Marzo 2006

Viaggio ad occhi chiusi

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Ma dov’è
Finibusterrae
Antonio Errico
 
 

 

 

 

 

 

 

Allora finibusterrae può essere nostalgia anche di cose che non sono mai state, un luogo generato dal pensiero, la fantasticheria di una controra, una sensazione di estraneità alla storia e di appartenenza alla condizione del mito, può essere soltanto un’invenzione letteraria realizzata attraverso un processo di trasfigurazione.
Solo per esempio: due luoghi distanti tra loro; due autori diversi; probabilmente la stessa trasfigurazione.
Pointe du Raz, estremità occidentale della Bretagna, dove s’innalza la statua di Notre-Dame des Naufragés, è uno dei due luoghi; l’autore è Sylvia Plath; la poesia s’intitola
Finisterre. Dice di estreme dita della terra «nocchiute e reumatiche, rattrappite sul nulla»; dice di visi d’annegati e neri dirupi, di ammasso di rocce e mare senza fondo che esplode, e dello sguardo oltreconfine di Nostra Signora dei Naufraghi, che non contempla ritorno.
L’altro luogo è quello di Vittorio Bodini, la sua Finibusterrae, che genera un desiderio di deriva, che assiste a crolli di donne in fuga e al vacillare del giorno nell’incertezza del tempo, limitare che accoglie il passo di un andirivieni tra la vita e la morte.
L’uno e l’altro sono luoghi inesistenti. Sono figure del pensiero che trasformano la presenza in assenza e l’assenza in materia, in corpo che resuscita nel fenomeno di una visione. Sono luoghi della parola che da ogni parte confinano con altre parole. La loro sostanza è fatta soltanto dal loro nome: finibusterrae. È il nome che provoca la suggestione e l’emozione, che attrae l’energia della parola, che provoca il gesto della scrittura.
Perché la scrittura adora il movimento lungo gli argini frananti o tra il pietrame di quelli già franati; predilige l’aggirarsi tra i resti di città scomparse, per luoghi fantasmatici; trova la sua condizione naturale sui luoghi di confine, ai limite delle cose, alle frontiere della realtà e del senso; ricerca e inventa – o simula – un’esperienza di viaggio tra i territori dell’esistere e quelli del narrare.
La scrittura abita finibusterrae. Finibusterrae è la residenza della scrittura. Finibusterrae è l’orizzonte reale che si allontana mentre l’orizzonte disegnato dal racconto si fa più vicino. È condizione dell’illusione, della visione, della metamorfosi e dell’anamorfosi, della conoscenza attraverso l’immaginazione.
Non c’è bisogno di un’argomentazione né della tangibilità di una prova per dimostrare che finibusterrae è soltanto una parola. Sono quei luoghi stessi che vengono identificati come finibusterrae da una geografia popolare che trova le sue coordinate nelle stratificazioni dell’immaginario a proporsi come argomentazione e come prova.
Quei luoghi, nella realtà, sono (forse sono diventati) comparabili a qualsiasi altro luogo. Sono – forse sono stati – deprivati dell’unicità. Ora sono metafora di un’esperienza conoscitiva, la frontiera che richiama lo sguardo della scrittura.
Lo sguardo della scrittura, si sa, unisce e disintegra nella tensione di scrutare l’estremo, i paesaggi delle cose ultime, di sfrangiare le forme, di trasfigurare: andare oltre la figura, al di là di quello che appare, per giungere fino alla radice, per scoprire il fango originario.
Allora ritorna la domanda. Ma dov’è finibusterrae.
Si dice che qui, in Salento, finibusterrae sia quella terra che prende il nome di Leuca. Un santuario. Un faro. Leuca oggi uguale ad ogni altro luogo di mare, con un santuario e un faro.
Leuca oggi diversa, come ieri e domani, per il suo mito costruito dalle incertezze della storia, dalle parole di chi la racconta, dalle credenze che rifiutano il disvelamento del suo mistero, dalla sua sostanza di motivo letterario luogo del pensiero.
Leuca che mostra, come dice Vittore Fiore, «secoli alla deriva» sui dorsi dell’onda, e navi precoci di morte, destini emersi dagli scogli.
Il nome è un’esplosione di bianco: il bianco della luce, quello della schiuma del mare, il bianco di una purezza che non vuole striature. Eppure anche il nome, di origine difficilmente contestabile, diventa pretesto di dubitazione; si dice: e se invece venisse dall’arabo lug, che significa lume, o dall’ebraico lun, che vale pernottare. È improbabile ma si dice, o si è detto.
Perché Leuca come finibusterrae quasi pretende la confusione determinata dall’improbabilità, dalla contaminazione del significato, dalla continua ridefinizione, oscillazione, mutazione dei suoi orizzonti di senso.
Davvero non importa se l’origine del nome sia greca, araba, ebraica. Non importa se debba l’esistenza a genti venute dall’oriente, da Creta, oppure alla Sirena Leucasia, o ai popoli fenici, o a Re Idomeneo.
Importa, invece, l’indeterminatezza di tutto quello che riguarda Leuca, perché l’indeterminatezza è l’origine di finibusterrae, la sua natura, perché l’incompiutezza è il suo destino.
Allora dov’è finibusterrae. Forse finibusterrae è qualsiasi luogo che non rappresenta la fine di un viaggio ma la potenzialità della sua continuazione, per altre vie: ignote. Il mare è un’altra via. La scrittura è un’altra via. Il mare è la via che non si conosce. La scrittura è via che continuamente si dirama in tratturi sconosciuti.
Allora finibusterrae non esiste come finitezza, come confine insuperabile. Finibusterrae è una soglia, un transito, un passaggio, una stazione di posta, un cambio di cavallo, un faro che guida sia un ritorno che una partenza. È un contrasto tra la parola che contiene la conclusione e la natura che spinge alla continuazione.
Il nome, a finibusterrae, non è una conseguenza delle cose. Probabilmente è (soprattutto) l’esito di un’astrazione. Finibusterrae è il luogo che muove alla preghiera. Una preghiera come questa:
“Signora il cui santuario sta sul promontorio,
prega per tutti quelli che sono in mare,
quelli il cui mestiere è di pescare,
e quelli intenti ad ogni traffico legittimo
e quelli che li guidano.
Ripeti una preghiera anche per le
donne che han visto i loro mariti e i figli
partire e non tornare:
Figlia del tuo figlio,
Regina del Cielo.
Anche per quelli prega ch’erano in navi e
il viaggio finirono sulla sabbia,
del mare sulle labbra,
o nella gola oscura che non li renderà
o dovunque raggiungerli non può
l’eterno angelus
della campana del mare”.
Sono parole umili di una preghiera popolare, nonostante il verso dantesco che compare improvviso; parole di gente che ha appreso l’attesa paziente e rassegnata all’accadimento fatale.
Ogni immagine, verso, parola portano a Leuca. Così almeno sembra. In realtà è una lirica di uno dei Quattro quartetti di T.S. Eliot: “I Dry Salvages”, nella traduzione di Filippo Donini. Un’altra finibusterrae: lontana.
Come esplicita Eliot nella nota d’apertura, “I Dry Salvages” sono un piccolo gruppo di scogli, con un faro, a nord est di Capo Ann, Massachusset. Letteralmente vuol dire asciutti salvataggi: riportare a riva qualcuno, salvarlo dal naufragio.
Allora finibusterrae è il luogo oltre il quale diventa possibile (probabile) il naufragio.
È l’orizzonte imperscrutabile, l’incognita della via per acqua, il punto di partenza per una navigazione senza bussola, condizione dell’ambivalenza, discrimine confuso, esperienza della smemoratezza, dello spaesamento, dell’oblio.
Finibusterrae è il luogo dove diventa urgente, ineludibile, il confronto con la precarietà dell’essere e dell’esistere, spazio dove il destino viene consegnato al fascio di luce di un faro, tanto per un allontanamento quanto per un approdo.
Che cosa accade, infatti, se di nottetempo si spegne il faro che segna finibusterrae? se gli occhi luminosi del nocchiero di quella nave a terra si arrendono ad un sonno? Accade che colui che torna, colui che parte, ha davanti a sé soltanto il tetro universo d’acque.
Di tutto questo s’innamora la scrittura: del naufragio, dell’allontanamento, dell’approdo insicuro, di un sentimento di deriva, delle rotte dell’oblio, dello straniamento, del viaggio senza tempo, anche dello sgomento per la vastità della tenebra.
A finibusterrae la scrittura può raggiungere la conoscenza della provvisorietà, del transeunte, della meraviglia nascosta nello scuro, della differenza tra noto e ignoto, dallo stordimento davanti al vuoto assoluto.
La scrittura si muove lungo il ponte del Ciolo. Può orientare lo sguardo verso una sponda oppure verso l’insondabilità dello sprofondo. Può scorrere lungo la costa, riflettersi sui profili delle rocce, confrontarsi con i confini, lasciarsi distrarre dalla possanza delle forme, farsi attrarre dalla vertigine degli strapiombi.
Nella metafora della sospensione sul ponte del Ciolo, la scrittura trova la condizione che costituisce la sua eterna aspirazione: quella che rende impossibile ogni delimitazione, che attribuisce alla prospettiva la valenza di una percezione.
Sul ponte del Ciolo, nella centralità della posizione nel contesto di un luogo di confine (nella sostanza di questo contrasto tra centro e confine), la scrittura si fa sintesi degli spazi esplorati e inesplorati (forse anche di quelli inesplorabili), del lontano e del vicino, annoda tutti i venti, trucca i punti cardinali, contempla ogni possibilità di partenza e di ritorno, fa esperienza dell’impossibilità di guardare, contemporaneamente, la nuvola bianca e il nero del fondo.
Sente l’ansia di un faro: un contenuto, uno stile, un motivo di racconto, un linguaggio che come il mare sia leggero e profondo, una trama che stringa reale e irreale, un suono irripetibile, un respiro ancestrale da rapire in un verso.
Allora dov’è finibusterrae?

 

   
   
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