Giugno 2005

Storie di (s)concerti e divorzi

Indietro
Le grandi bacchette, per esempio
Sergio Bello
 
 

 

 

 

Karajan venne
tradito dai suoi Berliner, che gli tolsero proprio negli ultimi anni, per dispetto vile,
il titolo di direttore a vita.

 

Ripresa da una narrazione: «Non possono chiederci questo – disse un giorno James Levine, il direttore del Metropolitan – di avere la pelle sottile, sensibile per interpretare la musica, e contemporaneamente una scorza da elefante. O questa o quella».
Lo sanno bene gli orchestrali, i coristi, quanti vivono in teatro: la figura davanti a tutti loro sul podio, che li disciplina e li guida, facendo del mezzo antico del comando – la bacchetta – uno strumento magico di interpretazione, è quasi sempre un musicista di pelle sottile. Ci sono le eccezioni, sicuramente: ci sono gli elefanti: quelli che disbrigano un concerto con un paio di prove, quelli che arrivano soltanto alla generale, demandando ad altri il lavoro preparatorio. E ci sono anche in questo caso le eccezioni.
Da Arturo Tocanini in avanti, (in sostanza, da quando il direttore d’orchestra è diventato importante al modo del compositore), di tutti i grandi e grandissimi sono testimoniate le lunghe ore di lavoro, l’affinamento costante delle partiture, la ricerca della perfezione, la fatica, i momenti di rabbia. E ancora: la cura nella scelta degli strumentisti, selezionati uno ad uno (sempre sulla scorta della lezione di Toscanini), la creazione di una compagine come di una famiglia, con forte investimento emotivo e con dedizione assoluta. È un rapporto saldo e nello stesso tempo fragile, quello del direttore con la sua orchestra: la storia testimonia di clamorose fratture, di tradimenti che restarono poi come ferite aperte.

Così ricostruisce e racconta quasi testualmente Carla Moreni, rammentando fra l’altro che Karajan venne tradito dai suoi Berliner, che gli tolsero proprio negli ultimi anni, per dispetto vile, il titolo di direttore a vita: loro stessi avrebbero dovuto andarne fieri, e se ne accorsero in seguito, ma troppo tardi. Karajan li lasciò per sempre. Gli ultimi concerti, memorabili, li diede con i Wiener.
Il tradimento dell’orchestra allora più celebre in Europa – si era negli anni Settanta – nei confronti del musicista che con maggior carisma l’aveva segnata, ebbe inizi confusi. Questioni di discografia, si disse, che a posteriori nessuno ebbe tanta voglia di rivangare. Anziché con i suoi, Karajan preferì incidere per qualche tempo con l’Orchestra di Parigi.
Un flautista importante come James Galway parlò di regime autoritario del podio e scelse di lasciare il posto. La proposta di Sabine Mayer, splendida giovane clarinettista, venne duramente contestata a Karajan dal resto dell’orchestra.
Dettagli, tessere dell’incomprensione, sottolinea la saggista. Ma il sasso era stato gettato, e nessuno osò fermarlo in tempo, sicché lo strappo fu inevitabile. Per Karajan un’ombra dolorosa, per i Berliner la fine di un’epoca.
Caso unico nella storia delle bacchette? Tutt’altro. Successore di Karajan a Berlino fu Claudio Abbado, anche lui tradito dalla sua orchestra, la Scala. Siamo in quel di Milano, verso la metà degli anni Ottanta, a una recita del Barbiere di Siviglia. È il cavallo di battaglia del Maestro, il titolo rossiniano che nella sua lezione ha fatto storia. Durante l’intervallo, un gruppo di orchestrali bussò al camerino e presentò (“a Claudio”, visto che si davano del “tu”) una richiesta di dimissioni. Quale il motivo di questa presa di posizione? Il direttore era stato negli ultimissimi tempi poco presente in teatro, aveva affidato il lavoro un paio di volte ad altri direttori, preferiva dirigere all’estero. Gli orchestrali lo sentivano sempre più distante e soprattutto – questo li aveva offesi – aveva promesso una prestigiosa tournée in Giappone (la prima come orchestra sinfonica, gli scaligeri dai tempi di Marinuzzi non giravano più col repertorio sinfonico all’estero), ma poi aveva preferito i più solidi Wiener.
Abbado lasciò, senza clamori, ma non volle più dirigere quei complessi che aveva guidato per ben diciotto anni, dal 1968 al 1986. Quando fece ritorno alla Scala, (fino alla clamorosa rottura con Elektra), fu sempre con orchestre straniere ospiti.
Sembra paradossale, ma il disagio e i malumori presenti di recente tra le file dell’orchestra scaligera sembrano mettere in campo motivazioni opposte rispetto a quelle di allora: Riccardo Muti troppo presente, troppo autoritario. Verrebbe voglia di obiettare: ma non è questo il suo dovere? E si può sapere, alla fine, che direttore volete? Di colpo si cancellano il debutto al Musikverein di Vienna, le tournée in Giappone (l’ultima, nel mese di settembre, trionfale), il ritorno a casa della trilogia verdiana, Wagner, Gluick, Mozart, l’indimenticabile Falstaff. Diciannove anni. Tutte le prime parti d’orchestra scelte e messe sul leggio dal Maestro. Mai un giorno di assenza dalle prove, Muti era sempre presente, nel suo camerino, ad aspettare, anche quando l’orchestra per sei prove consecutive bloccò l’attività musicale con assemblee.

Pelle da elefante, per dirla con Levine. Ci vuole pelle da elefante. Dove ritrovare adesso la spiritualità per muovere la bacchetta alla musica? Per suonare è necessario guardarsi negli occhi, ritrovare una civiltà. Non prestare orecchi ai burattinai che speculano, ma riflettere con pacatezza. La musica ha bisogno oggi più che mai di serenità, di lavoro proficuo, di efficienza. Per costruire ci vuole tanto, per distruggere basta pochissimo. Lo sanno per primi gli strumentisti che a dare identità e prestigio ad una compagine è soltanto ed esclusivamente una figura: quella del direttore. Il nome del direttore – col suo lavoro sensibile, di artista – segna le età dei Teatri. Toscanini “schienadritta”, appena sentiva parlare di sindacalismo nelle orchestre, se la dava a gambe!

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2005