Marzo 2006

Giovani e mezzogiorno

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La questione del lavoro
Fulvio Dobici
 
 
 

 

 

 

 

Da una ventina d’anni a questa parte, non solo
in Italia, ma un po’ dovunque,
le donne sono
all’avanguardia
in quasi tutti i
settori.

 

Quando si parla di declino, se non di vera e propria decadenza dell’Italia, oppure di ritardo rispetto agli altri Paesi europei, vengono citati spesso il tasso di crescita del Prodotto interno lordo, l’inflazione, il debito pubblico, le spese in ricerca e sviluppo, i tassi di scolarizzazione. Molto meno spesso si ricorda un’altra dimensione sulla quale il nostro Paese è terribilmente indietro rispetto al resto del Vecchio Continente: il tasso di occupazione femminile.
Su questo aspetto siamo all’ultimo posto in Europa, preceduti persino dalla Grecia, dalla Spagna e dal Portogallo. Se l’Italia si ponesse come obiettivo di raggiungere il tasso di occupazione dell’Europa a Dodici (quella dell’area euro), le basterebbero 300 mila posti di lavoro maschili in più, ma le occorrerebbero ben due milioni di nuovi posti di lavoro femminili, in massima parte concentrati nelle regioni centro-meridionali e nelle Isole, e in più lieve misura anche nell’Italia del Nord-Ovest: soltanto quella del Nord-Est ha già oggi un tasso di occupazione femminile europeo.

È curioso che fra i grandi temi dell’agenda politica quello dell’occupazione femminile riceva una così scarsa attenzione da parte della maggior parte delle forze politiche. Chi denuncia continuamente (e giustamente) il fatto che tante famiglie, dopo l’introduzione dell’euro, non riescano ad “arrivare alla fine del mese”, dovrebbe forse assegnare una priorità più alta all’obiettivo della piena occupazione femminile. Intanto, perché un maggior numero di donne occupate implicherebbe un “reddito in più” nelle rispettive famiglie. E poi perché, se si desidera far crescere il potere di acquisto delle famiglie senza danneggiare la competitività delle imprese, è di gran lunga preferibile puntare sull’inclusione dei “non garantiti” piuttosto che su aumenti salariali ai già occupati.
Ma c’è anche un altro ordine di ragioni che segnala la centralità della cosiddetta “questione femminile”. Da una ventina d’anni a questa parte, non solo in Italia, ma un po’ dovunque, le donne sono all’avanguardia in quasi tutti i settori. A scuola le ragazze vanno meglio dei ragazzi. All’università le studentesse ottengono medie più alte, si laureano in un minor numero di anni e lo fanno con voti migliori. In alcune situazioni (Gran Bretagna) lo scarto fra maschi e femmine è cosi grande che si stanno sperimentando delle specie di “classi differenziali” per recuperare i maschi.
A fronte di tutto questo sta il fatto che il sistema produttivo continua a privilegiare l’occupazione maschile, e lo fa tanto più nettamente quanto più le posizioni ricoperte sono elevate. Quando riescono a stare sul mercato del lavoro, le donne competono (abbastanza) efficacemente nei gradini iniziali della carriera lavorativa, ma devono cedere il passo non appena si tratta di salire i gradini successivi.
Quel che vale in generale, vale, in misura anche maggiore, in campo politico. È vero che alle donne la politica interessa di meno che agli uomini, ma in nessun Paese europeo la percentuale di donne parlamentari è bassa come in Italia. Hanno fatto bene le parlamentari italiane a porre con forza questo problema e a battersi perché nel Parlamento siedano più donne. Si può discutere all’infinito sui mezzi per ottenere questo risultato, e in particolare sull’idoneità delle cosiddette “quote rosa”, ma è piuttosto difficile non riconoscere le buone ragioni di chi conduce questa battaglia, nonché i benefici effetti di un contenimento del monopolio maschile della politica.
E tuttavia sarebbe ancora più meritorio se, oltre a cercare di infoltire la propria rappresentanza, le donne che fanno politica si impegnassero a fondo per riportare la questione femminile al centro dell’agenda politica, promuovendo misure incisive sul doppio versante dei servizi (asili nido) e delle chances occupazionali, con particolare riguardo al Mezzogiorno e alle Isole.
Il nostro Paese ha un deficit drammatico di competitività innanzitutto perché ha un deficit drammatico di meritocrazia. E il deficit di meritocrazia punisce innanzitutto l’universo femminile: le donne che non riescono a trasformare in opportunità di lavoro e di carriera il loro “eccesso” di capacità. Da questo punto di vista la questione femminile è al tempo stesso un problema e una risorsa, un visibile segnale d’allarme e un’indicazione di percorso: ci dice esplicitamente che cosa non va, e anche in quali aree del nostro Paese non va, ma ci suggerisce nello stesso tempo una strada per venir fuori dalle secche del declino del Sud e, in ultima analisi, dell’intera Penisola.
Questa situazione, che nelle regioni meridionali è patologica e si trascina da tempo immemorabile, è tanto più inquietante, in quanto proprio nel Sud le donne hanno raggiunto indici di scolarità, a livello di diplomi di scuola superiore e di lauree universitarie, superiori rispetto a qualsiasi altra area italiana. E tuttavia vi prevale il più diffuso precariato, insieme con le più vaste fasce di inoccupazione. Per non parlare delle carriere direttive, che sembrano quasi del tutto precluse, mentre lo spirito d’iniziativa (e di inventiva) femminile cresce a vista d’occhio: basta osservare il buon numero di imprese e di attività manageriali avviate dalle donne in diverse aree regionali del Meridione, in particolare in Puglia, in Abruzzo e in Sicilia.
L’altra faccia della medaglia del nostro declino economico è il conflitto generazionale, quello fra giovani e anziani. Da ormai quindici anni la posizione relativa dei giovani nella distribuzione dei redditi in Italia sta peggiorando. La povertà tra chi è senza lavoro parla sempre più giovane ed è nelle classi di età più basse che è concentrato il fenomeno dei working poor. Hanno già oggi una volatilità dei loro redditi fino a cinque-sei volte quella delle generazioni che li hanno preceduti quando avevano la loro età. Non pochi dei giovani lavoratori di oggi potranno, dopo aver lavorato quarant’anni, ricevere pensioni di poco più di 400 euro al mese, al di sotto della linea della povertà assoluta. Il nostro sistema è notoriamente squilibrato a favore di chi oggi riceve una pensione (due terzi della spesa sociale sono destinati a questa funzione), magari a 57 anni e con l’aspettativa di vivere per altri 25-30 anni. Gli interventi sul fisco e sui trasferimenti sociali hanno ultimamente migliorato la situazione delle famiglie con un anziano come capofamiglia rispetto alle famiglie con figli minori. Le proposte che circolano sono quelle di aumentare le pensioni minime. Cioè: ci si insegue nel cercare di conquistare il partito dei pensionati, mentre la povertà fra i giovani non sembra essere certo una priorità.

Perché la politica ignora i giovani? Ed è possibile risolvere il conflitto intergenerazionale, anziché doversi schierare dalla parte dei giovani o da quella degli anziani?
Cominciamo dalla prima domanda. Finché ci sarà un conflitto fra generazioni, saranno gli anziani ad avere la meglio. Oltre ad essere maggiormente rappresentati dove conta esserlo, sono sempre più numerosi tra gli elettori. L’elettore mediano aveva nel 1992 (quando fu varata l’unica riforma delle pensioni che ha ridotto le prestazioni degli attuali pensionati) 44 anni, alle elezioni politiche del 2001 ne aveva 46, oggi ne ha 47, e nella legislatura successiva raggiungerà i 50 anni. Dunque, sarà sempre caccia al voto del “settore mediano”.
Secondo quesito: è inevitabile il conflitto? In realtà, l’elettore mediano ha molto da perdere dal peggioramento delle relazioni con chi è più giovane. Saranno proprio gli attuali under 40 a pagare le pensioni dell’attuale elettore mediano. Dal successo dei più giovani nell’accumulare capitale umano e nel valorizzarlo dipende in buona misura la ricchezza futura dell’elettorato mediano, anche perché chi ha livelli di istruzione più elevati riesce a lavorare più a lungo, può creare posti di lavoro e stimolare, attraverso la trasmissione ad altri delle proprie conoscenze, la crescita dell’intera economia. Soprattutto le abilità non cognitive (capacità di comunicazione, autostima, adattabilità), così essenziali nel successo professionale, si formano nei primi anni di vita.
Dunque, l’elettore mediano è fin da subito interessato ad investire nel benessere e nella crescita culturale dei più giovani. Ma non se ne rende conto perché, nel suo lavoro, vede solo il lato negativo del rapido inserimento nel mondo del lavoro dei più giovani, quello della svalutazione del proprio capitale umano.

Ci sono allora tanti modi per far realizzare all’elettore mediano i vantaggi di una bilancia delle opportunità che si sposta maggiormente a favore dei giovani, “internazionalizzando” i vantaggi che da questa derivano.
Facciamo un esempio su di un terreno centrale, oltre alle pensioni, in cui oggi si consuma il conflitto intergenerazionale: la qualità dell’istruzione e della ricerca. Un quarto dei nostri docenti ha più di 60 anni, la percentuale più alta in Europa. Il pensionamento degli ultrasessantenni ci offre, in linea di principio, l’opportunità di rinnovare il nostro corpo docente, portandolo alla frontiera della ricerca.
Siamo da questa molto lontani, dato che la valutazione della ricerca universitaria espressa di recente ha mostrato che in molte discipline solo il 10-20 per cento dei migliori prodotti di ricerca selezionati dalle università ha caratteristiche di eccellenza, secondo una scala di valore condivisa dalla comunità scientifica internazionale.
Il problema è che oggi sono spesso i docenti più anziani a decidere sull’ingresso delle nuove leve, e molte volte preferiscono far passare chi è meno in grado di svalutare il proprio capitale umano ed è stato magari da anni al loro servizio.
Solo 5 docenti su 100 hanno meno di 35 anni, e il nostro sistema universitario ha una percentuale di ricercatori stranieri nel corpo docente vicina allo zero. Se la valutazione della ricerca venisse ora utilizzata per decidere come distribuire i finanziamenti alle università, anche i docenti più anziani sarebbero interessati a rinnovare il corpo docente chiamando i ricercatori più bravi che si trovano sul mercato, anche lontano dal proprio orticello. Con il loro ingresso nel corpo docente, questi ricercatori farebbero infatti salire il livello medio della ricerca nella propria università, contribuendo a migliorarne le disponibilità finanziarie.
Ma è molto probabile che questo utilissimo esercizio di valutazione rimanga in qualche cassetto telematico e che le università continuino a ricevere finanziamenti in base unicamente al numero degli studenti. Con buona pace di quei docenti che pensano ormai solo alla pensione, e di quegli studenti che cercano un’università più facile e più comodo.

 

   
   
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