Marzo 2006

Politica monetaria USA

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L’eredità
della Federal Reserve
Samuel Helder Economista, docente MIT
 
 

 

 

 

 

Quando il timore principale
riguardava
la deflazione,
la Federal Reserve non ha esitato
ad “assicurarsi” tagliando i tassi in modo aggressivo.

 

La domanda di fondo anche per gli europei, oltre che per gli americani, è: che cosa succederà all’economia statunitense nel 2006? I prossimi mesi saranno cruciali per capire se il presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, lascerà al suo successore, Ben Bernanke, una situazione florida oppure un groviglio di problemi. Molto dipenderà dall’inflazione. A settembre l’indice dei prezzi al consumo è cresciuto del 4,7 per cento rispetto a un anno prima. Davvero troppo, per qualunque banchiere centrale.
Ma la causa principale è stato lo shock petrolifero. L’inflazione core, vale a dire depurata dei prezzi più volatili, come energia e beni alimentari, in realtà è ferma al 2 per cento. Una differenza così grande tra queste due misure di inflazione è eccezionale e non può durare. La forbice tra i due indicatori dovrà chiudersi, una volta o l’altra. Ma in che modo? La risposta a questa domanda è fondamentale per capire che cosa ci aspetta, o quanto meno per tentare di interpretare gli scenari futuri.
Quella più probabile (e più scontata dai mercati finanziari) è che l’indice generale dei prezzi al consumo rallenterà verso valori accettabili. In questo caso, la Federal Reserve continuerà il graduale aumento dei tassi, portando il tasso di riferimento dal 4 per cento attuale entro il 4,5 o il 4,75 per cento verso i primi mesi del 2006. A questo livello, la politica monetaria avrà raggiunto una posizione di neutralità; cioè non sarà né fonte di stimoli né di freni per la crescita dell’economia americana. Ma poi, che cosa farà? La risposta è difficile e dipenderà dall’evoluzione congiunturale. Se, com’è probabile, l’economia sarà in una situazione di pieno impiego e crescerà secondo il suo potenziale del 3-3,5 per cento, con un’inflazione attorno al 2-3 per cento, Greenspan sarà ricordato come il miglior banchiere centrale dei nostri tempi.

Nello scenario alternativo, la forbice tra i due indicatori di inflazione si chiuderà con un’accelerazione dell’inflazione core. In questo caso, i tassi di politica monetaria dovranno salire decisamente al di sopra del 4,5 per cento oggi scontato dai mercati. Ciò renderà più vulnerabile l’economia americana. Le famiglie sono molto indebitate a fronte di una ricchezza immobiliare forse gonfiata da una “bolla speculativa”.
L’eventuale scoppio di questa “bolla” potrebbe far precipitare l’economia statunitense in una fase di recessione. Anche senza questa ipotesi estrema, una politica monetaria davvero restrittiva costringerebbe l’economia a rallentare sotto il suo tasso di crescita potenziale. Le ripercussioni sul resto del mondo, dai mercati emergenti all’Europa, e sullo stesso dollaro, non tarderebbero a farsi sentire pesantemente.
Oggi non si vedono ancora segnali di accelerazione dell’inflazione. Ma per valutare correttamente l’evolversi della situazione bisogna tener conto di un punto obiettivamente cruciale. La Federal Reserve guarderà avanti, reagirà ai rischi, senza aspettare di vedere dati certi e univoci. Una delle più importanti innovazioni di Greenspan è stata quella di impostare la politica monetaria in base al principio della gestione dei rischi. Questo vuol dire giocare d’anticipo, consapevoli che c’è la possibilità di sbagliare, pur di ridurre l’esposizione a pericoli giù gravi.
Quando il timore principale riguardava la deflazione, la Federal Reserve non ha esitato ad “assicurarsi” tagliando i tassi in modo aggressivo. In questi giorni, la situazione è opposta. La disoccupazione americana è al 5 per cento, ed è estremamente difficile che possa scendere ancora. Da metà 2003 l’economia americana cresce sopra il 3,5 per cento. La fiducia delle imprese è molto prossima ai maggiori livelli, nonostante gli uragani nel Golfo del Messico. Sarebbe davvero un guaio scoprire che la politica monetaria è in ritardo nella lotta all’inflazione.
Una volta che il processo inflazionistico ha iniziato a influire sui salari e sulle aspettative, è molto più difficile da arrestare. Per evitare di finire in questa trappola, la politica monetaria americana correrà qualche pericolo in più sul fronte opposto. Quindi, difficilmente l’aumento dei tassi subirà una pausa prima di aver raggiunto il livello neutrale intorno al 4,5 per cento. E uno scenario anche solo incerto e appena abbozzato di ripresa dell’inflazione porterà a una stretta di politica monetaria superiore rispetto a quella oggi scontata dai mercati finanziari.
L’ultima riunione della Federal Reserve presieduta da Greenspan è stata quella del 31 gennaio 2006. Poteva essere il momento rivelatore per scoprire che cosa ci aspetterà nel resto dell’anno, perché proprio in quella circostanza avremmo potuto intuire se fosse terminato il ciclo di rialzo dei tassi o se Bernanke, al posto di un’eredità d’oro, dovesse rischiare di mandare l’economia in recessione, pur di evitare il riaccendersi dell’inflazione. Ma tutto questo non si è verificato, e siamo ancora tutti, americani ed europei, col fiato sospeso. La transizione soft ha rinviato gli scenari chiarificatori. Dovremo attendere la scadenza del primo trimestre, e le reazioni successive, che non dovrebbero valicare la fine di aprile e i primi quindici giorni del mese di maggio. Quella dovrà essere, una volta per tutte, l’ora della verità.

 

   
   
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