Marzo 2006

Francesco Lala e Vittorio bodini

Indietro
“Una lunga fedeltà”
Nicola Carducci
 
 

 

 

 

 

Sulla scorta
dei ricordi che
investono la figura dell’amico, Lala ridisegna un grosso segmento della vita
cittadina, ne
risuscita profili umani, ne risente usi, umori
e impressioni, quasi di una Lecce del “buon tempo antico”.

 

L’amicizia tra Francesco Lala e Vittorio Bodini, rafforzata anche dai comuni interessi letterari, risale ai tempi della giovinezza, all’epoca della “Vedetta Mediterranea” (1941-1943), e tale che neppure la divergenza ideologico-politica, dovuta a nefaste circostanze, riuscì ad incrinare. Perciò, quando in un’edizioncina milanese fu pubblicata La luna dei Borboni (La Meridiana, 1952), Bodini ne fece dono a Lala, a Luciano De Rosa, a Giacinto Spagnoletti, che furono i primi a scriverne.
La recensione di Lala uscì su “L’Italia che scrive” (1 gennaio 1953), cui si son poi succeduti altri interventi, ben cinque, in varie sedi, cosicché, a metterli tutti insieme e darli alle stampe in un volumetto, costituirebbero una non irrilevante monografia, nel novero dei numerosi altri studi venuti dopo. Diamone l’elenco: Testi di Bodini dalla formazione a “Metamor”, 1914-1979 (Arti grafiche, Lecce 1982, pp. 3-17); Bodini tra biografia e memoria, 1914-1944 (in “Sudpuglia”, n. 4, dicembre 1986, pp. 161-168); Gli anni ruggenti di Bodini (in “Sallentum”, gennaio-dicembre 1986, pp. 181-193); Bodini tra giovinezza e maturità, 1950-1962 (in “Studi Salentini”, fasc. LXIII-LXIV, 1986-1987, pp. 159-164); Testimonianze e figure della letteratura salentina (Conversazione tenuta nell’estate 1993, nell’Associazione “Lecce Nostra”; relative a Bodini, pp. 52-60).
È fin troppo risaputo che i testi più significativi di un autore, siano essi poetici siano essi narrativi, al cui valore è poi affidata la sua fama nel tempo, non nascono ex abrupto, per un lampo d’improvvisa genialità, ma affondano le radici nel processo di una formazione più o meno lento o tumultuoso, che a sua volta è venuto alimentandosi di umori diversi, di linfe di varia provenienza, di esperienze le più difformi e imprevedibili. Concorre anche l’umanità dello scrittore con i suoi percorsi esistenziali, con l’ideologia che subisce o reagisce alla logica degli eventi, con gli ineluttabili condizionamenti della memoria. Per una valutazione della poesia di Bodini, da La luna dei Borboni a Dopo la luna, a Metamor, Francesco Lala si propone di fare luce sull’underground intricato, contraddittorio, complesso della figura di Vittorio, risalendo alla “preistoria” artistica e intellettuale.

Era da sempre nota l’irrequietezza picaresca di Bodini, e non solo nella cerchia degli amici e sodali. Le sue periodiche apparizioni nella città che lo aveva visto crescere all’ombra protettiva del nonno Pietro Marti, in seguito alla prematura morte del padre, costituivano un avvenimento per i leccesi; anche perché, come accade, l’immagine dell’uomo stravagante non dispiaceva all’accigliata austerità del poeta. La preistoria coincide – scrive Lala nel saggio del 1982 (“Testi di Bodini dalla formazione a Metamor”) – con la davvero breve infatuazione futurista, che percorre l’anno 1932 e i primi mesi del 1933. Bodini (nato nel 1914) varcava la soglia dell’adolescenza e irrompeva, pugnace più che mai, nella stagione della giovinezza, quando «era tutto sole il suo pensiero» (per usare la bella metafora carducciana). Lala, con puntuali riscontri testuali, non ravvisa di apprezzabile, nell’esperienza cursoria del marinettismo, altro che «una più pregnante virulenza fantastico-lirica». E questa, sì, è più costitutiva, innata, in Bodini che realmente ascrivibile al verbo futurista, la cui adesione, tenendo presente la triste fanciullezza dell’uomo, assume più una valenza ideologica che in toto letteraria: essa è in funzione inconscia di strumentale polemica, non tanto contro fatui ideali di passatismo, quanto contro stratificate convenzioni sociali, ipocrisie stucchevoli, secolarmente perpetrate ai margini della monumentalità barocca («Un frenetico gioco / dell’anima che ha paura / del tempo, / moltiplica figure, / si difende / da un cielo troppo chiaro [...] / e come per scommessa / un carnevale di pietra / simula in mille guise l’infinito» - Lecce in Dopo la luna). Da sottolineare la strumentalità polemica alla luce delle radicali posizioni di dissenso rispetto alla tradizione letteraria per una “poesia nuova”, di presenza e non più di “assenza”, sul terreno che gli è più proprio, ma non meno alla luce dei suoi atteggiamenti politici sul terreno dell’intellettuale impegnato: basta ricordare gli Appunti di un volontario mancato, in quattro puntate su “Libera Voce”, dal 20 dicembre 1943 al 18 gennaio 1944. E poi, è da escludere che Bodini, già autore di scritti rivelatori di acuto senso critico, non si rendesse conto che il futurismo quale indirizzo poetico era morto e sepolto. Tant’è che, prosegue Lala,
Nel gruppetto di sette liriche tra il 9 ottobre del ‘32 e il 26 febbraio del successivo, il modello non è più l’arte di Marinetti, ma piuttosto talune esperienze metriche di verso libero tra D’Annunzio delle Stirpi canore e Vittorio Locchi della Sagra di Santa Gorizia, ma più ancora, quanto ai contenuti, talune brevi visioni di Corrado Govoni [...], di Aldo Palazzeschi [...], di Paolo Buzzi [...], e comunque di chi al futurismo ha aderito senza molta convinzione o con qualche reminiscenza crepuscolare. Ma vivo è anche il segno di Giuseppe Ungaretti, di cui, proprio nel 1932, si pubblica L’allegria.

Per il quale ultimo, trascriviamo, con Lala, i versicoli di Cammino:

 

Il mio sogno
dolcemente
conduco
per mano,
lontano;
come da una lucente
vetrina
una bambina grama.

Resta però un dato inconfutabile: il sicuro possesso degli strumenti espressivi, di natura linguistica, figurativa e metrica, acquisito dal Bodini del ‘32 e ‘33.
Altro nucleo critico del discorso di Lala consiste nel ridimensionamento del grado d’incidenza dell’ermetismo fiorentino nella poetica di La luna dei Borboni, tanto esigua da offrire speciosi argomenti a Oreste Macrì di un presunto “tradimento” di Bodini, non a caso abbinato a Salvatore Quasimodo. Ridiamo la parola a Lala:
Uscita da una esperienza di intenso e talvolta alto esercizio, la lirica italiana era giunta alla guerra con il segno dell’impoverimento. Dalle validissime esperienze di Ungaretti, di Saba, di Montale si arriva al rabesco raffinato del “primo” Luzi, al pallore esanime di Parronchi, all’esercizio di Bigongiari. Per destinata simmetria, a un mattino chiaro pareva succedere uno scialbo tramonto. La seconda triade diveniva esemplare d’una stagione morta, con l’eccezione irripetibile di Cesare Pavese e del suo Lavorare stanca [...]. Le poesie della Luna dei Borboni, dal ‘39 al ‘41 [...] e dal ‘50 al ‘51, nascono dunque da un clima fitto di echi di poesia.
Nei tre momenti diversi, qui segnalati da Lala (“Vecchi versi”, 1; “Vecchi versi”, 2 e “Foglie di tabacco”, “La luna dei Borboni”), Vittorio Bodini risale ad accenti in cui vibra «un gusto del surreale strettamente legato a un senso umano delle cose»; gusto che ci riporta «a un clima nuovo, dai tocchi lorchiani, tanto vivi nel poeta salentino, come attesta l’amore che lo lega come traduttore allo Spagnolo».
Ma l’idolo polemico resta chi ha mosso l’accusa di “tradimento”, chi ha scambiato la “formazione fiorentina”, che ha lasciato in Bodini «questo sì – l’amore per la ricerca espressivo-lessicale, con qualcosa di essenziale o di ineliminabile». Ciò perché – prosegue Lala – i versi di Vittorio sono certo una summa di esperienze [...], ma da esse balza vivo un continuum, almeno nelle sue cose più durevoli, che nel Sud e nell’Europa ha i suoi nuclei d’ispirazione: «Il Sud ci fu padre – e nostra madre l’Europa». Su questo continuum dello svolgimento identitario della personalità artistica e intellettuale di Bodini, il punto di forza si rinviene nella clamorosa Risposta a Macrì (in “L’Esperienza poetica”, numero 3-4, luglio-dicembre 1954), della quale Lala riporta alcuni passaggi tra i più argomentativi e asseverativi:

  Non è certo la prima volta che questo critico dal cui acuto intelletto avremmo avuto il diritto di aspettarci ben altro che confusione, scambia per verità la comodità dialettica, deplorevolmente sordo per costume a ogni contraddizione e pronto ad arrampicarsi velocemente su tutte le tangenti che sia dato di escogitare per allontanarsi dal semplice centro umano dei sentimenti,  

che Bodini invece rivendica come proprio della sua generazione, che ha dato anche Penna, Sinisgalli e Sereni. L’abbaglio di Macrì (in “Letteratura”, n. 8-9, 1954), il critico della fenomenologia metafisica, rovesciava i reali termini del provincialismo, che non era quello che si anniderebbe nel programma di “L’Esperienza poetica”, bensì «quello della nuova arcadia, dell’antro pastorale fiorentino», come lo battezzava Quasimodo. Nel brano che segue, Bodini allude a sue esperienze anteriori «di paesi e mestieri», che rendevano dunque marginale oltre che tardiva la sua adesione all’ermetismo, spoglia secca per lui: «Spettava alle voci più mature e autorevoli denunziare il dissidio e procurare di vincerlo [...], con una nuova dialettica del sentimento o dichiarando il proprio fallimento», perché l’anno 1943 non era un anno come tutti gli altri e che perciò impediva il ritorno «ai vecchi giochi»; per concludere, con una punta risentita di orgoglio generazionale: «Siamo cresciuti: abbiamo sentito nuove sollecitazioni di poesia, vagheggiato climi culturali che ormai rispecchiassero l’esperienza da cui venivamo e le nuove esigenze sorte in noi». È così catturante il piglio intelligentemente polemico deltesto bodiniano che Lala non sa ometterne le battute finali:

  Se Macrì non si fosse assunto il compito di fare il cane da pastore del gregge ermetico, inseguendo e abbaiando contro chi pecora non è, e ha diritto a seguitare la propria strada, avrebbe potuto accorgersi di quanto fosse naturale e coerente in Quasimodo il trapasso dalla pietà pei suoi oggetti a una partecipazione umana che vale assai più delle squallide bandiere della Assenza, segnate persino dai venti.  

E Lala chiude con il rammarico che della «umorosa passione del poeta pugliese [...] la critica ha in genere tenuto ben scarso conto, laddove essa sarebbe servita a chiarire tante cose».
Proseguendo nell’itinerario poetico di Bodini, se ne afferma la fedeltà nel movimento con la raccolta Metamor (1962-‘66), «tra lindore classico e sentimento esistenziale, tra vaga modernità e specificità surrealista», alla ricerca di temi nuovi, cosmopolitici, non più regionalistici, ma con la persistenza del “poetare”, del “filosofare”, dell’“interrogare” del Bodini di sempre. Questo contributo di Lala alla storia della critica bodiniana è ancor più prezioso perché interamente giocato su un’intensa, pregnante memoria personale, convalidata da inobliati contesti testuali dell’opera di Bodini. Memoria personale ancor più importante per la rivisitazione dell’uomo Bodini, e talvolta del “personaggio” Bodini, mediante l’intrecciarsi e il succedersi dei ricordi, sia nati dal rapporto diretto sia collegati alle voci, alle impressioni, alle opinioni circolanti nel capoluogo salentino intorno alla figura del picaro, mezzo italiano, mezzo spagnolo ma totalmente salentino nella forma mentis.
Lo scarto anagrafico tra Vittorio Bodini e Francesco Lala è di soli cinque anni esatti, essendo l’uno nato il 6 gennaio 1914 e l’altro il 2 gennaio 1919, ma questa condizione favorisce il fermentare mnemonico dell’autore dello scritto Bodini tra biografia e memoria (1914-‘44), che propriamente non è un saggio critico, ma suggestivamente un testo narrativo e ben calibrato sul binario di vite per un lungo tratto parallele. Non manca, perciò, questo intervento bodiniano di Lala, di fremiti proustiani, nel combinare la propria “memoria” con la “biografia” dell’amico; con punte di commozione e di rimpianti, per la sua sparizione dalla scena della vita, amaramente prematura: Bodini muore il 19 dicembre 1970.
La rivisitazione per anamnesi comprende l’infanzia, dolorosissima, la giovinezza «rissosa e generosa», la prima maturità, allo sbocciare di un Bodini «cambiato», il cui spirito polemico è divenuto «sorridente ironia». Al tempo stesso, sulla scorta dei ricordi che investono la figura dell’amico, Lala ridisegna un grosso segmento della vita cittadina, ne risuscita profili umani, ne risente usi, umori e impressioni, quasi di una Lecce del «buon tempo antico», quale lo stesso Bodini viene nostalgicamente tratteggiando nel suo romanzo incompiuto Il fiore dell’amicizia; ma senza esitare ad abbozzare anche, nelle linee caratteriali salienti, gli archetipi di un impigrito milieu di provincia, che farà esclamare a Bodini: «Quando tornai al mio paese nel Sud, / io mi sentivo morire» (Foglie di tabacco, 4). Un milieu, che non risparmia il paesaggio, riguardato «con gli occhi incerti fra il sorriso e il pianto», nelle più o meno periodiche riapparizioni dell’eterno fuggiasco, tra Firenze e la sua città, tra la Spagna e il Salento, tra Roma e il vivaio del barocco:

 

Qui non vorrei morire dove vivere
mi tocca, mio paese,
così sgradito da doverti amare;
lento piano dove la luce pare
di carne cruda
e il nespolo va e viene tra noi e l’inverno

(in La luna dei Borboni, 8)

 


«Ciò che incise più profondamente – è l’avvio del racconto di Lala – e definitivamente nell’animo di Vittorio Bodini fu la prematura perdita del padre quando il piccolo non aveva ancora compiuto i tre anni, e il conseguente vuoto, il senso d’angoscia esistenziale, l’atmosfera di dolore e di pianto, la figura della madre nell’abito nero, tutto conservato nel tempo»: un quadro desolato che sarà poi oggetto di rievocazione narrativa nei due racconti autobiografici Largo dei Teatini e La Stregoneria (il corredo delle note in fondo riferisce i relativi elementi bibliografici, riguardo anche agli altri fatti contenuti nello scritto di Lala). Ma la sorte avversa non desiste e torna a colpire il diciannovenne Vittorio, con la perdita del nonno Pietro Marti, che almeno sino al 1933 aveva colmato l’assenza paterna. Gli eccessi temperamentali di Vittorio, ormai solo con se stesso esistenzialmente, traggono origine naturale, quasi ineluttabile da questi eventi. Non è stato uno scolaro brillante al “Palmieri”, anche se si è già rivelato scrittore di un certo talento: a conclusione dell’anno scolastico 1930-‘31 – ricorda Lala – aveva pubblicato, primissima palestra, “Lo Studente” (numero unico di 70 pagine in 8° stampato dalla tipografia “La Modernissima” di Lecce); «la rivistina andò a ruba e fu molto commentata a causa della piccola fama, tra gli studenti del liceo “Palmieri”, del rissoso e generoso giovane». In verità troppo rissoso se, nello stesso 1933, l’anno della perdita del nonno, viene espulso dal “Palmieri” per un diverbio con il suo professore di latino e greco e la conseguente «formidabile scazzottatura con il compagno che lo aveva accusato». Questa l’amara chiosa dell’amico: «Non vi era in tutto questo l’ombra dell’assenza, la rabbia contro un destino di ragazzo privato d’improvviso della guida paterna?».

Il grande dolore, peraltro, può determinare svolte nella più sensibile psiche umana, risvegliando un più acuto sensus sui. Quando lo rivedono tutti in città, ancora una volta, nell’autunno del ‘40, dopo la “fuga” nel ‘35 ad Asti, nel ‘36 a Domodossola (doveva pur sbarcare il lunario) e nel ‘37 a Firenze, gli studenti del “Palmieri” lo salutano affettuosamente: non è più il compagno di scuola «rissoso», non è più lo stravagante Futurbodini, è ormai un uomo, con una bella laurea in tasca (sulla Teoria dell’incivilimento in Gian Domenico Romagnoli), conosce Montale che gli ha spianato la strada per pubblicare sue liriche sulla rivista di Bonsanti, “Letteratura”, frequenta le “Giubbe rosse” e il caffè San Marco a Firenze, dove ha anche incontrato un amore che sperava non fugace, per l’inglese Isobel Gerson («Isobel dalle braccia d’olio e al polso / il braccialetto con le bandiere d’Europa, / come ti piacerebbe, se fossi qui, / essere inghirlandata con ghirlande / di pomodori rossi», in La luna dei Borboni, 2); «dove ha visto Benedetto Croce e ne ha letto alcuni libri, sempre in un clima fortemente idealistico e spiritualistico» (V.B. Ricordi di un Caffè Bigio, in “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 18 dicembre 1943). Si è anche, per tempo, così scaltrito nella scrittura, assecondato dal nonno, infilzando versi e rimasticando prosette per “Vecchio e nuovo” e “La voce del Salento” fra il 1932 e il 1933, come sappiamo, che Ernesto Alvino lo chiama a lavorare per una pagina culturale di “Vedetta Mediterranea”, sulla quale, dal n. 1 al n. 12 del 1941, pubblica suoi studi su Joyce, Poe e Kafka, poesie e traduzioni da scrittori spagnoli, oltre ad una polemica, con la rivista di Bottai, “Primato”, sugli ermetici (Per scongiurato pericolo). Insomma, dal rovinio degli avvenimenti, la rottura con Alvino, fascista della prima ora, lo scoppio della guerra e il generale sbandamento delle coscienze, avvertito di più in provincia, rimbalza fuori un altro Bodini. Scrive l’amico:

 

Domina l’immagine mitica di Benedetto Croce e del suo splendido isolamento; essi non giungono, tuttavia, alla non accettazione. Il fenomeno è abbastanza largo tra chi si apre ad una cultura europea, non limitata da anguste visioni, con letture di Freud, Kafka, Proust, oltre naturalmente quelle italiane di Ungaretti, Montale, Campana, Svevo, De Ruggiero, ecc. La sorte di Vittorio Bodini è quella di avere aderito alla “moda” futurista, senza esserlo del tutto, all’ermetismo rimanendo tuttavia in una sfera meno assoluta e “pura” intrisa di sana e magica provincialità. Tali i suoi rapporti politici; e ciò per il suo scostante ed invincibile distacco critico con cui egli si accostava ad ogni idea o cosa. In lui era prevalente il giudizio estetico-morale, anche quando si interessava di politica. Ma è da precisare subito che in Bodini gli interessi politici – sempre compresenti con quelli letterari e artistici – presero forza solo nel periodo 1943-1947.

 

Per tutte queste circostanze, in provincia, Bodini rappresenta un ineludibile richiamo letterario e a lui si rivolgono esordienti e aspiranti artisti o critici, dallo stesso Lala a Luciano De Rosa a Vittorio Pagano, per citare i nomi che, poi, lasceranno anch’essi un’impronta nella cultura salentina.
E chiudo con la ribadita fisionomia dell’uomo:

 

Nonostante il suo comportamentale quadro biografico, con gli amici, in genere non ebbe motivi di rottura: si mostrava disponibile all’incontro, alla passeggiata, alla conversazione. Preferiva circondarsi di elementi della media borghesia e del ceto piccolo-borghese, non simpatizzando per chi, per censo o rendite, mostrasse una vacua superiorità; del resto l’alta borghesia salentina, ai suoi tempi, era, salvo eccezioni, immersa nell’indifferenza per gli aspetti culturali [...]. Tutto sommato, il motivo di differenziazione tra la disponibilità verso gli amici, da un lato, e un suo certo rigore di rapporti nel versante culturale-letterario derivava da una sua concezione morale dell’intellettuale e della funzione esemplare di questi.

 


Si è già accennato al “personaggio” che, imprevedibilmente, rispunta dall’uomo, a qualche sua stravaganza di bohémien, la quale, peraltro, più che offuscare l’immagine del poeta, ne fa risaltare l’aureola. La ricerca dell’eros è perseguita «come salvataggio esistenziale», ma può anche trascinare a eccessi narcisistici, per occupare da soli la scena. A riguardo così evoca Lala:
Ci torna nella memoria il poeta del ‘43-‘44 con l’inseparabile amica (Giulia Massari) per le vie di Lecce, coppia un po’ stravagante con un pizzico di separatezza, il cagnolino di Giulia tocco indispensabile [...]. Ogni giorno si vedeva passare – dopo il suo ritorno da Firenze – Bodini con Giulia, che gli cingeva il braccio, verso le quattordici, attraverso l’antica piazza [...] in direzione di via Ascanio Grandi [...], e di lì verso le “Scalze”, nel cui rione aveva una stanza in affitto. Era il tempo di una pausa esistenziale [...], durante la quale seguiva il sogno gozzaniano del vivere di vita, ridiventato cittadino anonimo.
È in via De Angelis (che ora ha assunto altro nome), via malfamata e degradata, ma cara, nel ricordo, al poeta, sino al rimpianto. Gli ha ispirato una poesia di intensa carica sentimentale e umana:

 

La paraffina, diva del deschetto
credevo che il tuo cuore fosse di molle cera
e un secchio d’acqua scura dove stanno
a mollo le tomaie, mi salutano,
e il rosso dei pomodori,
il nero
dalla cantina dei carboni. Via
senza eguali come mi canti in cuore,
e come son cresciute
le piccole figlie di puttana
che un tempo vedevo spidocchiare
con rare raucedini dalle madri
nei momenti liberi [...].
Mi guidavi lo sguardo per ogni porta
per ogni vita altrui;
ho abitato
in ogni numero civico della via
con tutti
con le rondini
coi vecchi che muoiono all’alba
in una verde luce d’acquario
con quelli che sloggiano
portandosi coi mobili sul carretto
i vetri della finestra
e l’albero di limone del cortile.

 


Un Umberto Saba, si riscopre nel sangue, il poeta de La luna dei Borboni; il rione delle “Scalze” vale il “Borgo” del poeta triestino:

 

Fu come un vano
sospiro
il desiderio improvviso d’uscire
da me stesso, di vivere la vita
di tutti
d’essere come tutti
gli uomini di tutti
i giorni (in “Cuor morituro”).

 


Francesco Lala insiste nel suo ritratto en plein air; non trascura l’insegnante Bodini al liceo “Colonna” di Galatina, dove ebbe scolaro Donato Moro e collega Ottorino Specchia, che hanno poi affidato alla carta stampata incancellabili impressioni, dell’anticonformista con punte eccentriche, sia nella didattica che nel rapporto con gli alunni; «solitario e cortese», avverso al regime (tra il ‘41 e il ‘42), di un’avversione «persuasiva perché nasceva da urgenze umane e culturali, poetiche» (Donato Moro, in “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 19 gennaio 1971).
Appunto con l’immagine dell’anticonformista si apre l’altro scritto bodiniano di Lala Gli anni ruggenti di Bodini: ruggenti creativamente, operativamente su vari versanti della sua attività letteraria, intellettuale e politica. Ha letto e riletto Benedetto Croce, e la sua ostilità al fascismo è inizialmente di natura morale e culturale, ossia di stampo crociano, e si adopera come può per far risorgere a Lecce “Argomenti”, la rivista di idee di Alberto Carocci, perché è convinto che i valori di libertà e di democrazia si propugnano sul terreno delle idee, dai bastioni di una letteratura rinnovata. Si può parlare di un poeta-politico? Si domanda Lala riflettendo sulle considerazioni in proposito di Fabio Grassi, nella Introduzione all’antologia di scritti civili di Bodini (I fiori e le spade). E la sua opinione è che la poesia e la politica si muovono su orbite naturalmente diverse, se pur, oggettivamente, non divergenti.
Ma è invece lecito sostenere la politicità di taluni atteggiamenti pubblici di Bodini, assunti più visibilmente alla caduta del fascismo, il 26 luglio 1943; ad esempio, organizzando manifestazioni di sfida al decreto di Badoglio; simpatizzando col movimento di Giustizia e Libertà; tentando di arruolarsi, volontario, al seguito del generale Pavoni, e contribuire di persona alla Liberazione a fianco degli anglo-americani (ne nacquero gli Appunti di un volontario mancato); partecipando da cronista spregiudicato alle drammatiche giornate dell’Arneo, e ne trae materia per due reportages, da pubblicare nel settimanale milanese “Omnibus”, diretto da Giovanni Titta Rosa: L’aeroplano fa guerra ai contadini (4 febbraio 1951) e L’arneide, ultimo atto (20 maggio 1951). Lala, sull’argomento, conclude con il pensiero di Luciano De Rosa, che puntualizza: «Bodini, pur letteratissimo, rifiutò costantemente l’immagine del letterato puro, e niente della vita gli fu estraneo [...] tanto meno la politica» (Bodini politico, in “L’Albero”, XXXVII, 70, luglio-dicembre 1983-1985).
Nello scritto di Lala, del quale ci stiamo qui occupando, in relazione alle prove narrative di Bodini, che siano i servizi dalla Spagna o i racconti più o meno autobiografici o di immaginazione, tre dati a me sembrano di particolare interesse: la rilevazione dell’analogia marcata da Bodini, tra l’anima iberica e l’anima del Mezzogiorno d’Italia; le forti suggestioni proustiane nella stesura dei racconti più scopertamente autobiografici (da Restauri, poi col titolo Largo dei Teatini, a La Stregoneria a La coscienza di Antina); e l’influenza gogoliano-brancatiana per testi come Il gobbo Rosario e Sei-Dita, non senza venature realistiche di ascendenza rosselliniana. «Con Bodini – conclude Lala – la satira delle manie e del velleitarismo si è trasferita nella sua terra [...]; la mentalità e il costume della provincia meridionale [sono] rivisitati con compiaciuta ripudiante ironia [...]. Il binomio letteratura e vita, essenza della personalità bodiniana, è così ad una nuova prova»: l’impegno pubblico nell’interesse della collettività. Ma già nel 1945, nell’articolo Cultura sottovetro (in “Domenica”, 26 marzo), «aveva stilato il suo proposito esistenziale, aveva preso le distanze da quella strana cosa [...] che è la [...] cultura in assoluto, pura senza determinazioni e senza determinazioni pratiche» (Questo articolo, come gli altri or ora citati, nella antologia a cura di Fabio Grassi, I fiori e le spade, pp. 161-164).
Per risalire alla “lunga fedeltà”, giova questa annotazione di Lala: «Chi scrive, troppo minore d’età per avvicinarlo al tempo del “Palmieri”, gli si era accostato una sera del maggio ‘41: fu allora che ebbe inizio un rapporto umano che doveva terminare solo con la fine del poeta» (in Bodini tra biografia e memoria: 1914-‘44, p. 166). Il racconto biografico bodiniano di Lala, che siamo sin qui venuti illustrando, resta contributo essenziale nella storia della critica del poeta salentino: non c’è scritto di lui che Lala non abbia conosciuto e studiato e sul quale non abbia espresso sue valutazioni. Va perciò anche messo in conto il “privilegio” di un’amicizia che lo ha reso tempestivo osservatore dei vari tempi e mutamenti dell’itinerario artistico e culturale del poeta, dell’uomo e dell’intellettuale Bodini. Lo attesta, ancora una volta, l’altro studio di Lala Bodini tra giovinezza e maturità, che copre gli anni 1950-1962, periodo non esaustivamente esplorato sinora dall’amico; fervido di creatività poetica e pubblicistica, da La luna a Dopo la luna e ai numerosi scritti civili e di costume, disseminati tra giornali e periodici; e in misura impressionante, di attività traduttoria da autori spagnoli di prima grandezza, Lorca (il Teatro) e Cervantes (il Don Chisciotte), Gongora e Quevedo, Salinas e i surrealisti, sempre corredando di ampi saggi introduttivi, tra i quali, con il sigillo accademico, Segni e simboli nella Vida es sueño di Calderón de la Barca. Centrale, poi, per la storia della poesia italiana del dopoguerra, com’è noto, la rivista “L’Esperienza poetica”, con la vigile collaborazione di Luciano De Rosa (1954-1956), nata anche questa nella stanzetta presa in affitto in via De Angelis, «dove appunto dagli inizi degli anni Cinquanta Bodini si è sistemato per farne la sua fucina».
Tra i vari “pezzi” giornalistici, Lala dà particolare risalto a La Puglia contro Pietro Micca (uscito sul quotidiano di Roma “Il Tempo”, 6 dicembre 1952), per «l’eccezionale verve che l’anima», sin dal titolo «tutto bodiniano, barocco e surrealista». Cediamo la parola a Lala: «Si tratta di una visita a Otranto, e in particolare alla sua Cattedrale, dove sono custodite, visibili in grandi contenitori di vetro, le reliquie dei martiri dell’incursione turca di Maometto II, avvenuta nel 1480. Nel centro del pavimento, campeggia uno stupendo mosaico del XI secolo». Si accompagna con Bodini, riprendiamo riassumendo il seguito, un avvocato del luogo, che esprime il suo indignato stupore che nei libri scolastici di storia si conceda spazio a Pietro Micca e al Tiremm innanz di Amatore Sciesa e si taccia invece sui «dodicimila otrantini che immolarono la loro vita salvando l’Italia e la Religione dall’invasione turca». Lo zelo dell’avvocato è irrefrenabile: promuove con altri l’Associazione Nazionale Pro Otranto, con i 50 articoli del suo Statuto, che prevedono «assemblee, sindaci, probiviri, tesseramenti, tesoreria», ma, replica Bodini, «l’unica cosa non prevista è l’estrema inattendibilità che vi sia in un qualsiasi comune d’Italia (Otranto compresa) gente disposta a tesserarsi e a costituire sezioni per il conseguimento di scopi come un film sui Martiri di Otranto e il riconoscimento della loro importanza nei testi scolastici di storia».
In Puglia è dunque scoppiata la «rivolta contro la Storia d’Italia», è l’esilarante suggello a siffatta municipalistica rivendicazione in pieno Novecento. Certo, gioca anche la nota insofferenza bodiniana per ogni forma di retorica dei sentimenti e degli ideali, per il suo nativo spirito critico; in questo caso ancor di più irritato dalla ibrida mescolanza di verosimile e di immaginario, oltre che dal mal dissimulato disegno di smungere «i milioni della Cassa del Mezzogiorno» per l’occasione.
Per chiudere anche noi, riportiamo un passo della “Conversazione tenuta nell’estate 1993 nell’Associazione Lecce Nostra”, espunto dalle pagine qui dedicate a Bodini:
L’ultimo casuale incontro nel centro di Lecce, durante il quale rammemorammo le nostre due riviste, L’Esperienza poetica e Il Campo, da tanti anni cessate, come per rinverdire un passato ormai definitivamente perduto. Ci fu dato di pensare alla vicinanza ideale di quelle esperienze, che nascevano dalla comune matrice del bisogno di nuovi orientamenti, sulle ceneri del vecchio ermetismo. Era giunto nella sua città prediletta, già consapevole della sua irrimediabile fine (che avverrà a Roma il 19 dicembre 1970).

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2006