Marzo 2006

Bilancio della moneta esperanto

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Delusione euro
S.B.  
 
 

 

 

 

 

Ritornare alla lira? Certo,
sarebbe il suggello di una sconfitta storica, non solo per l’Italia,
ma per l’intera
Europa.

 

Quando venne chiesto a un leader austriaco se gli piaceva la moneta comune europea, a un anno dalla sua entrata in circolazione, costui (che plaudiva anche a Saddam Hussein e appoggiava i kamikaze in Israele e in Palestina) rispose in tono sarcastico.
Eppure, si restava colpiti dal fatto che ci si poteva trovare una sera a Parigi e usare gli stessi soldi con i quali la mattina si era pagato il tassista di Berlino. E ci si ricordava che l’accordo franco-tedesco sul carbone e sull’acciaio, il nucleo Ceca del progetto europeo, era stato concepito per rendere la guerra all’interno dell’Europa continentale “materialmente impossibile”.
Il primo gennaio 2002 si poté di colpo usare la stessa moneta in Finlandia come in Grecia (che abbandonò la moneta dal nome più antico tra quelle in uso nel mondo, la dracma). Perché dare ascolto ai commenti sarcastici, che oltretutto provenivano da una persona (il leader del partito austriaco della Libertà) che non si era del tutto riconciliata con l’esito della Seconda guerra mondiale?
Racconta il politologo inglese Cristopher Hitchens: «Non sento di dovermi scusare dei miei sentimenti internazionalisti nemmeno ora. Ricordo il mio imbarazzo quando Norman Lamont, Cancelliere dello Scacchiere del primo ministro inglese John Major, ritornò da Bruxelles con la grande notizia che aveva ottenuto il diritto di mantenere il volto di Sua Maestà la Regina in tutte le versioni inglesi delle banconote in euro. Se i tedeschi facevano il notevole sacrificio di abbandonare il marco, il loro maggiore successo del dopoguerra, perché sottilizzare sulle insegne dei Windsor? Non vedevo l’ora di mostrare ai miei bambini le vecchie monete inglesi, che avrei tenuto in una scatola di ricordi come le antiche monete che ci avevano bucato le tasche prima che fosse introdotto il sistema decimale. E ora non riesco quasi a credere che i miei figli e i loro figli useranno i soldi “esperanto”».
L’assunto è questo: l’idea di una moneta comune sembra stia perdendo quota con la stessa rapidità con cui era stata introdotta. La possibilità che nuovi Paesi adottino l’euro è diventata remota dall’inizio del 2005, da quando i francesi e gli olandesi hanno respinto la Costituzione europea. Ma soprattutto si avverte una forte nostalgia per i vecchi soldi, sia in Germania che in altre nazioni che hanno adottato l’euro. Se si dovesse fare un referendum, credo che in nessun caso l’elettorato inglese (ma non soltanto questo) sceglierebbe di abbandonare la sterlina (o le divise dei Paesi che ancora utilizzano moneta propria), con o senza il volto della Regina.
La periferia scandinava ora sembra ancor meno facile da convincere. E per quel che riguarda i nuovi membri e gli aspiranti tali, come la Polonia nel primo caso, e la Turchia nel secondo, è imbarazzante pensare alla delusione prodotta dal rinvio di tante promesse coraggiose.
Questi passi indietro economici sono in parte determinati da grandi e piccole incapacità politiche e burocratiche. Il passaporto europeo, per fare un piccolo esempio, avrebbe meritato di farsi ammirare, in un posto di frontiera. Ma una serie di ottusi compromessi l’hanno ridotto a un quadernetto da due soldi dalla copertina di un marroncino anonimo: un documento palesemente predisposto da una commissione. E mi piacerebbe sapere a quale spaventosa riunione è stato deciso che le prime parole dell’introduzione della Costituzione europea fossero: “Sua Maestà il Re del Belgio...”. Finché non entreranno l’Albania o la Bielorussia, il che sembra ben lontano, il Belgio e il suo monarca vengono per primi nell’alfabeto europeo. Ma le cose non andarono così alla Convenzione costituzionale americana a Filadelfia, e non si stanno facendo sforzi per produrre un’Unione più stretta.
Non può assolutamente piacere l’alleanza di partiti, dagli xenofobi ai post-stalinisti, che si sono uniti per sconfiggere la Costituzione e che adesso desiderano ardentemente che l’euro venga abolito. Ma non si riesce a liberarsi neanche del sarcasmo che accolse la moneta unica europea. Certo, se l’euro sarà soltanto una delle tante monete, avrà perso quasi tutti i suoi significati. L’esperanto aveva lo scopo di rimpiazzare la babele delle lingue in competizione con una lingua universale, e riuscì solamente ad aggiungerne un’altra, oltretutto ibrida. Un euro che abbia corso legale solo in alcune parti d’Europa non solo metterà in luce il fallimento del Vecchio Continente nell’eliminare le differenze, ma incarnerà esso stesso una di quelle differenze. Quale delusione maggiore?
Che cos’è accaduto in Italia? Sono trascorsi pochissimi anni dalla conversione della lira, e in questo tempo molte delle illusioni che l’accoglimento del nuovo segno monetario avevano generato si sono dissolte e un crescente disappunto si è diffuso a tutti i livelli dell’opinione pubblica. In primo luogo, l’euro ha deluso come immagine fisica.
Le miserevoli monete e monetine metalliche, alcune peraltro di valore unitario elevato, oppure le monete cartacee, tutte di modesta taglia e di scarsa caratterizzazione, hanno dato l’impressione di un peggioramento rispetto alle monete precedenti. Si dirà che questo ha poca importanza, ma si dimentica che la moneta è un bene astratto per il quale l’impatto psicologico è molto importante. Inoltre, le nuove monete divisionarie si sono rivelate di difficile utilizzo, perché troppo piccole e di difficili letture. Questo fatto, insieme alla fissazione di un valore di conversione elevato e complicato, ha creato un grave problema di percezione dei prezzi delle merci, nel senso che ha reso difficile la comparazione con i livelli di prezzo precedenti espressi in lire. Al riguardo, le autorità hanno manifestato una sorta di compiacimento per la rapidità con cui i cittadini italiani hanno preso confidenza con l’euro, trascurando il fatto che quasi tutti hanno continuato a lungo, fino ad oggi, a fare riferimento alle lire (spesso in modo impreciso) per orientarsi sugli andamenti di mercato, prova della difficoltà intuitiva di capire la nuova moneta.

Una conseguenza prevedibile della conversione è stato un immediato arrotondamento dei prezzi verso l’alto, soprattutto delle merci di basso valore unitario e di acquisto ricorrente (merci caratterizzate, com’è stato detto, «dall’importanza di non essere importanti»). Ma la diffusione a catena ad altre merci e l’entità degli adattamenti sono state del tutto imprevedibili. Si è manifestata una spinta inflazionistica vera e propria che poi non si è arrestata al primo anno, ma ha avuto seguito negli anni successivi.
Per i cittadini italiani, i quali speravano finalmente di essere arrivati a un sistema di prezzi stabile, questa è stata la delusione peggiore, proprio perché tutti immaginavano che l’euro avrebbe portato la stabilità dei prezzi, perduta da molti anni.
Su questa materia, peraltro, le impressioni fondate dei cittadini si sono scontrate con gli indici ufficiali rilevati dall’Istat, che ha negato sin dall’inizio spinte inflazionistiche superiori a pochi punti percentuali. La discussione è divenuta molto accesa quando un istituto di ricerca economico non ufficiale ha stimato un’inflazione del 30 per cento (nell’anno 2002). Alla fine, la conclusione è stata che avesse ragione sia chi sosteneva l’inflazione reale alta, e chi, all’opposto, sottolineava la quasi inesistenza “ufficiale” di inflazione, riferendosi i primi al fenomeno così come percepito dai consumatori sulle merci di ordinario consumo, i secondi al costo di disparati beni e servizi utilizzati negli indici statistici.
Per ironia della sorte, il prezzo dei giornali che riportavano in prima pagina i termini dell’acrimoniosa discussione segnavano un aumento di poco inferiore al 30 per cento. Negli anni successivi, la discussione non si è ripetuta, ma la percezione dell’inflazione si è mantenuta ben al di sopra di quella dichiarata, con la conseguenza che il cittadino medio si è sentito defraudato e deriso.
D’altra parte, il calo dei consumi, nonostante un lieve aumento dei redditi, darebbe ragione più alle sensazioni dei consumatori che agli indici statistici. Se l’inflazione reale fosse dunque più elevata di quella dichiarata, si dovrebbe spiegare come sia stato possibile, dal momento che la pessima monetazione e la difficoltà di percezione del valore appaiono cause insufficienti.
L’ipotesi fatta da alcuni per l’Italia è che il valore di conversione della lira in euro sia stato sbagliato (ma non solo in Italia), col risultato di riversare nel sistema economico una massa monetaria sensibilmente superiore a quella precedente, e questo potrebbe spiegare la spinta inflazionistica nazionale, maggiore di quella avvenuta in Francia e altrove. Al mondo degli economisti italiani è parso sgradevole scavare in un campo in cui loro stessi avevano riposto tante speranze. Ciò potrebbe spiegare anche il seguito inflazionistico successivo, perché la Banca centrale europea, non prendendo atto dell’errore iniziale, avrebbe mantenuto troppo basso il tasso di sconto, cioè una politica di moneta abbondante in un sistema in cui la moneta circolante era già cresciuta troppo. Di certo, a questa politica va ascritta la “bolla dei valori immobiliari”, di seguito cresciuta a dismisura e che ora sta preoccupando tutto il sistema finanziario europeo. È appena il caso di osservare che un fenomeno di crescita così imponente dei valori immobiliari non sarebbe immaginabile se non in una realtà inflazionistica. Insomma, tutto ciò è sintomo che qualcosa in Europa funziona in modo perverso.
Un’ultima delusione del pubblico italiano è stata relativa al valore dell’euro nei confronti delle altre monete, in particolare il dollaro. Al riguardo, la sensibilità italiana era molto forte, a causa di una lunga esperienza di svalutazioni. Ci si attendeva dunque dall’euro, moneta di una vasta e potente economia, un cambio soggetto a piccole variazioni. Invece, l’euro ha resistito poco sui valori iniziali, subendo una svalutazione superiore al 30 per cento. Poco dopo, inaspettatamente, ha subìto una rivalutazione pure molto alta, con una rapidità da fare impallidire le tendenze “ballerine” della vecchia lira italiana.
Al di là di tutto, mentre in genere le svalutazioni italiane erano conformi alle esigenze di riequilibrio commerciale e finanziario del suo sistema economico, quelle dell’euro non lo sono state affatto. Ciò è preoccupante perché, se è vero che la moneta deve essere l’immagine riflessa di un’economia, debole se questa è debole, forte se è forte, l’Italia ha perduto il mezzo più semplice, rapido ed efficace di riequilibrio e oggi la sua economia in declino si specchia in una moneta che si rafforza sui mercati esterni, peggiorando le tendenze negative. Ma c’è da dubitare fortemente che rispecchi bene la media dell’economia del complesso dei Paesi europei dell’euro, i maggiori dei quali si trovano pure in fase di debole o nulla crescita.
Ci si può chiedere, allora, se i governanti italiani che hanno voluto “entrare in Europa” con l’adozione dell’euro si siano resi conto di ciò che facevano. La spiegazione va probabilmente ricercata in una reazione alla sensazione di vivere in un «Paese dei balocchi», come ha scritto acutamente Paolo Savona (in Gli enigmi dell’economia, Milano, 1996), in cui i gravissimi problemi conseguenti a politiche economiche e sociali dissennate non trovavano mai soluzione e il pubblico si aspettava di essere salvato dallo “stellone” nazionale, ovvero – come nella favola di Pinocchio – dalla fata Turchina. Vale la pena, anzi, di riprendere alcuni elementi della storia economica recente per comprendere meglio come questa singolare sindrome si sia formata e radicata.
L’Italia, dopo la rapida ricostruzione degli anni 1946-1955, ha avuto un periodo di forte sviluppo economico, di circa otto anni, fino al 1963 (il cosiddetto “miracolo economico”). In questo secondo periodo si è trovata con finanze fiorenti, vale a dire un debito pubblico modesto e un notevole surplus strutturale dei conti con l’estero, sintomi di un consistente volume di risparmio inutilizzato. Ciò ha giustificato un abbandono della prudente politica economica che dal dopoguerra era sempre stata seguita (ispirata da Luigi Einaudi) a vantaggio di un intervento pubblico sempre più vasto e costoso, orientato ad accrescere i consumi e a ridistribuire la ricchezza prodotta, a creare una vasta serie di garanzie sociali.
Le lotte sindacali, con l’esaltazione del “salario variabile indipendente”, hanno ottenuto un pieno successo con lo Statuto dei lavoratori, aprendo un primo indebolimento dello sviluppo, che poi si è mantenuto fino agli anni Ottanta.
È stato il periodo della “programmazione”, della destrutturazione industriale, dell’inflazione a due cifre e del primo grave dissesto dei conti pubblici (incoraggiato da mal digerite idee keynesiane), con lo Stato che acquistava le industrie decotte (essendo il fallimento fuori legge) e le Regioni che facevano a gara a finanziare le “cattedrali nel deserto” delle aree sottosviluppate.
Nonostante la crisi petrolifera degli anni ‘74-‘79, sono state anche approvate riforme generose, a partire dalla regionalizzazione, che hanno accresciuto notevolmente la macchina dello Stato, dalle riforme pensionistiche e della sanità alla riforma dell’istruzione superiore, che sull’onda sessantottesca hanno allargato gli accessi all’università.
Il finanziamento di tutto questo è avvenuto con la creazione monetaria e con un rilevante debito pubblico. Al di là di questo, le riforme non hanno migliorato affatto l’efficienza del sistema, anzi hanno peggiorato tutto, provocando un reale degrado della società nazionale, anche dal punto di vista etico. Il rimedio, che si è cominciato ad usare con frequenza, è stata la svalutazione monetaria, con la finalità di accrescere la competitività, via via perduta.
Negli anni Ottanta, tuttavia, fino al 1991, vi è stata una ripresa dello sviluppo economico, mentre il peggioramento del debito pubblico ha raggiunto il massimo. Ciò è accaduto sia per via degli effetti di lungo periodo delle leggi di spesa degli anni Settanta e delle aggiunte successive, sia del mutamento del meccanismo di finanziamento della spesa pubblica, riducendo la creazione monetaria, fonte d’inflazione, e ricorrendo piuttosto ad un maggiore indebitamento con i cittadini. La stessa politica era stata realizzata negli Usa dal presidente Reagan, con l’intento di contenere l’inflazione interna e quella mondiale conseguente alla funzione del dollaro negli scambi internazionali.
L’Italia ha seguito la stessa strada per non perdere il collegamento col dollaro, anche se l’aumento conseguente dei tassi d’interesse, necessario per raccogliere un maggiore volume di risparmio nazionale, aumentava il costo del medesimo debito pubblico. Peraltro, nella “filosofia” della nuova politica finanziaria il costo elevato del risparmio doveva indurre ad una forte riduzione della spesa pubblica. Inutile dire che tale conseguenza positiva non si è verificata (ma neanche negli Usa). Però, da quel momento, la compressione della spesa statale è divenuta un cruccio di tutti i governi che si sono succeduti.
Alla metà degli anni Novanta, cioè a cinquant’anni dalla fine della guerra, la spesa pubblica era aumentata di otto volte, a fronte di una crescita del Pil di cinque volte. Il mutamento del sistema politico, con l’arrivo del bipolarismo, che doveva rafforzare la capacità di decisione dei governi, in realtà si è dimostrato insufficiente per risolvere il problema del colossale debito pubblico, né la tassazione inasprita e la vendita di cespiti pubblici hanno consentito d’innescare una tendenza di medio e lungo periodo sufficientemente costante ed efficace a quel fine. È stato a quel punto che il fallimento di tutti i tentativi ha indotto molti a pensare che solo affidandosi a vincoli esterni all’Italia si sarebbe forzato il “Paese dei balocchi” a camminare una volta per tutte sulla via della virtù.
E quale era lo strumento principale per sfuggire, sia pure temporaneamente, alle conseguenze dei numerosi vizi nazionali? La moneta, certamente, con le sue possibili svalutazioni competitive e il procedere “stop and go”, che finiva col sopire le reazioni virili e superare le depressioni nazionali. Dunque, la firma del Trattato di Maastricht nel 1992 e, con la volontà di entrare nel drappello dei primi Paesi a praticare la moneta unica, la rivalutazione monetaria del 1996, l’adozione dell’euro. Non c’è dubbio, come sostengono gli americani, che lo cose buone camminano insieme, ma anche quelle cattive, ossia gli errori generano altri errori. Raramente, purtroppo, la virtù nasce dalla necessità.
Dei due principali strumenti di politica economica, il fisco e la moneta, l’Italia non può che ricorrere marginalmente al primo, essendo vicino al punto in cui l’incremento ulteriore delle tasse induce, attraverso la caduta della produzione, la riduzione del gettito, e non ha più la moneta propria per dare ossigeno al sistema delle imprese. La privatizzazione di beni pubblici delle residue aziende di Stato potrebbe forse fornire una soluzione, se non fosse difficile da realizzare in un tempo breve.
Allo stesso modo, la riduzione della spesa pubblica, l’eliminazione di enti inutili o scarsamente utili, il ridimensionamento della burocrazia centrale e periferica, e poi la revisione di molte riforme del passato dai costi eccessivi e dall’efficacia dubbia o negativa, consentirebbero di rimettere il sistema economico e sociale sulla strada giusta, ma si tratta di azioni inimmaginabili per qualsiasi combinazione di forze partitiche, anche se il sistema politico venisse migliorato nella sua stabilità, forza ed efficienza. Dunque, l’Italia è un Paese praticamente disarmato.
In queste condizioni deve affrontare i tempi. Un problema di questi è la competizione internazionale che si va sempre più inasprendo in seguito alla liberalizzazione degli scambi e al calo dei costi di trasporto. A questo si aggiunge la cosiddetta globalizzazione, ossia la formazione di grandi aree economiche che superano la dimensione degli Stati nazionali, che dunque sfuggono alla disciplina di questi, ma che sono dominate da società multinazionali di varia origine, le quali riescono a realizzare grandi economie, di dimensione, di localizzazione, di distribuzione dei rischi, di sviluppo e di acquisizione dei mercati. Le economie forti si internazionalizzano proiettandosi all’esterno, quelle deboli diventano mercati di assorbimento delle merci e dei servizi, spesso aree di destrutturazione produttiva, in una specializzazione del lavoro sempre maggiore.
Essere forti significa avere capacità di sviluppo, ossia possibilità di accumulazione di capitale, di investimento, e forza innovativa. Da qualche anno, più o meno da quando la coscienza di questa evoluzione del mondo si è diffusa anche in Italia, si è cominciato a parlare di competitività del sistema economico nazionale e delle sue imprese. Lo hanno fatto soprattutto gli industriali, spesso per motivi strumentali, ossia per chiedere ai sindacati dei lavoratori maggiore flessibilità nell’impiego del lavoro, moderazione salariale o per chiedere allo Stato tasse ridotte od oneri sociali meno gravosi o aiuti veri e propri.
Ma col tempo, la discussione si è articolata, quasi spontaneamente, e si è fatta strada la consapevolezza che il danno delle politiche sbagliate non sta solo nella montagna del debito pubblico, ma in numerosi altri aspetti della società, nelle infrastrutture insufficienti, nell’istruzione mediocre, nella ricerca inefficiente e nella tecnologia non avanzata in molti campi decisivi, nella volontà di lavoro debole, nella stessa diffusa incapacità di correre i rischi legati alle innovazioni.
Questo non relega ad un ruolo marginale la questione finanziaria, ma la rende parte di un fenomeno di dimensioni molto più ampie. Anzi, se per l’intervento di una fata Turchina la questione del debito pubblico eccessivo venisse improvvisamente risolta, il sistema si troverebbe comunque in difficoltà ad affrontare la competizione internazionale.
Per la verità, la descrizione della situazione italiana è stata drammatizzata, per chiarire bene i termini del problema. Infatti, continueranno ad operare sul sistema alcuni fattori di sviluppo, quali le innovazioni provenienti dall’estero, la crescita dei consumi nei Paesi in fase di grande sviluppo economico, una certa creatività nazionale legata alla tradizione culturale, lo stesso effetto innovativo determinato dalle aperture dei mercati. Peraltro, c’è chi sostiene che meglio sarebbe una dura crisi economica, capace di mordere crudelmente la società, piuttosto che il lento scivolamento attuale, di cui il pubblico si accorge poco e finisce con l’adattarsi, anche tenendo conto delle impercettibili “ripresine” che si profilano di tanto in tanto sugli scenari politico-economici nazionali. Però, di scalino in scalino, la discesa potrebbe diventare più veloce. A quel punto, sarà inevitabile cercare una o più risposte alle angosce nazionali.
Una domanda potrebbe riguardare l’Europa, ossia se il ruolo dell’Unione contribuisca a risolvere i problemi nazionali oppure a peggiorarli. La risposta, se nel frattempo l’Unione avesse una Costituzione accettata per dare consistenza al nucleo di Stato Europeo, necessario per rendere omogenei i sistemi nazionali, aiutando in vario modo quelli in difficoltà, potrebbe essere positiva. Forse il declino dell’Italia continuerebbe, ma la prospettiva potrebbe essere favorevole, nel senso che i margini di competitività potrebbero avvicinarsi almeno nell’ambito europeo e lo sforzo di miglioramento del sistema verrebbe orientato e aiutato. Purtroppo, in Europa, patria storica delle divisioni, questo appare un sogno.
La condizione più probabile, che già si va delineando, è quella opposta, ossia un’Europa che non riesce a diventare un vero centro ordinatore, limitandosi, come ha fatto in prevalenza fino ad ora, a mediare tra interessi e azioni dei poteri nazionali. E sono i Paesi con tradizione statuale più antica e consolidata a non volere la cessione di poteri all’Unione, né a sopportare seri aggravi per eventuali aiuti a Paesi come l’Italia, amici, alleati e quant’altro, ma diversi.
Quale potrebbe essere, in una situazione del genere, la reazione dell’Italia dopo una fase più o meno lunga di impoverimento, di discredito, di ulteriori tentativi falliti, di scarsità di mezzi per ammodernare più rapidamente il sistema produttivo, anzi per accrescere la competitività della società nel suo insieme? Quando un sistema non trova vie d’uscita interne ai propri problemi, finisce col cercare vie d’uscita esterne, semmai riappropriandosi degli strumenti di politica economica, come la moneta, che sono di efficacia immediata e generale.
Ritornare alla lira? Certo, sarebbe il suggello di una sconfitta storica, non solo per l’Italia, ma per l’Europa. D’altra parte, l’euro è la moneta più “innaturale” del mondo, come hanno cercato di spiegare gli economisti americani al momento della sua creazione, fintanto che il sogno europeo resterà tale.
E non saranno eventualmente gli italiani (col loro debito pubblico, con la loro burocratica lentezza, e via dicendo) a decretarne la fine. In fin dei conti sono stati i francesi e gli olandesi a bocciare la Costituzione europea, ma i Paesi forti che la elaborarono, con lo scopo di disciplinare i Paesi meno stabili, non pensarono che i grandi progetti finanziari, alla lunga, non reggono se non sono supportati da ancora più grandi progetti politici e sociali. Per l’Europa non serve ricorrere alla favola di Pinocchio, che descrive le attitudini psicologiche degli italiani, basta quella dei tre porcellini, con la sua candida morale, comprensibile anche ai bambini più piccoli.
(E intanto scoppia una mezza rissa sul nome. Lettonia, Lituania, Malta, Slovenia e Ungheria, in attesa di adottare la moneta unica europea, non hanno intenzione di accettare la grafia “euro”, e chiedono di modificarla a seconda delle rispettive peculiarità linguistiche. La Lettonia intende introdurre la dizione “eiro” e basa questa richiesta su una perizia dei maggiori linguisti del Paese, i quali sostengono che nella lingua lettone il dittongo “eu” non esiste (infatti si parla di Eiropa), mentre il Parlamento della Lituania ha espresso il desiderio di utilizzare il nome “euras”. Malta gradisce la grafia “ewro” (più aderente, tra l’altro, alle contaminazioni arabe), dal momento che nella lingua locale la vocale “e” non precede mai la vocale “u”.
La Commissione dell’Unione europea, intervenendo in proposito, ha ribadito che le banconote che saranno emesse dalla Lettonia dal 2008 dovranno portare la menzione “euro”, e non altro. Analoghe prese di posizione sono previste per gli altri Paesi candidati ad entrare nell’area della moneta unica continentale).

 

   
   
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