Marzo 2006

Conti in ordine e guerra agli sprechi

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Ricominciare da tre
Tommaso Romano Livolsi
 
 

 

 

 

 

Sarebbe splendido se il confronto
politico non si
trasformasse in uno scontro totale capace di portare solo danni
all’economia creando sfiducia in Italia e sull’Italia.

 

Forze politiche e istituti di ricerca avevano previsto per l’economia italiana una buona crescita nel 2005 (praticamente superiore all’1,5 per cento), una crescita che a consuntivo è risultata invece quasi insignificante, cioè pari e impercettibilmente superiore allo 0,1 per cento. Questo dato si aggrava nel confronto con i risultati della Zona Euro (i Dodici Paesi dell’Unione economica e monetaria) e dell’Europa a Venticinque, che sono stati, in entrambi i casi, intorno all’1,5 per cento. Così l’Italia è lenta in un’Europa che a sua volta cresce poco se confrontata con gli Stati Uniti (+3,7 per cento), col Giappone (+2,5 per cento), e con la media dei Paesi sviluppati dell’Ocse (+2,8 per cento) e con i Paesi in via di sviluppo (+6,3 per cento).
Questa sintesi richiede alcune precisazioni: gli Stati Uniti confermano la loro forza, sulla quale grava però l’ipoteca dei loro enormi squilibri del commercio estero e del deficit delle finanze federali; la Cina cresce in modo tumultuoso, ma è carica di incognite politiche, sociali e ambientali; il Giappone ha una buona crescita e un enorme surplus commerciale, ma ha un rapporto tra deficit e Prodotto interno lordo molto alto; l’Unione europea ha una debole crescita, ma è piuttosto equilibrata sia sul commercio estero che sul deficit, e dunque nel complesso non va male, anche se appare possibile e doveroso cercare nuovi stimoli di ripresa.
Per il 2006 e per gli anni successivi, l’Unione a Venticinque e l’Unione economica e monetaria dovrebbero crescere intorno al 2 per cento, con una dignitosa accelerazione, e l’Italia all’1 per cento, con un notevole incremento che ci lascia tuttavia alla metà del tasso di crescita europeo.
Riflettiamo allora sull’Italia e su come si possa accelerare il nostro sviluppo. È noto come un sistema economico funzioni su tre meccanismi connessi: quello della produzione-offerta che dipende dal lavoro, dal capitale e dalla produttività dei fattori; quello della domanda dei beni di consumo e di investimento che dipende dai redditi, dai prezzi, dalle convenienze e dalle scelte degli operatori; quello delle importazioni, delle esportazioni e della internazionalizzazione. Il nucleo del sistema sono i mercati, le regole, le istituzioni e la politica economica. Nel nostro Paese è soprattutto questo nucleo che funziona male. Ciò malgrado, l’Italia sta uscendo dal rallentamento degli ultimi anni, e potrebbe accelerare per arrivare prima del 2008 sopra il 2 per cento di crescita. Il compito delle scelte politiche si rivela a questo punto fondamentale.
E si rivela su due piani: da una parte, con un coerente controllo della finanza pubblica, cosa che non è avvenuta per troppo tempo (per lo meno a partire dagli anni Ottanta), dal momento che le forze politiche hanno progressivamente eroso il saldo primario positivo (ma l’equilibrio dei conti pubblici è una base indispensabile alla crescita); dall’altra, creando uno scenario il più possibile favorevole per le attività economiche. In quest’ultima prospettiva, gli elementi da valorizzare non mancano.
Partiamo dagli investimenti, la cui domanda sta riprendendo, in modo particolare nei macchinari, negli impianti e nei mezzi di trasporto. Il rapporto di questi investimenti sul Prodotto interno lordo, che era in calo da un picco registrato nel 2000, ha invertito nel 2005 la rotta, e la tendenza potrebbe proseguire negli anni a venire, come sembrano dimostrare anche un certo consolidamento nella fiducia delle imprese e il miglioramento della prospettiva, già in atto, per le esportazioni.

Ciò dipende anche dal fatto che la nostra offerta industriale sta dimostrando buona vitalità, perché negli ultimi anni nelle imprese manifatturiere c’è stato un notevole, faticoso e coraggioso processo di razionalizzazione che sta dando i suoi frutti. Perciò la produttività del lavoro, in parte ridimensionata di recente dalla emersione dei lavoratori sommersi, dovrebbe ricominciare a crescere nell’industria, ma meno, purtroppo, nei servizi.
Questo si vede anche molto bene dall’andamento delle esportazioni, che hanno generato nel 2005 un saldo export-import in crescita e positivo per circa 40 miliardi di euro per i manufatti, con un cospicuo apporto delle “4 A” (alimentari-vini, abbigliamento-moda, arredo-casa, automazione-meccanica), soprattutto per una notevole espansione dell’automazione meccanica, che ha quasi controbilanciato il calo dei settori della moda e dei mobili, prodotti molto soggetti alla concorrenza asimmetrica (e troppo spesso sleale) dei cinesi. Le imprese manifatturiere italiane esposte ai mercati internazionali spingono dunque sulla produttività, cercando di avere una dinamica salariale non disgiunta dalla stessa, per contenere il costo del lavoro per unità di prodotto e quindi i prezzi, al fine di non perdere quote di mercato da cui dipendono anche i modelli occupazionali.
Ma le imprese industriali non possono fare tutto da sole, e questo ci porta a due riflessioni. Una riguarda le diversità settoriali dove nei servizi, salvo qualche eccezione, l’Italia è uno dei Paesi sviluppati con poca concorrenza, che a sua volta causa una bassa crescita della produttività sia settoriale che di sistema, da cui segue anche una notevole compressione del potere d’acquisto delle famiglie. La pubblica amministrazione, poi, è ben lontana da significativi incrementi di produttività a cui correlare le retribuzioni. Questo penalizza pesantemente tutta l’economia e la società italiana, ma purtroppo non sembra vi sia governo capace di porvi rimedio. Anzi, c’è solo da sperare che il federalismo non peggiori queste anomalie burocratiche italiane.
Una seconda riflessione riguarda la politica economica, che ha visto introdotte con la Finanziaria 2006 misure significative, anche se limitate come impegno finanziario proprio in virtù dei non risolti problemi di finanza pubblica. In proposito possiamo ricordare: la riduzione di un punto percentuale dei contributi sociali dovuti dalle imprese; il 5 per mille dell’Irpef destinabile alla ricerca scientifica, universitaria, sanitaria (e riguardante altre finalità sociali); la deducibilità dal reddito tassabile Ires delle erogazioni liberali per finanziare la ricerca di atenei e di fondazioni; l’abolizione della tassa sui brevetti; la configurazione giuridica e fiscale dei distretti come imprese a rete quale base per una loro ulteriore valorizzazione in un contesto di sussidiarietà.
C’è anche altro, tra cui un fondo, alimentato dalle dismissioni immobiliari, per finanziare l’apprezzabile Piano per l’innovazione, la crescita e l’occupazione (Pico), coordinato dal Dipartimento per le Politiche comunitarie. Questo fondo dovrebbe favorire l’attuazione in Italia della nota “strategia di Lisbona”.
L’entità qualitativa di questa Finanziaria ci sembra buona, perché va nella direzione di spinta proprio a quell’innovazione che negli indicatori dell’Unione a Venticinque per il 2005 vedeva l’Italia ancora molto sotto la media, anche se con un dignitoso tasso di crescita superiore, in questo caso, alla media. I conti in ordine, si sa, sono alla base di ogni tentativo di superare momenti (anche lunghi) di crisi e di vera e propria stagnazione. Ma per rimetterli in ordine ci si deve mobilitare tutti, senza eccezioni, senza privilegi e senza mugugni. Noi non capiremo mai i lamenti di coloro i quali si vedono ridotti i contributi per la cultura, perché della cultura si è fatto strame con allegria festaiola, con ignobili sagre paesane, con sperperi infiniti e soprattutto improduttivi ai fini del progresso civile e culturale, appunto, dei cittadini. Né capiremo mai le spese folli che si fanno per consulenze che sono nate da fantasie “creative” degne di migliori cause, con spese da vertigine. Una buona amministrazione, in anni di vacche magre, reclama parsimonia nelle spese superflue: i quattrini vanno destinati solo ed esclusivamente a progetti di alto contenuto artistico, di cospicuo valore storico e letterario o scientifico, e non sparsi e dispersi in mille rivoli sterili e privi di qualunque significato e apporto culturale.
In conclusione: in un momento in cui l’economia italiana dà segnali, pur tenui, di ripresa, sarebbe splendido (e soprattutto utile) se il confronto politico, indispensabile alla democrazia, non si trasformasse in uno scontro totale capace di portare solo danni all’economia creando sfiducia in Italia e sull’Italia. Per il superiore interesse del Paese, le parti più sagge del mondo politico dovrebbero perciò preferire la razionalità all’aggressività, e la sobrietà allo scialo.

 

   
   
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