Marzo 2006

Cronistoria

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C’era una volta nel Sud
M.B. - D.M.B.
 
 
 

 

 

 

 

A distanza di cent’anni si deve prendere atto
che la politica
meridionalistica non ha raggiunto il principale dei suoi obiettivi.

 

Uno degli obiettivi indicati nella Finanziaria era quello che impegnava il governo a riaprire con l’Unione europea il capitolo di una fiscalità di vantaggio per il Mezzogiorno italiano: l’ipotesi, che finora ha incontrato il veto esplicito di Bruxelles, in sostanza è quanto rimane della politica meridionalista inaugurata un secolo fa con una serie di provvedimenti per la creazione a Bagnoli di un impianto siderurgico a ciclo integrale, e col finanziamento di varie infrastrutture e opere di miglioria fondiaria in due sole regioni, la Basilicata e la Calabria.
Si trattò di un pacchetto di leggi speciali, in quanto destinate espressamente a beneficio di una singola area del Paese, che segnarono anche l’atto di battesimo di una politica di intervento pubblico volta ad agevolare l’espansione delle ciminiere nel Meridione. A questo riguardo, risultò determinante la tesi sostenuta da Francesco Saverio Nitti, che si dovesse puntare, per il riscatto del Mezzogiorno, soprattutto sulla promozione dell’industria, senza tuttavia escludere la necessità di una riforma che spezzasse il latifondo e ponesse fine a certi iniqui contratti agrari a carico dei contadini. Questa prospettiva venne infatti condivisa da Giovanni Giolitti: tant’è che lo statista piemontese diede corso anche ad altre misure per la concessione di sgravi fiscali alle imprese del distretto partenopeo, la riserva a quelle meccaniche di una quota del materiale ferroviario ordinato dallo Stato, e l’istituzione di un ente pubblico per la produzione di energia elettrica dalle acque del fiume Volturno. E varò successivamente, nel corso del suo terzo ministero tra il 1906 e il 1909, ulteriori leggi di carattere straordinario, intese ad assecondare la creazione (dopo il terremoto del 1908 a Messina e a Reggio Calabria) di “zone industriali” nelle due città dello Stretto, oltre allo sviluppo delle raffinerie siciliane di zolfo.
Per i liberisti come Luigi Einaudi, i provvedimenti del governo per il Sud avevano un vizio d’origine, in quanto presupponevano il mantenimento del regime doganale protezionistico che sorreggeva dal 1887 le industrie del Nord. Mentre per i liberali moderati e per alcuni meridionalisti, come Gaetano Salvemini, la “generosità” di Giolitti a favore del Mezzogiorno aveva per obiettivo precipuo quello di accaparrarsi il voto dei deputati locali a sostegno della sua eterogenea maggioranza parlamentare.
Sta di fatto che se l’esito delle leggi speciali allora emanate si rivelò poi inferiore alle aspettative, ciò dipese soprattutto da tre circostanze: l’insufficienza di fonti energetiche, la carenza sul posto di adeguate vocazioni imprenditoriali e la prevalenza nella classe dirigente meridionale di gruppi d’interesse abbarbicati al giro delle speculazioni edilizie e degli appalti pubblici.

Le due sezioni del Paese continuarono perciò a procedere in modo diverso l’una dall’altra, quasi come delle entità separate. Fino a che non venne ripreso, dopo il secondo conflitto mondiale, l’indirizzo interventista pubblico, con più ampie visuali e con ben maggiore consistenza, dato che nel frattempo il Sud era rimasto ancorato a un’agricoltura in massima parte cerealicola e di sussistenza (all’insegna dell’autarchia perseguita nel Ventennio), e che l’unico nucleo industriale di un certo spessore era pur sempre quello rappresentato dall’acciaieria di Bagnoli e da alcune imprese dell’area napoletana passate sotto l’egida dell’Iri.
Da allora, la politica meridionalista ha conosciuto, in pratica, quattro diverse fasi. La prima è stata quella intrapresa con il varo della riforma agraria e della Cassa per il Mezzogiorno (voluta da De Gasperi e Menichella), nonché di diversi incentivi fiscali e finanziari a sostegno delle iniziative dell’imprenditoria locale e per attirare al Sud parte degli investimenti della grande industria del Nord.
La seconda è stata quella coincidente con la programmazione economica del centro-sinistra, che ebbe per capisaldi, oltre al compimento dell’elettrificazione nel Mezzogiorno (affidata all’Enel), la destinazione al Sud della maggior quota dei nuovi investimenti dell’Iri e la creazione tanto di alcuni “poli di sviluppo” per lo più petrolchimici che del complesso siderurgico di Taranto e dell’Alfasud di Pomigliano d’Arco.
La terza, negli anni Settanta e Ottanta, finalizzata ad agevolare il decentramento al Sud di alcune attività produttive di importanti imprese nazionali (a cominciare dalla Fiat) e la formazione di specifici distretti industriali capaci di vita propria, al posto delle precedenti “cattedrali nel deserto”, nonché a utilizzare i fondi strutturali regionali della Comunità europea.

Infine, la quarta fase, caratterizzata da una progressiva correzione di rotta (per non riprodurre una sequenza di finanziamenti pubblici “a pioggia”, esposti oltretutto a infiltrazioni mafiose), che sfociò tra il 1992 e il 1993 nell’abolizione del ministero per il Mezzogiorno (al fine di responsabilizzare gli enti locali) e nell’introduzione di parametri automatici, non più discrezionali, per la valutazione dei progetti di sviluppo da sostenere. Una fase, questa, cui fece seguito nel 1998 l’avvio sperimentale di “contratti d’area” e di “patti territoriali”, basati su accordi tra associazioni imprenditoriali del Nord e del Sud per investimenti al Mezzogiorno e su una certa flessibilità salariale negoziata con i sindacati.
Oggi, a distanza di cent’anni dall’esordio dell’intervento straordinario, si deve prendere atto che la politica meridionalistica non ha raggiunto purtroppo il principale dei suoi obiettivi. E ciò in seguito alla prevalenza assunta nel corso di molto tempo (per calcoli politici-elettorali, per motivi di ordine sociale o per la scarsa attitudine della macchina statale ad avvalersi di strumenti operativi orientati all’innovazione) da una congerie di provvedimenti per lo più assistenziali, assicurati dai rubinetti della spesa pubblica. Se, da un lato, si è registrato un miglioramento nel Mezzogiorno dei livelli di reddito e di consumo (seppure non nella stessa misura di quello avvenuto nelle regioni del Centro e del Nord), dall’altro persiste infatti (malgrado la fioritura di alcuni comprensori industriali e terziari convenientemente attrezzati e competitivi) un fortissimo divario del Sud rispetto al resto del Paese.
Di fatto, mentre è pur sempre compito dello Stato estirpare la malapianta della criminalità organizzata, soltanto la capacità d’iniziativa e un rinnovato impegno degli imprenditori locali possono dar vita a un processo di sviluppo autopropulsivo del Mezzogiorno che valga a risolvere la vecchia “questione meridionale”, assottigliando l’angolo ottuso secolare della forbice peninsulare.

 

   
   
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