Marzo 2006

Finanza emergente

Indietro
Le Borse del Corano
Frederik Whartz  
 
 

 

 

 

 

Arabo, educato
all’estero, master in business negli Stati Uniti
o in Europa,
quarant’anni: questo, il profilo del nuovo
protagonista della scena finanziaria mondiale.

 

Proprio negli anni in cui l’attenzione della politica mondiale e dell’opinione pubblica è focalizzata sulla guerra al terrorismo e sui conflitti che insanguinano il Vicino e il Medio Oriente, il mondo musulmano sviluppa in silenzio il suo volto più “occidentale”: quello della finanza. Mentre l’economia europea ristagna e quella americana si rislancia verso la ripresa, sono i mercati finanziari dei Paesi islamici ad espandersi a vista d’occhio: sia in termini di performance sia in termini di dimensioni.
Da una parte, negli ultimi anni gli investitori hanno assistito a un vero e proprio boom delle obbligazioni “coraniche” (che a fine 2004 avevano già superato l’ammontare di 30 miliardi di dollari); dall’altra, anche le Borse dei Paesi arabi hanno dimostrato di saper correre, con performance che nel 2005 in molti casi hanno superato il 100 per cento. Merito del caro-petrolio. Merito della crescita economica. Ma anche della montagna di liquidità disponibile tra gli investitori di quei Paesi: si parla di circa 1.500 miliardi di dollari investibili nella sola area del Golfo Persico!
Il boom della finanza islamica si vede con chiarezza sia sui mercati azionari sia su quelli obbligazionari. Bastano le cifre delle performance degli ultimi mesi per rendersene conto. La Borsa egiziana negli ultimi 12 mesi ha raddoppiato la propria capitalizzazione, guadagnando nel 2005 il 63 per cento. Ma la crescita riguarda anche gli scambi, oggi arrivati a 20-30 mila transazioni al giorno, contro i circa 6 mila di soli tre anni fa. Anche i listini del Kuwait (+76 per cento, record storico per questo Paese) e di Amman (+86 per cento) si sono difesi benissimo; soprattutto se le loro performance si confrontano con quelle, ben più asfittiche, delle blasonate Borse occidentali: l’indice americano Dow Jones nello stesso arco di tempo ha perso il 3,6 per cento, il Nasdaq ha ceduto il 2,8 per cento, mentre in Europa la Borsa migliore è stata quella svizzera, con un +22 per cento.
I listini arabi cercano di attrarre investitori (locali e stranieri) aumentando anche la trasparenza. Il vero tallone d’Achille di questi Paesi, infatti, è stata sempre la debole regolamentazione. Ma, anche da questo punto di vista, più di una cosa sta cambiando. Va letta in questi termini la recente creazione, da parte di Dubai, di una nuova “Borsa internazionale”: un listino (il Dubai International Financial Exchange) nato a fine settembre 2005 con il fine di attrarre società estere in quotazione e investitori internazionali, offrendo loro le regole tipiche dei Paesi occidentali. Dubai, in questo modo, si candida a diventare la Hong Kong del Vicino Oriente. Ma va letta in termini di una maggiore trasparenza anche la nascita della Dubai International Financial Centre Court, una corte indipendente che ha lo scopo di assicurare proprio il rispetto delle leggi.

Sui mercati obbligazionari lo sviluppo è altrettanto eclatante. Le obbligazioni islamiche (quelle chiamate “sukuk”, che non pagano interessi in osservanza della legge coranica) fino a pochi anni fa neanche esistevano: è stata infatti la Malaysia, nel 2002, a lanciare la prima obbligazione denominata in dollari. Per evitare di pagare agli investitori i tassi d’interesse (proibiti dal Corano), la Malaysia aveva inventato un meccanismo geniale: utilizzando la tecnica della cartolarizzazione e associando l’emissione obbligazionaria alla vendita di un terreno demaniale, aveva di fatto “trasformato” le cedole delle obbligazioni (proibite) in “canoni d’affitto” (perfettamente leciti). Il risultato era lo stesso, ma le prescrizioni del Libro venivano rispettate.
Quest’idea, dunque, in poco tempo ha preso piede in tutto il mondo musulmano. Le emissioni sono arrivate da Pakistan, Qatar, Bahrain e da diverse società. La domanda degli investitori era talmente elevata, che le emissioni si sono moltiplicate. A fine 2004 i bond islamici ammontavano già a 30 miliardi di dollari e, secondo i dati dell’Islamic Finance Information Service, nel 2005 sono state già emesse nuove obbligazioni per circa 10 miliardi. Non solo: pian piano, anche gli investitori occidentali hanno iniziato ad acquistare questi particolari bond. E gli emittenti hanno iniziato a lanciarli: il primo è stato il Land tedesco Sassonia-Anhalt, che ha emesso un “sukuk”.
Molteplici i motivi di questa crescita esponenziale. Innanzitutto, gli investimenti sulle Borse e sui bond dei Paesi arabi sono stati incentivati negli ultimi anni dal caro-petrolio. Poi hanno giovato le performance aziendali ed economiche: in Kuwait, per fare solo un esempio, la maggior parte delle società quotate ha annunciato utili semestrali in crescita di oltre il 50 per cento rispetto alla prima metà dell’anno precedente. In alcuni Paesi, come l’Egitto, ha giovato la maggiore liberalizzazione economica, che ha incentivato anche i piccoli risparmiatori. Ma, soprattutto, a trainare i listini e i bond è la grande liquidità presente sul mercato.
Arabo, educato all’estero, master in business negli Stati Uniti o in Europa, quarant’anni: questo, il profilo del nuovo protagonista della scena finanziaria mondiale, ormai del tutto diverso dallo stagionato uomo d’affari della prima epoca petrolifera. I petrodollari, che quest’anno potrebbero fornire ai Paesi dell’Opec guadagni non troppo lontani dal record di 567 miliardi (in valori odierni) realizzati nell’anno da primato, 1980, sono sempre il motore portante. Ma uomini, strategie e raggio d’azione sono ben differenti. Mentre lo sceicco Ahmed Zaki Yamani, uscito dalla Harvard Law School nel ‘56, ministro del petrolio saudita dal ‘62 all’86 e per un quarto di secolo leader dell’Opec, era un precursore, tanti piccoli Yamani sono ormai cresciuti.
L’Opec è oggi altrettanto importante dell’Asia, dicono alla Morgan Stanley, prevedendo che se il surplus delle partite correnti dei Paesi asiatici – Giappone e Cina in testa – sarà quest’anno di circa 362 miliardi di dollari, quello dei Paesi Opec, di cui l’area del Golfo/Nord-Africa rappresenta il nerbo, dovrebbe essere, secondo il Fondo monetario internazionale, di 337 miliardi di dollari. I banchieri e i finanzieri si stanno muovendo con un’audacia e un raggio d’azione un tempo sconosciuti. La regione del Vicino Oriente sta vivendo una crescita eccezionale, ha dichiarato Assem O Kabesh, stratega della Dubai International Financial Centre Authority. L’accelerazione dei prezzi del greggio ha coinciso, tra la fine del 2001 e il 2002, con un disinvestimento dagli Stati Uniti, dove andavano prima del settembre del 2001 anche 25 miliardi di dollari l’anno, e dove nel triennio 2001-2003 furono mandati per timore di ritorsioni solo 1,2 miliardi.

Crescevano molto per la prima volta gli investimenti nel mercato domestico, che al momento assorbono non meno del 20-25 per cento dei petrodollari incassati. Ormai la strategia è a 360 gradi. La Gulf Finance House bsc del Bahrain ha trattative per entrare nel consorzio che costruirà il nuovo centro finanziario di Singapore, Marina Bay. Numerosi gruppi arabi hanno partecipato alla gara per Erdemir, secondo operatore mobile in Turchia, finita poi al fondo Oyak (pensioni delle forze armate turche), e sono molto presenti nel programma di privatizzazioni in tutto il mondo arabo, interessato a un ponte con l’Unione europea. In Malaysia sono soprattutto le proprietà immobiliari e le aree ad interessare gli arabi.
I Paesi del Golfo e la stessa Arabia Saudita, con più expertise finanziaria, hanno fondi di stabilizzazione modellati sul Fondo petrolifero norvegese creato nel 1990 e che ha investito circa 150 miliardi di euro. Finanziarie arabe aggressive, come l’ex First Islamic Investment Bank, ora Arcapita, con sedi nel Bahrain, a Londra e ad Atlanta, sono nate dall’iniziativa di businessmen arabi come Atif A. Abdulmalik e amministrano capitali del Golfo con investimenti di molti miliardi di dollari (9 nel caso di Arcapita, che ha 1.600 soci arabi).
È un mondo in grande fermento, sostiene Mounzer A. Nasr, responsabile degli investimenti europei per Arcapita, libanese di nascita e americano per formazione: una volta esistevano pochissimi esperti, in genere di alta estrazione, e poi uomini d’affari più sanguigni. Questi ci sono ancora. Ma è pronta ormai una generazione manageriale di alto livello di tutt’altro tipo, che parla la lingua del top management di tutto il mondo.
Ma ciò non basta – continua a sostenere in tutte le sedi possibili Lubna S. Olayan, a cinquant’anni la numero uno femminile in assoluto del mondo imprenditoriale del Golfo, figlia del miliardario saudita Sulima S. Olayan e ora a capo degli investimenti del Gruppo in Arabia e nel mondo –. Politica e burocrazia sono ancora molto inefficienti, e il business si deve impegnare di più, le fa eco Onsi Sawiris, fondatore dell’egiziana Orascom: per molte posizioni-chiave abbiamo scelto manager egiziani educati all’estero o che hanno avuto l’opportunità di imparare all’estero; ora dobbiamo fare da soli. L’avviso ai naviganti occidentali è mandato.

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2006