Marzo 2006

Proposte

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Per uscire dal guado
M.B.
 
 

 

 

 

 

Per ritornare
a crescere è
necessario elevare la dinamica della produttività, sia nell’industria sia nei servizi.

 

Il problema più assillante della nostra economia, e più trascurato dalla politica economica di questi ultimi anni, rimane quello della crescita, nonostante i segnali positivi che vengono dalla congiuntura. Un problema sottovalutato dal governo, che lo ha ricondotto dapprima allo shock dell’attentato alle Torri Gemelle, e in seguito all’euro e alla “sleale” concorrenza cinese. Non aver colto le difficoltà di fondo della nostra economia, il tendenziale appiattimento, già da tempo evidente, del suo reddito potenziale, ha contribuito a un lassismo nel controllo dei conti pubblici. Si è confidato in un loro miglioramento con una ripresa sempre di là da venire. In questo modo si è creato un secondo problema, quello del rientro del deficit, che allo stato attuale richiede, per affrontarlo nel modo meno traumatico possibile, un progetto per “ritornare a crescere”. Non solo l’anno prossimo, come quasi certamente avverrà, ma anche dopo.
Soprattutto di questo progetto si dovrà occupare l’intero mondo politico italiano, con risposte ai problemi della nostra economia più appropriate di quelle che ha saputo offrire fino a questo momento. E siccome è ormai molto diffusa nella gente l’opinione, anzi la coscienza della necessità di metter mano ai nodi che trattengono l’economia, non sembrano più sufficienti né le ripetute manifestazioni di ottimismo, né i contrapposti catastrofismi. Cioè: non si può più “parlar d’altro”. È necessario un progetto convincente, che si misuri con quello avversario, al fine di contrastare concretamente il regresso economico dell’Italia.
I termini del problema che va affrontato dalle opposte forze politiche peninsulari sono presto detti. Per ritornare a crescere è necessario elevare la dinamica della produttività, sia nell’industria sia nei servizi. È vero che la produttività dipende da tante cose, troppe per programmi che hanno un eccessivo sapore elettorale. Ma le scelte di fondo sono poche.

La prima riguarda la politica industriale. La perdita di competitività delle nostre imprese sui mercati internazionali attiva reazioni e meccanismi di selezione che spingono verso un aumento di produttività, promuovendo la necessaria riorganizzazione e riqualificazione del sistema produttivo. Gli effetti di questa spinta cominciamo a vederli nel probabile arresto della fase discendente della nostra economia. E nel crescente divario che si rileva tra le performance delle singole imprese non solo tra settori più o meno favoriti dalla domanda mondiale, ma anche all’interno degli stessi settori e degli stessi distretti che qualificano il made in Italy. Anche nei distretti infatti contano sempre più le singole strategie aziendali rispetto a quello che è stato in passato il punto di forza, le economie esterne che rendevano compatibile nanismo delle imprese e competitività.
Si tratta allora di scegliere se la politica industriale debba assecondare o meno questa selezione della concorrenza che impone cambiamenti profondi nel modello distrettuale. A giudicare dalla legge finanziaria, la maggioranza sembra orientata da un lato a una politica conservatrice dei caratteri dei distretti, e, dall’altro, a contare molto, e forse troppo, sul sostegno alla produttività della nostra industria derivante da un’accelerazione del programma europeo di Lisbona.
C’è tuttavia da chiedersi se la specificità del problema industriale italiano non richieda, per un rapido recupero della competitività, una politica decisamente mirata a sostenere la riorganizzazione industriale, già in atto, imposta dai mercati internazionali. Si tratterebbe allora di accompagnare questa trasformazione sia con adeguati ammortizzatori sociali sia con una riforma dell’intero sistema di agevolazioni alle imprese volta a renderlo anch’esso selettivo e funzionale al rilancio della competitività.
La seconda grande scelta riguarda il settore dei servizi che può offrire, anche per il solo fatto di costituire più di due terzi del Prodotto interno lordo, il maggior contributo alla crescita. Qui non si tratta di accompagnare i benefici stimoli della concorrenza, ma di introdurli nelle vaste aree ora protette. Questo è un problema europeo, che spiega e chiarisce il grosso del divario di crescita con gli Stati Uniti. A differenza di quello delle merci, il mercato interno dei servizi funziona poco e garantisce posizioni di rendita inique. La contestata Direttiva Bolkestein sui servizi vuole accelerare la formazione di questo mercato, cosa che andrebbe a beneficio dell’intera economia europea.
L’impegno italiano sul piano delle politiche comunitarie a sostenere questa Direttiva e a metter mano alle regolamentazioni corporative delle tariffe e dei prezzi costituisce un fatto eccezionale in un governo conservatore che finora non si è molto distinto per il favore nei confronti della concorrenza. Reggerà alla duplice prova del confronto europeo e dei programmi previsti per l’Italia? E gli oppositori vorranno difendere il lavoratore che produce nei settori colpiti dall’acuta concorrenza internazionale e paga cari i servizi italiani oppure l’idraulico e il professionista che glieli forniscono senza dover competere con nessuno?

 

   
   
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