Marzo 2006

Terre di confine: mediterraneo e mezzogiorno italiano

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La sponda che non c’è
Claudio Alemanno
 
 

 

 

 

 

Siamo di fronte
ad un bivio
antropologico:
restare piccoli, scollegati e senza voce oppure
lavorare per
ambizioni di
credibilità
internazionale.

 

L’effetto ghiaccio non è ingrediente naturale di un cocktail mediterraneo. Eppure è difficile uscire dal circolo chiuso delle frontiere e degli interessi nazionali, dalla paralisi di comunità fratte tra progressisti e promotori di diritti civili, cultori di privilegi di casta e tutori di vessazioni oscurantiste. Così cresce la letteratura degli insuccessi regionali e noi continuiamo a farci male, restando sotto schiaffo di una politica piatta come il marciapiede.
La definizione di nuovi assetti di legalità e di mercato, liberati dalle trappole del potere e della memoria, costituisce esigenza prioritaria in territori classificati between two worlds, in mezzo a due mondi, quello occidentale e quello musulmano. In assenza di mediatori autorevoli (le comparse hanno il fiato corto) continuiamo a vivere sotto il dominio di poteri rancorosi che custodiscono opportunità sospese mentre alimentano un fideismo roccioso e determinato, contrapposto ad un lifestyle laico fondato su effimere ritualità di massa. Con il corollario di scandali finanziari reiterati, diritti civili negati, istituti e istituzioni screditati da insufficienza di governance, nepotismi che propagano indulgenza e torpore. Così non si trova nessuna via d’uscita, nessuno sbocco politico e sociale all’equivoco che imbavaglia le relazioni tra teologie fondamentaliste e società del consumo, tra cattolicesimo e protestantesimo compassionevoli e orgoglio dell’Islam teocratico.

«Inclinata res publica», usava ripetere Cicerone osservando il declino di Roma che si identificava con il declino del Mediterraneo. Adesso sono in auge nuove squadre e nuovi gagliardetti, ma bisogna di nuovo alzare la voce per far capire che il Mediterraneo val bene una mossa. Gli anni carsici che stiamo vivendo non ci possono lasciare indifferenti e muti, come i servi di Don Rodrigo.
Bisogna uscire dall’immobilismo che crea eroismo silenzioso e malinconico e allentare il disagio e l’impotenza di chi può solo timidamente origliare dietro le porte del potere. È preoccupante non vedere sul nostro orizzonte concreti segnali di cambiamento, un disegno d’innovazione politico-culturale per dare risposte alla destrutturazione della vecchia organizzazione sociale e alle nuove inquietudini palpabili con un semplice shopping aborigeno, oltre le coste cementate. Lo charme di superficie non basta più. Creatività e distruttività sono due facce della stessa esigenza di ordine, ma la lunga scia di luttuosi antagonismi non fa intravedere un novello Archimede, con voglia e determinazione di fare del Mediterraneo un nuovo punto di riferimento culturale e civile.
È vero che sotto il pensiero debole c’è il niente, ma è altrettanto vero che nel pensiero forte c’è il rischio della cristallizzazione. Quando le acque sono molto agitate è facile perdere il senso della legalità e aprire spazi per distinguo sempre più labili tra discrezione e licenza, accentuando confusione e convinzioni estreme che alimentano schizofrenia identitaria e devastazione psicologica.
Sotto il cielo globalizzato della geo-economia dovrebbe essere più facile comporre interessi e rendere praticabile un nuovo codice delle pari opportunità. Invece in un clima permeato da risposte mancate dalla politica, da un tasso elevato di conflittualità sociale e da modelli economici in forte competizione ci troviamo qui a perorare la causa di un Rinascimento del Mediterraneo, di una collaborazione capitale/lavoro nella ricerca di una convergenza di interessi tra comunità e mercati in sofferenza.
Non si può sempre derubricare il bisogno prodotto dall’indifferenza politica a brevetto per ticket di assistenza da far valere nelle politiche interne e nelle istituzioni internazionali. Il risveglio delle etnie produce valori nuovi di giustizia sociale, rendendo più esplicite le contraddizioni Stato-Mercato e le questioni d’integrazione interetnica. Il limite delle etichette sommarie, della retorica dell’integrazione, delle procedure di cooperazione con cliché anni Novanta può essere superato dando forma e contenuto ad un polo euro-mediterraneo all’interno dello schema multipolare che si va delineando (finora gli aiuti economici dell’Unione europea – 20 miliardi di euro in dieci anni – non sono riusciti a creare alcun sintomo di trasformazione).
C’è un punto fermo da cui partire, il Trattato di Barcellona ‘95, di cui si è celebrato lo scorso novembre il decennale. La cronaca racconta questo evento come una kermesse tutta occidentale, prodiga di sorrisi e di buoni propositi, con i più interessati, i leader arabi, che hanno disertato il vertice in massa. È la cronaca di un’ulteriore sconfitta politica.
Tuttavia, se depuriamo il serbatoio degli interessi e delle aspettative dei poteri rancorosi si vedrà che l’Unione europea offre nuovi spazi di cooperazione, interessanti soprattutto per Paesi privi di segnali di mercato.

Tra le clausole del Trattato c’è la data del 2010 entro cui dovrebbe diventare operativa una “zona di libero scambio” tra Comunità e Paesi rivieraschi. Dunque esiste un ordito con cui intrecciare propositi di lavoro e attività istituzionali con disegno unitario. Non c’è una formula magica per superare l’attuale fase di stallo, ma l’ottimismo per politici e tecnici è un dovere e in stato di necessità un imperativo categorico. L’Europe déclassée di Blanchard e Wyplosz non può essere l’ultimo canto del cigno, l’atto notarile del declino irreversibile di una classe dirigente che subisce il fascino del sottosviluppo garantito.
Si può pensare all’evento del 2010 come fatto di mero interesse mercantile (per soddisfare gli appetiti della business community) oppure come processo per la ricerca di nuove identità collettive in società che hanno un grado elevato di atomizzazione. In sintonia con le logiche mercantili è auspicabile l’abbandono della filosofia del pauperismo moralista, la conferma della centralità dell’impresa e del mercato in un modello federato di civiltà. Tenendo conto che i mercati integrati costituiscono un pre-requisito per il corretto funzionamento di un’area commerciale regionale (si pensi all’importanza strategica di una seria cooperazione nei settori del petrolio, del gas, dell’energia). Nei Sud-laboratorio si devono ripensare processi e prodotti frutto di una logica di progresso démodé. Un’operazione che richiede un forte impegno istituzionale, alta concentrazione di capitali e un nutrito manipolo di leadership aggreganti. Per depotenziare quel venticello felliniano che produce cura amministrativa dell’esistente e tarpa le ali alle tendenze innovative. Un caso emblematico di società senescenti.
Mancano le supermajor, le conglomerate multinazionali autoctone (gli Stati Uniti restano il primo partner commerciale) che partecipino alla divisione del nuovo potere economico e finanziario strutturato per progetti geopolitici. La cronologia delle promesse annientate ci racconta sempre ciò che si vorrebbe e non. Adesso ci sono ragioni coincidenti di opportunità economica e strategia politica che spingono verso la creazione di uno “spazio delle possibilità”, traducibile in un progetto organico pensato per posizionare il margine al centro. Non un vanishing point, ma una realtà matura per dare impulsi al “capitalismo di relazione”, con l’intento di creare mercato in territori in cui ancora il reddito pro-capite non lo consente (più aumenta il reddito, più cresce la domanda di beni). Per sottrarre l’area mediterranea alla mappa dei Paesi vocianti e arruffoni, ad alto tasso di litigiosità nazionale e regionale.
Bisogna fare il censimento delle vetustà politico-culturali e rafforzare le volontà impegnate negli aggiustamenti strutturali. Per istituzionalizzare processi di cambiamento che possano aprire le porte a nuovi modelli di cointeressenza islamico-cristiana. Emancipati da dispute di potere e di mercato sostenute da un’infiammata religiosità cortigiana.
Accade spesso che l’imprenditoria stabilisca autolimitazioni di prodotti, di mercati, di politiche che non consentono di vedere opportunità di sviluppo manifestamente visibili. Per evitare turbolenze prodotte da continuità identitaria si rende necessario aprire cantieri per creare una nuova classe media. Dunque priorità a centri di eccellenza impegnati nella formazione manageriale che non si appiattiscano sul modello statunitense (il mitico Harvard), ma siano capaci di immaginare leadership in sintonia con le esigenze delle comunità indigene. Creare i cadetti della modernità è fondamentale per progetti di politica economica che hanno voglia di fare pulizia sotto i tappeti. Bisogna far circolare saperi, informazioni e competenze, abbandonando quel capitalismo molecolare che dà scarso peso al portafoglio scientifico e tecnologico.
C’è in gioco l’acquisizione di merce strategica per rimuovere l’acqua dello stagno. Per garantire diritti di cittadinanza effettiva alle banlieue regionali. Per affrontare in modo meno traumatico il traghettamento verso la modernità di società chiuse, tenute in legnaia e utilizzate da oligarchie elitarie di governo come elemento di seduzione (e di pressione) nella grande arena delle agevolazioni statali e nel grande circuito della cooperazione e degli aiuti internazionali (percorsi pensati per ragioni di giustizia sociale e degradati ad affari di routine dei serbatoi politici).
Se si guarda con occhio disincantato ai percorsi della globalizzazione si vedrà che il cono d’ombra dei confini statali viene compensato dall’esaltazione di altri confini aggreganti che danno contenuto e potere all’identità di aree commerciali ben caratterizzate per la loro sostanziale omogeneità (Estremo Oriente, Usa, America Latina, Europa). I confini sono necessari per creare la morfologia di un capitalismo mediterraneo che non sia sottodimensionato o soggetto ad affaticamento da sovra-esposizione. Siamo di fronte ad un bivio antropologico: restare piccoli, scollegati e senza voce oppure lavorare per ambizioni di credibilità internazionale. Surrogando la logica dei poteri inerti con le istanze di sopravvivenza che obbligano a coniugare il globale con il locale. Una dogana di vita o di morte separa la società affluente dalla società ininfluente. E spinge all’aggregazione di sovranità frammentate, a nuovi assetti geopolitici, a nuove regole internazionali di governo e di controllo.
Sono queste circostanze a chiedere più politica di movimento e meno politica seduta, più politici di cucina e meno politici d’immagine. Non serve a nessuno conservare l’outlook di Sud precari, ancora sensibili al fascino dei noir borghesi e alle scorrerie dei raiders di periferia.
Saldamente ancorati alla cultura politica del debito sovrano e alle regole corporative di sopravvivenza che assicurano una percezione localistica del giusto e dell’utile più palpabile e familiare rispetto al catalogo delle virtù del libero mercato. In questo modo il verosimile conta più del vero, col risultato di tenere in piedi Stati e frange di Stati blindati nel passato. Occorrono progetti per fare del Mediterraneo un mare aperto, secondo standard internazionali di “normalità” finora disattesi.
Cercasi Ulisse con voglia di usare auto e cammello. Per visitare territori e annotare domande e desideri, con la funzione-obiettivo di smitizzare il fascino dell’eroe dark prodotto dalla cultura dell’indigenza. Dovrebbe adoperarsi per la creazione di un “Centro mediterraneo di gravità e d’influenza” (con sede autonoma e spazio di sovranità) capace di produrre attrazione inclusiva. Attivo nella dialettica globale della competizione strategica e nella dialettica europea della competizione con il capitalismo Nord-bancocentrico. Superando la logica sacrifici/benefici dei Paesi guarnigione. Una svolta culturale e di stile assente nei dialoghi dei salotti smart e nelle strategie mixate dal feticcio del politicamente corretto. L’aspettativa è per un’onda anomala di solidarietà interetnica che si sviluppi all’interno di una road map mediterranea. Sollecitata dai problemi della concorrenza più che dagli scrupoli della diplomazia. Sufficientemente matura per mettere a dimora un seme.
La gente è stanca di stare in trincea, aspetta occasioni per inserire sogni nuovi nella biografia collettiva. In attesa di mutazione genetica uno spirito libero cita sottovoce un antico adagio arabo: “Se fai un passo verso Allah, Allah farà due passi verso di te”. Indotto in tentazione, si manifesta, ma preoccupato si guarda attorno e vede solo la nebbia che avvolge ogni uscita di sicurezza.
Un pasticcio indigesto che allarga i confini delle terre di nessuno e fa impallidire i colori delle stagioni. Consegnando ancora la vita del Mediterraneo alla crepuscolare monotonia del vissuto. Appaltata a solitari azionisti della storia.

 

   
   
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