Marzo 2006

Italiani emigrati-scrittori in america

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Made in Little Italies
Ada Provenzano - Massimo Morri - Antonella Francisci
 
 

 

 

 

 

Gli italiani che
discendono da quegli antichi morti di fame
approdati sui lidi americani hanno cambiato pelle.

 

È stato scritto che la tradizione di un Paese e di una cultura sta in ciò che nel Paese di quella cultura si fa. Sta, però, anche in ciò che ne viene elaborato e prodotto altrove; e questo è estremamente importante, in modo particolare per un Paese come l’Italia, la cui identità è tanto (e spesso a capriccio) discussa, e che invece anche nella storia degli italiani fuori d’Italia trova molteplici conferme.

L’opera di Francesco Durante, intitolata Italoamericana, (in due volumi, pubblicati a distanza di qualche anno uno dall’altro), parte dagli inizi, vale a dire dal momento in cui degli italiani hanno scritto negli Stati Uniti qualche cosa di letterario degno di nota, e incomincia con Filippo Mazzei: ben noto alle cronache dell’Illuminismo, Mazzei si recò in America, prese parte alla rivoluzione, (addirittura ispirò in parte la Dichiarazione di Indipendenza) e ne fu testimone e attento resocontista in Europa. L’antologista ne riporta alcuni brani dalle Memorie, che rivelano una vena felicissima di scrittore; ed è, questa, soltanto la prima di moltissime altre simili “scoperte”, che messe insieme finiscono per formare un mosaico ampio, articolato, e per molti aspetti originale.
La raccolta prosegue con quelli che, andati negli Stati Uniti d’America negli anni del nostro Risorgimento, vi scoprirono realtà inconsuete al Vecchio Mondo, e ne trassero materia per pagine di cui ora è disponibile un’ampia scelta. E i nomi sono frequentemente di prim’ordine anche nella prospettiva italiana (citiamo, fra gli altri, quelli di Barsotti, Gallenga, Maroncelli), o addirittura europea (basti il grande librettista di Mozart, Lorenzo da Ponte: che in realtà si chiamava Emanuele Conegliano, nome ebraico della famiglia).
C’è chi ritiene discutibile il fatto che l’antologista ritenga questi degli scrittori “italo-americani”, con trattino o, come usa Durante, senza trattino. Perché sarebbe da ritenerli piuttosto, e a pieno titolo, per lo più, italiani in America, dei quali rimangono caratterizzanti i legami con la madrepatria. Oppure sono ritenuti spiriti avventurosi, al modo di quel Leonetto Cipriani, un bonapartista che partecipò alla spedizione francese in terra algerina nel 1830, rapì un’odalisca dall’harem del Bey, e in terra americana tentò di tutto, dalle speculazioni edilizie nel territorio di New York all’avventura nel Far West. Oppure come quel Di Rudio, il quale, dopo aver attentato alla vita dell’imperatore francese Napoleone III, insieme con lo sfortunato Felice Orsini, (a Parigi, nel 1858), si rifugiò negli Stati Uniti, si arruolò e combatté con Custer a Little Big Horn nel 1876. Oppure come quel Charlie Angelo Siringo, più pistolero che patriota, ma autore di A Texas Boy (1885), uno dei primissimi best-seller della letteratura sul Far West, visto che ebbe diverse edizioni e diffusione sull’intero territorio americano, vendendo ben un milione di copie.
Sembra fuor di dubbio che sia stata la grande immigrazione, quella che contribuì alla nascita delle varie Little Italies negli States, a disegnarci con maggior chiarezza la dimensione più propria e più coinvolgente, e ad aver generato e nutrito gli scrittori davvero italoamericani (e italo-americani) di cui ci stiamo occupando. È proprio qui, infatti, che le scoperte si infittiscono e risaltano con maggiore evidenza. Così è per quel Bernardino Ciambelli, autore di voluminosi romanzi di appendice o a fascicoli, scritti in italiano (come I misteri di Mulberry Street), non eccessivamente rispettosi della grammatica e poco disciplinati per lo stile, ma ricchi di descrizioni e di cose interessanti, al punto che è stato ritenuto una sorta di via di mezzo tra Eugène Sue e Francesco Mastriani, anche se molto meno letterato dell’uno e dell’altro.

Così è per quel Carlo Tresca, che per il suo anarchismo venne assassinato e che John Dos Passos ritenne perfettamente ispirato ai valori americani: autore di scritti e di “pezzi” per la maggior parte dei casi giornalistici, ma anche di drammi fieramente antifascisti. Così è per diversi poeti, che offrono una viva idea di ciò che a certi livelli è una poesia italiana: come Antonio Calitri, autore di Canti del Nord-America (edito nel 1925), onorati di una prefazione di Prezzolini; o come Arturo Giovannitti, di cui The Walker (del 1912) venne giudicato da Kreymborg superiore alla Ballata dal carcere di Reading, di Wilde. Ed è proprio grazie a questi autori che si capisce molto meglio la fioritura (tardiva, ma significativa) di un John Fante (il cui Chiedi alla polvere era giudicato da Charles Bukowski come sua personale palestra letteraria), e amplissima, ma meno meritata, di Mario Puzo, e in genere di tutti gli autori (molto minori) che hanno sfruttato il filone “nero”, quello della criminalità organizzata (non soltanto italiana), per i loro scritti d’appendice, in non pochi casi sfruttati da Hollywood.
Dobbiamo intenderci. Le scoperte che le nuove esplorazioni hanno effettuato in questi ultimissimi anni non possono proporre alcun grande capolavoro ignorato o emarginato. E tuttavia esse dicono che il quasi deserto delle scritture italoamericane canonizzato nei giudizi decisamente negativi di un Prezzolini o di un Emilio Cecchi è, al contrario, un paesaggio molto animato, molto variegato, con scorci e prospettive di notevole interesse sia dal côté americano sia da quello italiano. E ciò tanto più, quanto quella che queste pagine di scrittori italiani al di là dell’Atlantico non è solo ed esclusivamente una questione letteraria. Non include solo un giudizio estetico o contenutistico. Non si ferma all’analisi formale dei versi. È anche, e forse soprattutto, la storia dell’emigrazione italiana nel suo faticoso inserimento, delle sue lotte politiche e sociali sia americane che italiane (vivacissima quella tra fascisti e antifascisti), della sua parabola culturale (dall’iniziale provincialismo e subalternità, fino ai recentissimi “apocalittici e integrati”), di qualche suo eccidio (a New Orleans nel 1891, a Tallulah nel 1899, prima che diventasse tanto celebre la criminalità dei padrini). In altre parole, si rivela in tutta la sua ampiezza e in tutte le sue articolazioni la vita civile, in una vicenda italoamericana quanto americana e italiana.

Per tutto questo, la raccolta antologica è davvero meritoria, e offre l’attrattiva di tantissime pagine di scritture povere, ma molto frequentemente schiette e vive nel loro nascere al di fuori di contesti letterari precisi, obbligati, organici. E la lettura complessiva dimostra anche come non sia affatto vero che di tutto questo pulviscolo di scritture nulla o pochissimo sia destinato a rimanere, a sopravvivere. Perfino quando si leggono alcuni versi del pugliese (di Castellaneta) e poi hollywoodiano Rodolfo Valentino e si insinua il dubbio (a ragione, però, respinto) che a scriverli sia stato qualche suo originale e creativo “press agent”, a scopo pubblicitario.
Ad una ricognizione critica più attenta, si scopre senza ombra di dubbio che il più matto di tutti fu Bernardino Ciambelli, che era capace di scrivere nel breve giro di una sola notte un drammone di cinque atti. Come era fatto Ciambelli lo rivelano subito i titoli delle sue opere: I misteri di Mulberry Street, già citato, e poi Amore, lussuria e morte ovvero il processo di Antonio Bianco, La Bella Biellese ovvero il mistero di Columbus Avenue... Nato a Lucca nel 1862 e morto a New York nel 1931, Ciambelli fu romanziere specializzato in feuilleton, commediografo e anche giornalista, anzi fu il reporter per antonomasia di Little Italy e, tra le altre cose, teneva una rubrica sul Progresso italo-americano che raccontava tutto quello che accadeva nella colonia italo-americana, e dove ogni notizia era introdotta da un simbolo grafico: il simbolo del cervo segnalava, per esempio, le storie di corna.
Francesco Durante, come ha osservato D’Orrico, ha dedicato anni ed energie a ricostruire la grande avventura dell’emigrazione italiana in America sotto il profilo letterario. Dopo avere scoperto, tradotto e pubblicato in Italia John Fante, egli si chiese che cosa ci fosse alle spalle di quel ragguardevole scrittore (e anche alle spalle di Mario Puzo, di Guy Talese, e di tanti altri). «È stata una follia (cose da medaglia d’oro), alla fine della quale Durante ha dissotterrato un mondo intero, fatto di giornali (tantissimi, non solo il Progresso, e vitalissimi, polemicissimi), di cronisti, di commediografi, di poeti, di giallisti, di leader politici, di gangster».
A proposito di questi ultimi, brilla la stella di Scarface, vale a dire Al Capone, che rilascia interviste con l’ufficialità di un capo di Stato: «Domani me ne vado a St. Petersburg, Florida. Che i ricchi di Chicago si procurino come meglio possono i loro alcolici. Io sono stufo di questo lavoro: nessuno che ti ringrazi. Me ne vengono soltanto un sacco di pene... L’altro giorno è venuto qui un tizio e ha detto che gli dovevo dare tremila dollari. Se glieli davo, ha detto, avrebbe fatto di me il beneficiario di una polizza d’assicurazione da quindicimila dollari, l’avrebbe stipulata e poi si sarebbe ammazzato. Ho dovuto farlo buttar fuori. Oggi mi è arrivata una lettera da una donna in Inghilterra. Perfino laggiù ho fama da gorilla. Quella si è offerta di pagarmi un passaggio per Londra se le uccidevo certi vicini con i quali ha litigato...».
Ma qui non si tratta di fare colore locale, la storia delle Little Italies è una storia sofferta e ancora in grandissima parte da capire. Quello che è certo è che ci furono scrittori capaci di raccontarla, capaci di riflettere sulle differenze culturali tra Vecchio e Nuovo Mondo.
Scavo esaurito? Tutt’altro, è dato credere. Ci devono essere filoni che ancora non è stato possibile esplorare, e altri che non sono entrati nel circuito della conoscenza perché ritenuti minori, ma che insieme formano una storia di mille storie, un fiume di mille rivoli che una volta o l’altra dovrà pur rivelare i suoi camminamenti carsici e risalire in superficie. È la brutta storia degli italiani emigrati in America: non solo quella gangsteristica, che narrativa e cinema hanno rappresentato (sia pure con approssimazione storica) ampiamente, ma anche quella delle tragedie di cui furono vittime i nostri emigrati. E ci si riferisce alle sciagure minerarie che cancellarono tanti italiani, scomparsi nelle viscere della terra; ma soprattutto alle persecuzioni razziali, che per un lungo periodo videro gli italiani in cima all’elenco delle “tribù selvagge” sbarcate dall’Europa in suolo americano. Non per nulla il sogno di chi svolge ricerche in questo campo, e in quello letterario e scientifico, è quello della creazione di un istituto, di un centro, insomma di un grande museo o archivio dell’emigrazione, capace di far vivere per sempre quell’epopea che resta il più rilevante fatto di tutta la nostra storia, dai giorni del Risorgimento agli anni Cinquanta del secolo scorso. Chi ha visitato, col cuore stretto, il museo di Ellis Island, angusta porta d’ingresso dei nostri (e di altri) emigrati per New York, può immaginare che cosa potrebbe essere il corrispettivo italiano.
C’è, in Italia, qualche traccia (ma si tratta di testimonianze sparse e quasi disperse) che riguarda l’emigrazione. Si tratta, in genere, di piccole raccolte epistolari, limitate tuttavia a corrispondenti partiti da paesi e villaggi (del Piemonte, della Lombardia, del Triveneto, inizialmente; poi di tutto il Sud, isole comprese), con le cerimonie degli addii, per la certezza di non tornare mai più nei luoghi d’origine. Ed è materiale di grande interesse storico, oltre che antropologico, mai organicamente raccolto, anche perché edito in tirature limitate e in circostanze disparate.
Infine, ci sono le «lettere mai scritte», e dunque mai pervenute. Si sa che le regioni più povere erano percorse da personaggi che offrivano viaggi a basso costo per le Americhe, dove si sarebbe fatta subito fortuna, perché il Nuovo Mondo aveva ricchezze illimitate e offriva grandi possibilità di lavoro. Partivano, gli esuli volontari della fame, espulsi dai campi, dalle botteghe artigiane che non garantivano più neanche la sopravvivenza, dalla disoccupazione endemica. E di tanti di costoro non si sapeva più nulla. Viaggiavano su bare galleggianti, che a volte colavano a picco alla prima tempesta, portando in fondo al mare centinaia di vite, spegnendo non solo le speranze di chi emigrava, ma persino la loro identità, e i segni della loro esistenza. Di queste vittime non si sapeva più nulla. Chi era rimasto in Italia pensava che il marito, il padre, il fratello emigrato fosse stato colpito da improvvisa amnesia, da un oblio che cancellava i vecchi ricordi, e i nomi dei familiari, dei parenti, degli amici, dei paesi... Ma non vedove bianche, erano le spose ignare del destino dei mariti, bensì vedove a lutto vero, e orfani reali, anche se inconsapevoli: mai una lettera pervenuta, mai una cartolina, una foto... L’America maledetta smemorava, rapiva, svaporava vite, scioglieva vincoli, annullava amori, disconosceva doveri. L’America, quella cercata e mai raggiunta, rimasta profilo di sogno in un orizzonte mai valicato.
Con Mario Puzo e con la saga del suo Good Father che adombrava fin troppo palesemente le vicende vissute dai personaggi che facevano parte del cartello del crimine della famiglia Gambino, una delle cinque “grandi famiglie” mafiose di New York, (le altre erano quelle dei Lucchese, dei Genovese, dei Colombo e dei Bonanno), la narrativa italoamericana divenne tout court americana, cioè s’integrò con quel tipo di letteratura che era destinata quasi preventivamente a trasformarsi in materia prima del cinema. Già all’epoca di Puzo, comunque, si era svegliato l’interesse per gli autori sopraggiunti dalla Penisola, alcuni dei quali avevano scritto pagine drammatiche sul “passaggio” attraverso la cruna dell’isola che fronteggiava New York: là dove, prima d’ogni altra cosa, si era sottoposti ad una visita medica selezionatrice (niente malati cronici, niente portatori di malattie infettive, niente storpi, niente omosessuali...). Sicché poteva accadere che alcune famiglie venissero irrimediabilmente divise, con i “non abili” costretti a restare nell’isola, fino a quando potevano reimbarcarsi per l’Italia.
Ellis Island, dunque, divenne alla fine per gli Stati Uniti una sorta di “terra del rimorso”, al punto che in anni recenti, cessata la pratica di “scarto” degli esseri umani “difettosi”, è stata trasformata in un unico, gigantesco museo dell’immigrazione, con documenti autografi di tanti esseri umani lì giunti e da lì respinti, con una sorta di crestomazia della disperazione che non ha uguali al mondo.
Anche per questo si può dire che buona parte della storia dei nostri immigrati, e degli scrittori che si rivelarono in terra americana, è ancora in attesa di più articolate, profonde esplorazioni. Perché è vero che (insieme con quella irlandese ed ebrea) è stata la mafia italiana a scrivere pagine terribili oltre Atlantico; ma è anche vero che (la storia di Sacco e Vanzetti insegna) l’America esercitò sui nostri connazionali tutta la ferocia di cui poteva essere capace il mondo wasp, giungendo a dare in alcune aree, soprattutto dell’Ovest, la caccia agli italiani, ritenuti carne da forca per pregiudizio e per sommaria definizione.
Oggi, le Little Italies sono in fase di dissolvimento, divorate dalle Chinatown che erano contigue e che non hanno mai smesso di espandersi; così come i discendenti di quegli immigrati, mafiosi e persone per bene, fuorilegge e onesti lavoratori, perfettamente integrati nella società americana, non formano più cartelli, non trafficano più in stupefacenti o in armi, non sono più una piaga della società statunitense. Per costoro si sono spalancate le porte della politica, della ricerca scientifica privata, delle università, del management, delle grandi banche, delle istituzioni internazionali attive in terra statunitense. Gli italiani che discendono da quegli antichi morti di fame approdati sui lidi americani dopo uno o due mesi di avventurosa navigazione hanno completamente cambiato pelle. Sono ormai tra i protagonisti dello sviluppo della società. L’America non è più amara. Non è più un miraggio. È la porta della casa accanto.

 

   
   
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