Marzo 2006

Memorie dei protagonisti

Indietro
La paura. E poi fu euro
Franco Reviglio  
 
 

 

 

 

 

Sono passati oltre vent’anni e si sono succeduti vari
ministri, ma più che diminuire,
il fenomeno
dell’evasione
e del lavoro nero
è aumentato.

 

Che spavento. Era agosto. Vado di buon mattino al ministero del Bilancio, in via XX Settembre, e vedo allo sportello bancario che è nel cortile una fila di persone. Mi dicono che sono lì per ritirare i depositi. Mi sentii gelare. L’Italia era al collasso? Ho subito chiamato Amato, che era il presidente del Consiglio. Noi in Parlamento stavamo discutendo una manovra da 18 mila miliardi di lire. Troppo poco per ribaltare le aspettative. La cifra dei 90 mila venne fuori così, di certo non fu frutto di un’analisi econometrica.
Tredici anni dopo. Per fortuna siamo nell’euro, ma il Paese soffre e non cresce perché sono mancate le riforme strutturali. Nel 2005 il tasso di crescita del pianeta ha raggiunto il 4,3 per cento, un livello sostenuto che fa emergere ancor più la nostra debolezza. E la caratteristica che più colpisce è che gli Stati Uniti riescono a finanziare il loro disavanzo esterno di ben 700 miliardi di dollari, che è pari a sei punti di Prodotto interno lordo. Un’enormità che, secondo tutti i manuali di economia, dovrebbe affossare il dollaro. Invece la moneta americana in pochi mesi ha guadagnato oltre il 10 per cento su quella comune europea.
Una risposta interessante a questo fatto l’ha data proprio Ben Bernanke, il successore di Alan Greenspan, con la teoria del saving glut. Ossia, nel mondo sussiste un eccesso di risparmio che cresce ad un tasso maggiore di quello degli investimenti. E questo surplus, che viene dai Paesi asiatici di nuova industrializzazione e dai produttori di greggio, si indirizza soprattutto negli Stati Uniti. Metà dei titoli del Tesoro americano sono già nel portafoglio di stranieri. Invece, il nostro Continente, che investe sempre meno ed esporta risparmio, dà chiari sintomi di sclerosi in un mondo che sta rapidamente cambiando. In Cina ogni anno sorge una nuova città come Torino. Sempre la Cina ha un tasso di investimenti pari al 46 per cento del Prodotto interno lordo e un tasso del risparmio pari al 50 per cento. I produttori di greggio hanno surplus che l’anno scorso hanno toccato i 500 miliardi di dollari. Le riserve di valute delle Banche centrali sono raddoppiate negli ultimi sei anni, con una quota di quelle asiatiche aumentata dal 50 al 75 per cento.
Gli Stati Uniti risparmiano sempre di meno, ma hanno una produttività sostenuta, tanto che ogni cinque anni lavorano un anno di più dell’Europa. Mi spiego: il disavanzo è virtuoso se serve a finanziare gli investimenti, come nel caso – isolato in Europa – della Spagna. L’Italia ha un deficit esterno non perché finanzia lo sviluppo, ma piuttosto i consumi. Negli ultimi dieci anni la nostra crescita è stata mediamente dell’1,3 per cento, secondo l’ultimo “Outlook” del Fondo monetario, inferiore a quella europea. E a partire dal ‘96 anche la produttività è crollata. Secondo un’indagine della Banca dei Regolamenti Internazionali, il prodotto per persona è cresciuto dello 0,5 per cento contro lo 0,9 per cento europeo; il prodotto per ora lavorata, superiore a quello europeo fino al ‘95, è salito dello 0,8 per cento rispetto all’1,8 per cento dell’Europa; il prodotto per unità di capitale si è ridotto dell’1,4 per cento, contro solo lo 0,6 per cento dell’Europa. È la fotografia di un declino inesorabile. Grave anche sul piano sociale, perché la produttività determina il livello di reddito e quindi il tenore di vita.
Non è stato tanto il volume degli investimenti la causa della perdita della competitività. È un problema di qualità degli investimenti che da noi è stata bassa. L’Italia impiega risorse come trent’anni fa. L’Economist ha pubblicato una tabella interessante, dal titolo “The Great Jobs Switch”, il grande cambiamento nel mondo del lavoro. Ebbene, negli ultimi trent’anni in Italia l’occupazione manifatturiera è scesa solo dal 28 al 22 per cento. Gli Stati Uniti avevano il 25 per cento, oggi sono scesi al 10; il Regno Unito è passato dal 35 al 14 per cento; la Francia dal 28 al 16 per cento; la Germania dal 40 al 22 per cento. Noi abbiamo investito in settori labour intensive con effetti moltiplicatori assai scarsi. Diversamente dagli altri grandi Paesi industriali, non abbiamo accresciuto in misura più che compensativa l’occupazione nei servizi.

Dunque, dopo aver vissuto al suo traino, l’Italia sembra essere un po’ vittima del made in Italy. Di certo, le quattro “A” di esso (abbigliamento-moda; arredo-casa; alimentare-bevande; automazione meccanica) sono oggi i settori meno dinamici.
Per giunta, a differenza degli altri Paesi, non abbiamo una presenza elevata di grandi imprese, che sono quelle che fanno più innovazione. Il risultato è che anche sul fronte della quota del commercio internazionale siamo passati negli ultimi quattro anni dal 4 al 3,9 per cento (eravamo al 5 per cento negli anni Novanta). Abbiamo fatto un po’ meglio della Francia e della Gran Bretagna, ma peggio della Germania, che ha aumentato la sua quota dal 9,5 al 10,2 per cento.
Invertire il trend significa bloccare il declino. Ma come? Purtroppo, sono state fatte riforme strutturali in misura insufficiente, lasciando via libera alla crescita della spesa corrente, una scelta senza senso nella nostra situazione di bilancio. Bisogna ristrutturare, ma oggi mancano le risorse per ridurre il crescente disagio sociale in un Paese che vede i ricchi diventare sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
Fra l’altro, l’elenco delle anomalie italiane è lungo. Sul fronte delle pensioni, continuiamo a pagare due punti di Prodotto interno lordo in più del resto d’Europa. Nella sanità va bene il federalismo, ma dovrebbe essere responsabile. Invece finora lo Stato ripiana a piè di lista i disavanzi delle Regioni che sono in gran parte il segno dell’inefficienza. È mancata la riforma del catasto, per cui abbiamo una distribuzione capricciosa delle rendite, che non hanno più nulla a che fare con i redditi normali. Non si sono eliminate le lobbies corporative. Siamo l’unico Paese europeo che continua a finanziare un disavanzo nei trasporti pubblici pari a quasi due punti di Prodotto interno lordo. Restiamo sempre fanalino di coda nella ricerca e nell’innovazione: l’Europa spende il 2 per cento; noi poco più dell’1 per cento del Pil.
Qualcosa si è fatto: per esempio, è stata eliminata la tassa sui brevetti. Ma è troppo poco. Se volessimo raggiungere il livello europeo dovremmo spendere 12 miliardi di euro in più.
Da ministro delle Finanze sono stato io a introdurre la ricevuta fiscale per combattere l’evasione e il lavoro nero. Sono passati oltre vent’anni e si sono succeduti vari ministri, ma più che diminuire, il fenomeno è aumentato. Credo che sia un male difficilmente estirpabile con qualsiasi forma di governo, di destra o di sinistra. Sussiste una collusione di interessi a non toccare lo statu quo. Credo anche di essere stato il primo ministro a porre il problema dell’evasione fiscale. Avevo coniato lo slogan: se tutti pagano, le tasse possono diminuire. Ricordo che un giorno mi ha chiamato Craxi e mi ha detto: – Tu vuoi farci perdere le elezioni –.

Ora, non perché sia stato mio “allievo”, ma credo che Tremonti sia una persona molto preparata in campo fiscale. È stato lui stesso a denunciare l’inattendibilità delle statistiche che dicono che in Italia vi è uno sparuto drappello di redditi superiori a 200 mila euro lordi, mentre i possessori di auto di grossa cilindrata sono tre o quattro volte di più di quelli che denunciano quel livello di reddito. Ma al di là dei giudizi personali, il primo governo con stabilità di legislatura ha avuto tutto il tempo per rilanciare la macchina pubblica, l’unico modo per fare un salto di qualità per il Paese. Purtroppo non lo ha fatto se non in minima parte. Tant’è che l’Italia continua a reggersi su un equilibrio di squilibri. Fino a quando? Questa è la grande incognita. Fino ad oggi ho confidato che l’Europa ci avrebbe costretti a risanare. Purtroppo però anche l’Europa comincia a sbandare, vanificando le attese di reddito e di occupazione del Piano Delors.

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2006