,
condizione dellambivalenza, discrimine confuso, esperienza
della smemoratezza, dello spaesamento, delloblio.
Finibusterrae è il luogo dove diventa urgente, ineludibile,
il confronto con la precarietà dellessere e dellesistere,
spazio dove il destino viene consegnato al fascio di luce di un
faro, tanto per un allontanamento quanto per un approdo.
Che cosa accade, infatti, se di nottetempo si spegne il faro che
segna finibusterrae? se gli occhi luminosi del nocchiero di quella
nave a terra si arrendono ad un sonno? Accade che colui che torna,
colui che parte, ha davanti a sé soltanto il tetro universo
dacque.
Di tutto questo sinnamora la scrittura: del naufragio, dellallontanamento,
dellapprodo insicuro, di un sentimento di deriva, delle rotte
delloblio, dello straniamento, del viaggio senza tempo, anche
dello sgomento per la vastità della tenebra.
A finibusterrae la scrittura può raggiungere la conoscenza
della provvisorietà, del transeunte, della meraviglia nascosta
nello scuro, della differenza tra noto e ignoto, dallo stordimento
davanti al vuoto assoluto.
La scrittura si muove lungo il ponte del Ciolo. Può orientare
lo sguardo verso una sponda oppure verso linsondabilità
dello sprofondo. Può scorrere lungo la costa, riflettersi
sui profili delle rocce, confrontarsi con i confini, lasciarsi distrarre
dalla possanza delle forme, farsi attrarre dalla vertigine degli
strapiombi.
Nella metafora della sospensione sul ponte del Ciolo, la scrittura
trova la condizione che costituisce la sua eterna aspirazione: quella
che rende impossibile ogni delimitazione, che attribuisce alla prospettiva
la valenza di una percezione.
Sul ponte del Ciolo, nella centralità della posizione nel
contesto di un luogo di confine (nella sostanza di questo contrasto
tra centro e confine), la scrittura si fa sintesi degli spazi esplorati
e inesplorati (forse anche di quelli inesplorabili), del lontano
e del vicino, annoda tutti i venti, trucca i punti cardinali, contempla
ogni possibilità di partenza e di ritorno, fa esperienza
dellimpossibilità di guardare, contemporaneamente,
la nuvola bianca e il nero del fondo.
Sente lansia di un faro: un contenuto, uno stile, un motivo
di racconto, un linguaggio che come il mare sia leggero e profondo,
una trama che stringa reale e irreale, un suono irripetibile, un
respiro ancestrale da rapire in un verso.
Allora dovè finibusterrae?
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