Marzo 2006

Europa, stati uniti, cina

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Uno sguardo sul mondo
Milton Friedman Premio Nobel per l’Economia
 
 

 

 

 

 

Il libero mercato
è la forma più
efficiente di
economia, ma non segna la “fine della storia”
prospettata da Francis Fukuyama.

 

Quella che possiamo chiamare la “vecchia Europa”, (Francia, Germania e Italia), continua a soffrire alti livelli di disoccupazione. Per invertire la tendenza, questi Paesi devono imitare Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Il che, in due parole, vuol dire vero “libero mercato”.
Il problema della Germania è l’entrata nell’euro con un cambio che ha sopravvalutato il marco tedesco. Così, mentre l’Irlanda accompagna all’inflazione una crescita rapida, Germania e Francia sono più stabili, ma faticano a crescere. L’euro sta diventando più una fonte di problemi che un sostegno. Non potendo uscire dall’euro, la Germania deve diventare più flessibile, eliminare le regole che hanno portato la disoccupazione a cifre alte. D’altronde, le politiche del passato hanno spinto molti imprenditori fuori dalla Germania.
A Londra, Tony Blair sostiene una “terza via”: un mercato del lavoro flessibile, ma senza l’“assumi e licenzia” all’americana. Bene, io non credo che esista una “via” del genere, anche se è vero che un mercato competitivo non comporta assenza di società. L’approccio sociale va bene quando non c’è di mezzo il mercato.
Poi, c’è anche il modello scandinavo: tasse alte, occupazione alta. Ma una cosa del genere non può verificarsi dove ci sono molti immigrati. I Paesi scandinavi hanno comunità piccole e omogenee, nelle quali tutti sono disposti a pagare tasse in nome di obiettivi comuni. Ma gli obiettivi comuni sono difficili da recepire per popolazioni numerose e disomogenee. Il libero mercato costringe a cooperare anche gruppi diversi per cultura e per religione.
Per quel che riguarda l’inflazione, che negli Stati Uniti è sempre lenta, anche in presenza di forti aumenti del costo del petrolio, va sottolineato che essa è un fenomeno monetario pilotato dalle Banche centrali. Se la fluttuazione dei prezzi negli Usa non è stata mai bassa come negli ultimi quindici anni, non è per caso, ma per la politica rigorosa della Federal Reserve. Anche in Europa la Banca centrale europea ha frenato l’inflazione e tenuto fermi i prezzi: ma lì le pressioni a battere moneta per incoraggiare l’occupazione sono più forti che negli Stati Uniti. Ciò che farà la Banca centrale europea dipenderà da Germania, Francia e Italia.

L’Italia sembra il problema maggiore: ha beneficiato dell’euro perché ha goduto di tassi europei, più bassi di quelli che si sarebbe potuto permettere per colpa del debito interno elevato. In passato, quando ha potuto, l’Italia ha gonfiato il suo passivo. La cosa buona, adesso, per l’euro, è che questa possibilità non c’è più. È resa impossibile dalla politica di bilancio restrittiva della Banca centrale europea.
Per quel che riguarda gli Stati Uniti, il debito interno è principalmente nelle mani di Giappone, Cina e Corea del Sud. Ma questo enorme deficit corrente non è un problema, né per l’America né per l’economia mondiale. Infatti, se si guarda ai numeri, gli Stati Uniti sono pesantemente in debito; ma se si guarda alla vicenda dal punto di vista del capitale, vediamo come gli interessi che paga l’America siano pari a quelli che essa riceve dai suoi investimenti esteri. Anzi, le attività americane all’estero stanno fruttando più di quanto non facciano quelle straniere negli Stati Uniti. Gli investitori vengono negli Usa perché garantiscono sicurezza e stabilità e, in cambio di tutto ciò, accettano una remunerazione più contenuta. Le attività americane in altri Paesi, viceversa, sono più rischiose e, pertanto, assicurano ritorni molto più elevati. In termini reali, la situazione è di equilibrio. Per questo credo che le preoccupazioni sui conti americani siano fuorvianti.
Dunque, il deficit di bilancio Usa non mi preoccupa per nulla. È la spesa che mi preoccupa. Se il governo degli Stati Uniti impegna il 40 per cento del reddito nazionale nel servizio del debito e in prelievi fiscali, quel denaro non è più disponibile per i consumi. Il deficit diventa così una sorta di tassazione indiretta.
E non mi preoccupa una Cina che cresce senza soluzione di continuità dal 1979, quando passò dal mercato “leninista” al “libero mercato controllato d’autorità”, come ebbi a definire il sistema cileno. Non mi preoccupa perché è un modello che non può durare. In Cina succederà ciò che è capitato, appunto, in Cile. La libertà politica è essenziale: la Tienanmen è solo il primo episodio di una lunga serie. Non si può incoraggiare lo sviluppo ed essere autoritari, perché si provoca un conflitto tra popolazione e Stato. Senza libertà, la crescita si ferma. E c’è una nuova generazione, formata all’estero, consapevole delle alternative. Prima o poi la linea sarà ammorbidita. Non per niente Internet ha avuto sul liberismo e sui mercati un effetto tremendo. Come è accaduto anche in Cina, dove la gente ha ora imparato a parlare, e comunica, e il governo – nonostante gli sforzi – non è più in grado di controllarla. Internet, inoltre, si muove nella direzione della “perfetta informazione” per i mercati. Gli individui e le società possono comprare e vendere oltre confine inseguendo le opportunità migliori. La rete ha ridotto le possibilità di imporre tasse sulle merci. Perché qualcuno dovrebbe comprare qualcosa in un Paese, quando sa che può acquistarla altrove pagando una tassa minore? Internet è lo strumento più efficace per la globalizzazione.
Per questo io credo che la marcia verso il liberoscambismo può proseguire anche nel XXI secolo. Il pianeta nel complesso ha più o meno abbracciato la scelta della libertà di mercato. Il socialismo, nel senso tradizionale, comportava la proprietà e la gestione pubblica dei fattori di produzione. Se tralasciamo la Corea del Nord e un paio di altri Stati, non c’è più nessun Paese che oggi potrebbe definirsi socialista. Di qui, non si tornerà indietro. La caduta del Muro di Berlino ha fatto per il progresso della libertà molto più di qualunque libro. Il socialismo, ora, identifica solo un governo che si preoccupa di spostare il reddito, trasferendo da chi ne ha verso chi non ne ha. È un problema di distribuzione della ricchezza. Non di proprietà.
Ciò detto, è ovvio che questa della globalizzazione non mi sembra l’economia più libera che abbiamo mai visto. Il commercio, in realtà, era molto più libero nel XIX secolo, siamo meno globalizzati oggi di allora. Se poi ci si chiede se “saremo più globali rispetto all’Ottocento”, rispondo che non lo so. Viviamo in un mondo più libero perché l’Unione Sovietica è crollata e la Cina sta cambiando. Questi sono stati i due fatti principali che hanno contribuito ad una maggiore libertà. Le economie dell’ex Oltrecortina si ispirano ai princìpi del libero mercato, la maggior parte di questi Stati hanno governi più liberi e meno restrizioni al commercio. Questa base liberoscambista fungerà da modello per chi è in ritardo, e lo contagerà. Tutti, dappertutto, oggi capiscono che la strada per il successo dei Paesi sottosviluppati passa su mercati più aperti e sulla globalizzazione.
In conclusione: queste teorie hanno prevalso su Marx e su Keynes. Ma non è questo il punto d’arrivo definitivo del pensiero economico. Il libero mercato è la forma più efficiente di economia, almeno per i nostri tempi; ma non segna la “fine della storia” prospettata da Francis Fukuyama. Libero mercato, fra l’altro, è un termine molto generico. Vedremo emergere ogni sorta di problema. Il libero mercato funziona al meglio quando una transazione fra due persone dipende solo da queste due persone. In pratica, non succede. La realtà è che il più delle volte se io vendo una cosa a te finisce per provocare delle conseguenze che valgono anche per altre persone. Questo è il problema che devono risolvere i governi, questioni cruciali come l’inquinamento e le disuguaglianze. Davanti a queste esigenze possiamo essere certi che la fine della storia non arriverà mai.

 

   
   
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