Marzo 2006

Un altro Mezzogiorno

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Non mettete in croce
il giovane Sud
Flavio Albini
 
 
 

 

 

 

 

Sembra infoltirsi la schiera di chi alla minaccia non oppone né silenzi né altre omertà,
né comprensioni né complicità: al Sud la connivenza
non paga più.

 

Anche agli occhi dell’osservatore meno attento, e persino condizionato da antichi quanto banali pregiudizi, non può sfuggire un dato che emerge nel clamore che ha avvolto in questi ultimi tempi l’ennesima emergenza criminale nel Mezzogiorno. È qualcosa che va molto oltre le richieste di merito seguite all’ultimo omicidio eccellente (uso dell’esercito, potenziamento degli uffici giudiziari, varo di leggi speciali) e riguarda direttamente la cosiddetta società civile. È la voce di una nuova generazione di imprenditori del Sud, che chiama per nome le cose: una schiera di uomini d’azienda che non gira la testa dall’altra parte quando sente parlare di mafia; che sa di non poter soltanto chiedere (allo Stato, agli amministratori locali, all’Unione europea); che comprende che c’è qualcosa che va fatta adesso e in prima persona; che, insomma, ritiene non solo doveroso ma anche utile schierarsi con determinazione sul tema.

È un dato per tanti aspetti rivoluzionario, che riguarda chi fa impresa a Reggio Calabria come a Siracusa, a Lecce come a Caserta. Questa schiera di trentenni, com’è stato rilevato attraverso testimonianze dirette, questi giovani esenti per anagrafe e per cultura dal vizio della rassegnazione, sembrano non accettare più al tavolo dello sviluppo il convitato di pietra che parla in nome dei cartelli del crimine organizzato. Sanno che farne a meno è la condizione preliminare per creare orizzonti di libero mercato. Sanno anche che occorrono tempi non brevi per venirne fuori. Ma lo sanno. E si sono impegnati a percorrere la strada giusta. È il Sud giovane che va aiutato, e non più messo in croce, come è spesso accaduto nel passato, anche recente.
Certo: la società meridionale è ancora lontana dall’essere una società aperta, in cui siano definiti i confini per una vera e trasparente concorrenza. Troppo stretti sono gli spazi dell’iniziativa privata rispetto alla mano pubblica; il passo delle liberalizzazioni nei servizi va ancora a rilento; sempre frequenti sono le zone di opacità nella Pubblica amministrazione. Allargare e chiarire le maglie in cui può avere gioco l’iniziativa privata non è compito facile. Diventa impossibile se prima non si elimina chi, in questo gioco, ha tutto l’interesse a che ciò non avvenga, per trarne un vantaggio competitivo illecito e sleale.
È ancora presto per dire se i giovani imprenditori consapevoli di tutto questo siano maggioranza nel Mezzogiorno. Ma sembra infoltirsi la schiera di chi alla minaccia non oppone né silenzi né altre omertà, né comprensioni né complicità. Perché ha compreso, una volta per tutte, che al Sud il silenzio e la connivenza non pagano più.
Osservazioni, queste, che sono preliminari all’altro discorso, decisamente complementare. Che è questo. La politica economica per e nel Mezzogiorno negli ultimi quindici anni è stata drasticamente rivoluzionata: è stato meritoriamente abbandonato l’intervento straordinario; è stata cancellata, anche su pressioni europee, la maggiore fiscalizzazione degli oneri sociali; sono stati introdotti bonus occupazionali e interventi mirati sul territorio (patti e contratti vari, ovviamente rivedibili o sostituibili). Di fronte alla fine dell’assistenzialismo c’è stato dapprima un prevedibile sbandamento, nel momento in cui il divario tra il Prodotto interno lordo meridionale e quello del Centro e del Nord era salito (del 5,2 per cento tra il 1992 e il 1996). Poi c’è stata una reazione d’imprenditorialità e di iniziative locali proficue, anche se non uniformi.

A proposito: si dovrebbe smettere di parlare del Sud come di un’area compatta e omogenea. È noto da tempo che ci sono molti Sud. Premesso questo: quella reazione ha cominciato a far erodere il divario di Prodotto interno lordo con il resto del Paese. Ciò si è verificato fino al 2003. Poteva essere l’inizio del decollo economico e del famoso riscatto civile e sociale delle regioni meridionali. Invece lo slancio, in realtà mai dirompente, (i tassi di crescita sono rimasti sempre modesti rispetto alle necessità e alle potenzialità), si è spento, e dal 2004 il divario nel prodotto, che ancora non aveva recuperato il terreno perduto nella prima metà degli anni Novanta, è tornato ad ampliarsi.
È evidente, pertanto, che le cosiddette nuove politiche non sono state all’altezza. Ed è ancora più evidente, però, che di tutto le aree meridionali hanno bisogno, fuorché del ritorno all’antico armamentario assistenzialista. Occorre invece uno Stato che assolva in modo ordinario (e sarebbe già un avvenimento straordinario) al suo ruolo primario, nella sicurezza e nelle infrastrutture innanzitutto. E intanto che si afferma la normalità, per pareggiare gli handicap competitivi di quei territori e per attirare nuove imprese, è bene introdurre un fisco più leggero. Più che essere un vantaggio, compenserebbe ritardi ed errori politici commessi con sospetta frequenza.

 

   
   
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