Marzo 2006

IL CORSIVO

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Il teatro
dell’oscurantismo
Aldo Bello
 
 
 

 

 

 

 

 

 

Dir bene degli americani? Dio ne scampi. Ho provato ad esprimere quel che pensavo (che penso) in proposito, e subito insieme con i complimenti sono giunti i rimbrotti. Ma come, con i marines in Iraq? Sì, con i marines in Iraq. I quali hanno disarcionato Saddam Hussein, togliendogli dai fondelli il petrolio, col quale aveva finanziato i terrorismi interno ed esterno e aveva instaurato una satrapia familiare violenta e sanguinaria. Con i marines in Iraq: e con gli iracheni che per la prima volta nella loro storia hanno votato. Sono andati alle urne tutti, sciiti, curdi, persino i sunniti. E la stampa nostrana, compresi alcuni di coloro i quali amichevolmente mi hanno rimproverato di essere “troppo filoamericano” (il che francamente non è), che cosa ha fatto? Ha messo su il consueto teatro dei pupi, commentando la vicenda “all’italiana”, cioè tirando fuori, nell’ordine: che però ricordiamoci del Vietnam; che non va dimenticato neanche l’Afghanistan; che Marilyn Monroe era in ogni caso una gran baldracca; che c’era stato il Watergate; che a suo tempo Kofi Annan recalcitrava; che il presidente americano George Bush è come Stalin (folgorante intuizione di Vittorio Zucconi, figlio dell’incolpevole Guglielmo, pubblicata su “Repubblica”); che guai a dimenticare le prigioni di Abu Grahib; che il Ku Klux Klan fu in ogni caso una tragedia sanguinosa; che Toro Seduto e Nuvola Rossa vennero trucidati sappiamo bene da chi; che Marilyn, a pensarci bene, era molto più puttana di quanto si pensasse appena sopra; che i film americani stanno strangolando – ma va’? – il genio tutto nostrano e tutto girotondi di Nanni Moretti; che in un modo o nell’altro «questa America sta infettando le democrazie minori, che scimmiottano l’America» (sempre Zucconi-pensiero, ibidem); che altro ancora, a cura della penna all’arsenico di Andrea Marcenaro.

Risultante del ragionamento dell’insolente corsivista: Camillo Benso ha perso la battaglia. Cercò di amalgamare teste di piemontesi, lombardi, toscani, papalini, borboni, mafiosi, gondolieri, pastori e briganti sotto un’unica etichetta: – Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani –. Sarebbe stato geniale. Ma lo statista aveva trascurato un dettaglio: che essendo l’Italia popolata di Zucconi, avrebbero fatto prima gli iracheni a ricostruire l’Iraq che noi a praticare un buco per la Tav.
Già, la Tav. Come concepirla, quando si ha a che fare con un popolo glocal? Nel senso che noi siamo un popolo che viaggia molto, e che, al ritorno dalle escursioni planetarie, amiamo raccontare. E diciamo di aver visto ponti lunghi chilometri che saldano la Danimarca alla Svezia e alle isole vicine, o che ancorano varie aree del Giappone e diverse zone di metropoli americane; di aver preso treni veloci che ci hanno portato sotto la Manica, da Londra a Parigi, in men che si dica; che ci siamo arrampicati fino all’ultimo piano dei grattacieli di Shanghai, di Kuala Lumpur, di Sydney; di aver viaggiato nelle metropolitane di New York, di Londra, di Parigi, di Mosca; di aver scoperto ad Amsterdam un inceneritore realizzato come una moderna scultura, a pochi chilometri dal centro urbano; di aver fruito senza alcuna fatica dei parcheggi sotterranei di Barcellona e di Madrid, nelle cui strade è vietato sostare; di aver preso i battelli fluviali ad Oporto, passando sotto i proverbiali “sette ponti” a duplice piano, stradale e ferroviario, che scavalcano i fiumi portoghesi; di essere passati indenni accanto alle centrali nucleari produttrici di energia che a due passi dalle Alpi, in Francia e in Svizzera, non offendono alcun paesaggio, garantiscono elettricità, esportano da noi materia prima, introitano valuta.
Una volta strabiliati gli ascoltatori, svanita l’“ebbrezza del viaggiatore”, si torna ad essere italiani, vale a dire abitanti della Val di Susa, quindi contrari ai treni veloci per il trasporto di merci e passeggeri; di Reggio Calabria e di Messina, e di conseguenza contrari al Ponte sullo Stretto; di Bologna, e dunque nemici accaniti della metropolitana; di Civitavecchia, e pertanto contrari alla centrale dell’Enel; di Brindisi o di Monfalcone, e perciò ostili ai gassificatori che consentirebbero di importare gas via nave; della Campania, della Puglia e della Basilicata, dunque contrari agli impianti che utilizzerebbero i rifiuti locali (sbaraccati ad alto costo altrove) per produrre energia; della Sardegna e di diverse zone appenniniche della Penisola, dunque contrari agli impianti eolici da installare nelle fasce ventose per la maggior parte dell’anno; di questa o quell’altra regione italiana, perciò testardamente restii ad accettare la costruzione o la ristrutturazione di autostrade, e figuriamoci l’installazione di campi profughi, anche se poi carità pelosa ci porta alla “politica dell’accoglienza” indiscriminata. E via di seguito.
La mappa dei “no” è sterminata e scoraggia chiunque, pubblico o privato, tenti di metter mano alla costruzione di opere e infrastrutture. Sebbene nessuno neghi l’esistenza di un deficit in questo campo, che è uno degli elementi principali del differenziale di crescita e di qualità del nostro Paese rispetto ad altri: parola di Chicco Testa, il quale si chiede come mai accada questo in un’Italia che è nel cuore del Mediterraneo, e ritiene di avere la risposta giusta.

Nella maggior parte dei casi – sostiene – le opposizioni sembrano motivate da ragioni ambientali, nel senso che l’ambiente è spesso il filo conduttore e l’infrastruttura che unifica, nel tentativo di nobilitarli, i tanti “no”. Ma basta un’analisi appena approfondita per rendersi conto che nella maggior parte dei casi non ci troviamo di fronte ad opere sconclusionate o meramente speculative, come spesso è accaduto nel passato: da molte di esse, al contrario, potrebbe derivare un netto miglioramento ambientale. Ferrovie e metropolitane tolgono spazio a camion, autovetture e aerei. I termocombustori eliminano centinaia di discariche, molte delle quali abusive o possedute dalle “ecomafie”. Le moderne centrali elettriche possono sostituire i più inquinanti impianti di vecchia generazione. E l’effetto serra, sommato alla crescente richiesta di energia da parte dell’India, della Cina e del Brasile, sta rendendo pressoché inevitabile il ricorso all’energia nucleare.
Si dice: per realizzare le grandi infrastrutture è necessario il consenso della gente. Ma quale gente? I corridoi europei della Tav fanno parte di accordi internazionali. Sono necessari agli italiani, ma anche ai francesi e agli altri popoli verso l’Est, fino agli ungheresi e agli ucraini. Domanda: è giusto che una valle decida per italiani, francesi, ungheresi e ucraini? Una città per un impianto energetico che serve tutta l’Italia? Un quartiere per la metropolitana di un’intera città? Non è giusto, ma è così, nell’Italia oscurantista dei nostri giorni. Sicché, agli svantaggi economici che derivano dalle prese di posizione negative, si aggiunge la “sindrome Banana” (“Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything”, non costruire assolutamente nulla in nessun posto vicino a niente). E c’è dell’altro.
Sostiene l’ex presidente dell’Enel che «ci sono anche la responsabilità di classi dirigenti che non sanno fare il loro mestiere, la vicinanza sempre sospetta del mondo politico al mondo delle imprese, i mille conflitti di interesse, la furbizia tutta italiana con cui si pensa di aggirare i problemi, i progetti mal fatti, le procedure poco trasparenti». O forse siamo semplicemente tutti prigionieri di una stessa malattia: il pessimismo generato dall’oscurantismo. Non esiste, da noi, una visione del futuro sufficientemente motivante, tale da indurci ad assumere dei rischi, a sacrificare qualche cosa oggi, per scommettere sul domani. A noi il futuro sembra carico solo di incertezze e di pericoli, una cosa dalla quale proteggerci, sulla quale non sbilanciarsi, scommettendoci sopra. È l’indole italica, trita miscela di individualismo e di furbizia, di “callido particulare”, con scarsa considerazione per il bene comune.
Altra sindrome, in proposito. La chiamano “Nimby”, acronimo che sta per “Not In My Backyard”, non nel mio giardino. Sicché dietro l’Italia che dice “no” a tutto ciò che sa di modernità e di innovazione non c’è soltanto il peso di una cultura monopolista e consociativa che la fa da padrona; c’è anche l’altro fronte di resistenza, quello che non nega che certe opere siano necessarie, ma riesce a trovare comunque un “argomento dislocante”: il posto non giusto, il progetto un po’ invecchiato, la tecnologia migliorabile, le dimensioni ingrandite o ridotte. E a rotazione intervengono amministratori, politici, esperti, sindacalisti, in anticipo magari su una magistratura nelle sue diverse articolazioni, penale, civile, amministrativa, contabile, costretta a fare il suo dovere. Così i tempi si allungano, le attività vengono sospese, gli uffici lavorano su un nulla che non può che culminare nel nulla. È arcinota storia italiana. Altrove, dove per il bene del Paese decide un’autorità centrale (sì, nella vituperata America, ma anche in Francia, in Inghilterra, in Spagna, in Irlanda, in Portogallo), le reti infrastrutturali crescono, e insieme crescono la competitività, la convenienza per gli investimenti esteri, l’occupazione, il prodotto interno lordo, i salari e gli stipendi. Da noi restano i privilegi delle lobbies, le opposizioni dei monopolisti, gli espedienti delle culture isolazioniste. Gran vuoto lasciato dalla mancata realizzazione della grande infrastruttura mentale che ci avrebbe “fatto tutti italiani”. Non ha perso soltanto Cavour. Abbiamo perso tutti, e per questo ci consideriamo tutt’al più contigui, parenti molto alla lontana, forse anche di grado remoto, perciò appena reciprocamente tollerabili. Altro che ponti e Mose e nastri d’asfalto. Siamo coloro i quali accettano Malagrotta, la più grande discarica d’Europa, subito fuori Roma, e negano il rigassificatore. Altrove, il flautista di Hamelin. Da noi, la protezione delle pantegane!
C’entra, tutto questo, con l’America? C’entra sicuramente. Noi sappiamo che i no global, i no Tav, i no Ponte, e tutti gli innumerevoli “no qualcosa” che, sommati insieme, sono solo una minoranza assoluta, ancorché violenta, si dichiarano nemici del sistema capitalistico e borghese, sposando ogni tesi ambientalista contraria alla tecnologia e alle infrastrutture. E in qualche modo, com’è stato notato, costoro sembrano riecheggiare, sia pure inconsapevolmente, filoni del nazionalsocialismo tedesco che odiavano gli inquinatori e le macchine, amavano gli animali, proibivano il fumo e intanto gasavano ebrei, rom e omosessuali.
Costoro non sono braccio operativo di nessuno, non sono filiazioni di potenze o servizi stranieri, ma rappresentano una grigia linea di confine sulla quale si attestano con il loro estremismo, con le intemperanze giovanili che includono l’uso della spranga e la teoria dello scontro come modo di agire politico. Costoro sono emersi sulla scia di movimenti nati in America: a Seattle, per quanto riguarda i nostri giorni; nel campus di Berkeley, ai tempi della guerra nel Vietnam. Molto si distrusse allora, perché sfido chiunque a dimostrare che il Sessantotto abbia costruito qualcosa di positivo, e niente si vuole realizzare oggi; violenza diffusa ci fu allora, altrettanta violenza c’è oggi. La specificità italiana è determinata dall’uso della violenza abbinata all’uso del vittimismo.
Si prenda il caso del deputato Borghezio, il leghista malmenato e minacciato di morte per defenestrazione su un treno pieno di quegli ultrà domenicali che non pagano biglietti e devastano le vetture, tanto pagano sempre i cittadini comuni. Ebbene: non è che sia particolarmente affezionato alla Lega; ma non riesco ad accettare l’inqualificabile atteggiamento di una parte della stampa, che è riuscita a trasformare, con un collaudato gioco di artifici ideologici, la vittima in carnefice. Alla fine, per queste penne cialtrone, Borghezio «se l’è cercata». Perché? Presto detto: è sufficiente scorrere l’elenco delle colpe del leghista, (eccessi verbali, enfasi, insulti a terroni ed extracomunitari, mal riusciti tentativi di satira, e via dicendo), per giustificare la brutale, inevitabile “lezione”. È lo stesso schema di chi vuole vedere le cose solo in un certo modo. Ed è il combinato disposto della violenza diffusa dei “no tutto” che, con la complicità furba (aggettivo di moda, in questi ultimi tempi) di alcuni giornali, mette a rischio la legalità e lascia la verità alla mercé della strumentalizzazione politica, provocando devastazioni che sono organiche al declino, non al rafforzamento della democrazia.
La differenza è nel fatto che l’America odiata da costoro assorbe e supera le contestazioni, e le travolge «irrompendo ogni giorno nel presente»; mentre da noi incombe «un passato che non passa mai», che condiziona, che si fa alibi di tutti i rancori e di tutti i livori, che reclama lo scontro in nome di impossibili rivincite. Ora, è fuori discussione che un po’ di spirito di frontiera è penetrato nelle nostre vene ed è in circolo nel corpo della nazione: non possiamo condannarci ad una vita bucolica, non possiamo trasformare il Paese in un’antistorica Arcadia, scienza e tecnica contaminano, e finiscono col prevalere, anche se i tempi si faranno lunghi, anche se i costi finiranno per essere maggiori, anche se dalle colonne di alcuni quotidiani accanitamente manichei emergeranno gli svicolamenti critici, le deviazioni strumentali dei discorsi, e in ultima analisi la malafede delle penne che per se stesse riservano un’unica libertà, quella di essere servili.
Allora è scontato che la Tav si farà, si faranno anche lavori di miglioramento dei percorsi autostradali; e si spera che non tramonti il progetto del Ponte sullo Stretto, che fra l’altro rappresenterebbe il miglior biglietto da visita per illustrare le capacità e l’originalità del lavoro italiano. Solo che noi dovremo convivere in qualche modo con i “no futuro”, quelli abitualmente in gita familiare fuori porta, e quelli meno depensanti che sono esperti in intifade ravvicinate con le forze dell’ordine, per loro lungo esercizio e per nostra stolta tolleranza. Si dice che, per esempio, al posto del Ponte ci dovrebbero costruire strade e ammodernare ferrovie. Che è come indicare col dito la luna: il cretino vede solo il dito. Il Ponte provoca indotto, comuni, province e Regioni devono predisporre le infrastrutture complementari, intanto limitando gli sperperi, (che sono ovunque all’ordine del giorno), e poi facendosi finanziare dallo Stato e da Bruxelles. Accade in Spagna, o in Irlanda. Perché da noi non può verificarsi? Perché è comunque tanto meglio, se le cose vanno tanto peggio? A proposito: cresce la percentuale dei “no lavoro”, cioè degli italiani che vorrebbero rinunciare a qualsiasi attività lavorativa. Domanda per capire: per far sopravvivere quanti di costoro dovranno lavorare i miei figli?
Ma forse la domanda è un’altra: non è che l’Italia sta anticipando i tempi? Cioè: non è che nel duro confronto tra materialità e spiritualità, che contraddistingue i comportamenti antropologici di questi nostri tempi, da noi si profila il sopravvento di un afflato religioso e di un bisogno di assoluto tipico di una società post-cristiana, a scapito del know how professionale, dell’operatività attiva e realizzatrice, dei segni strutturali fisici che contraddistinguono un’epoca e una società?
Facciamo un esempio basato su un paragone verificabile con l’odiosamata Francia, con cui siamo legati da una “cuginanza” reciprocamente maldicente per conflitti storici e culturali mai sopiti. Bene: la Francia è un Paese straordinariamente dinamico. Nell’ultimo mezzo secolo ha realizzato il Secam, uno dei primi sistemi di tv a colori; ha costruito una corona di centrali nucleari che la mette al riparo dai ricatti delle potenze energetiche; ha il sistema europeo più efficiente e più rapido di collegamenti ferroviari; ha linee aeree che raggiungono tutti i continenti e ha sviluppato un’industria aeronautica di prim’ordine; con il Minitel ha creato, prima ancora di Internet, una rete urbana di comunicazioni integrata per informazioni, prenotazioni e acquisti; ha costruito, con la Gran Bretagna, il tunnel sotto la Manica; ha coinvolto i partner europei in una coraggiosa politica spaziale, lanciando fra l’altro il sistema di navigazione satellitare Galileo, voluto dall’allora Capo dello Stato, Mitterrand. E passando al campo più strettamente culturale: ha realizzato una rete di case della cultura e di teatri popolari che copre l’intero territorio, la nuova Biblioteca Nazionale di Parigi, l’ampliamento del Louvre; insieme con la Germania, ha avviato il motore di ricerca europeo “Quaero”, con il quale contrasta l’oligopolio americano di “Google” e di “Yahoo”.
Nello stesso periodo che cosa abbiamo fatto noi italiani? Avevamo un’industria aeronautica e siamo diventati subappaltatori degli americani; avevamo un’avanzata tecnologia nucleare, che ci annoverava tra i primi del mondo, e l’abbiamo soffocata nella culla; avevamo un’industria elettronica e l’abbiamo sostituita con una valanga di telefonini costruiti altrove; avevamo una compagnia di bandiera aerea che ci portava ovunque, e adesso siamo costretti a passare da Francoforte, da Parigi o da Madrid, per recarci in Cina o in America Latina. Mentre Parigi realizzava le sue grandi infrastrutture, a Roma ci si accapigliava sulle barriere nella laguna veneziana, sulle varianti di valico, sulle pedemontane, sui ponti, sui treni veloci. Mentre Parigi inaugurava il Grande Louvre, noi non riuscivamo ancora ad ottenere che il Circolo delle Forze Armate lasciasse una volta per tutte Palazzo Barberini, per consentire alla nostra Capitale di avere finalmente una grande Galleria d’Arte.
I francesi proseguono con l’ambizione di essere i primi nel Vecchio Continente; noi perseguiamo solo ed esclusivamente il nostro particulare. Fatto di crescente alienazione al rischio e al lavoro e di un’intermittente ricerca di un Senso, cioè di un’alta ragione di vita, ma rivolta ad una sola direzione: la dimensione interiore vissuta trasversalmente, in una sorta di bricolage delle religioni e di “filosofie” che somiglia a un neopaganesimo ibrido e onnicomprensivo, remoto dalla serenità umbratile dei chiostri, dalla pace delle chiese di campagna, dal misticismo-ponte verso l’infinito delle cattedrali.

È così. Non vogliamo vedere quel che fiorisce intorno a noi, appena al di là delle Alpi, dopo aver destrutturato quel poco che avevamo costruito, con determinazione suicida contestiamo il pochissimo che si progetta. In compenso, o come alibi freudiano, ci rifugiamo nel mondo astratto della speculazione metafisica, volendola applicare all’etica immanente, alla nuda terrestrità, mentre non conosciamo nemmeno Tommaso d’Aquino né Agostino di Tagaste. Sicché, intonsi e accidiosi, arretriamo nel futuro: tragici spiriti anticipatori, avendo intuito che al declino della civiltà occidentale succederà il predominio dei Paesi a sviluppo veloce dell’ex Terzo Mondo; o tragico popolo marginale, cacciato nella periferia planetaria da un’arrogante neghittosità impastata con residui di ideologiche servitù. Produciamo rovine e le chiamiamo compatibilità, vocazioni, scelte.
In realtà, sono rifiuto di un moderno Rinascimento.

 

   
   
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