Giugno 2005

Narrazioni di narrazioni

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Salento, romanzo
di un perduto incanto
Antonio Errico
 
 

 

 

 

La narrativa
del Novecento
salentino comincia con un’apocalisse, la furia di un
castigo divino
silenzioso e totale, con un corpo a corpo stremato
e finale tra la vita e la morte.

 

C’è un’idea, una sintesi sostanziale, un punto cardinale tematico e semantico intorno al quale ruota tutta la narrativa del Novecento salentino. È un’idea che oscilla tra suggestioni del mito e interpretazioni della Storia, immaginario collettivo ed esperienza personale, modelli culturali e percorsi di scrittura, processi di costruzione di identità sociale e rispecchiamenti generazionali nelle forme di quella identità, nelle proiezioni di quelle forme, nella molteplicità di quelle fisionomie, tra la coscienza di una condizione di vivere in quella terra e una messa in scena di quella coscienza attraverso la narrazione letteraria.
Questa idea, questa sintesi, è una frase di Carmelo Bene, l’incipit del suo Sono apparso alla Madonna, che dice: «Vi è una nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento. Affondare la propria origine – non necessariamente connessa alla nascita – in Terra d’Otranto è destinarsi un reale-immaginario».
Se è questa la frase che lega i fili narrativi del Novecento salentino, il movente e l’esito delle storie narrate in forma scritta in questo tempo, è perché essa porta in superficie e codifica in espressione il sentimento di nostalgia di qualcosa che non è mai esistito: la nostalgia che viene da una memoria fantastica, quasi da una leggenda, da una percezione della terra che nel passaggio da un tempo a un altro tempo, da una voce a un’altra voce, è diventata rarefatta e artefatta.

Negli esiti della narrativa salentina letterariamente più maturi e significativi, il Salento non è altro che un luogo elaborato attraverso una combinazione di elementi dell’antropologia culturale con la tensione alla mitologizzazione della terra.
La scrittura narrativa sposta continuamente il Salento verso una sorta di zona franca, riparata dalle correnti degli eventi, non coinvolta dai mutamenti del secolo, immune dal contagio delle sue contraddizioni, estranea tanto allo sventolare delle bandiere delle grandi ideologie quanto dal loro avvoltolamento. Anche le problematiche della questione meridionale vengono osservate da una prospettiva vicina alla dimensione poetica della realtà e distante da quella politica, economica, sociale.
Il Novecento è passato senza esserci mai stato. Anche quando la storia raccontata ha il suo fondo o il suo sfondo in un tempo storico che corrisponde a quello della scrittura, anche quando il gesto del narrare si rispecchia, o si confronta, nei fatti, o con i fatti, che accadono tutt’intorno, anche quando è una situazione del presente a determinare il motivo o il movente della scrittura, anche quando tutte queste condizioni si intrecciano o si diramano nel tessuto della narrazione, lo scrittore è sempre in una posizione di fuga.
La contemporaneità è un tizzone tra le mani. Nella contemporaneità si sente a disagio, spaesato. È questa condizione di spaesamento che muove l’istinto di fuga. La fuga dello scrittore non è verso il passato, verso un luogo diverso in un tempo diverso. La fuga è verso un luogo in un tempo completamente fantasticato o reinventato sulla base di un’ipotesi leggendaria del passato. La fuga è verso quel reale-immaginario: un’immaginazione che utilizza la materia del reale e una realtà che si trasforma attraverso l’immaginazione.
La narrativa del Novecento salentino comincia nelle ultime pagine di Finibusterre di Luigi Corvaglia. Con un delirio. Con lo sgretolamento del mondo sotto gli occhi dei colerosi di un lazzaretto.
Comincia con un’apocalisse, la furia di un castigo divino silenzioso e totale, con un corpo a corpo stremato e finale tra la vita e la morte, tra un passato concluso e un presente svuotato di ogni orizzonte e possibilità.
La narrativa del Novecento salentino comincia con la fine di un’idea di Salento, un’immagine, una tradizione, un tessuto valoriale, un sistema simbolico-culturale. Un mito. (Resta fondamentale per la lettura di questo romanzo, l’introduzione di Donato Valli all’edizione Congedo del 1981).

Quando un servitore chiede a Pietro quale nome s’ha da mettere sul tumulo dell’uomo trovato riverso sui gradini del sagrato, Pietro risponde: Dòmine. E poi: il cantore che resuscitava il canto. E poi: del Capo morto.
Il Capo di Leuca: morto, dunque. Ma il Capo di Leuca muore definitivamente, essenzialmente, dopo poche righe, dentro gli occhi vorticanti di delirio dello stesso Pietro aggredito dal morbo, nel suo vomito, nella sua nausea, nei suoi dolori che espellono scene di passato mischiandole con le visioni del delirio, nello spasimo e nelle ombre di vivi e di morti che gli accerchiano la mente, nel torbido rimescolamento di memorie e allucinazioni, nella concreta sensazione di morte che lo attraversa e lo stravolge. Ma non lo vince. Perché la sopravvivenza di Pietro è funzionale alla dimostrazione della fine del Capo. Pietro sopravvive in un mondo ridotto a maceria, irriconoscibile.
Di questo si fa metafora il paesaggio: l’uliveto come colonnato di un tempio apocalittico.
Composto tra il ‘29 e il ‘31, e pubblicato nel ‘36, romanzo salentino per definizione dell’autore, enciclopedia del Salento per definizione di Tommaso Fiore, Finibusterre cancella – definitivamente – ogni immagine mitica del Salento e vieta ogni possibilità di ricorrere a questa immagine. Dopo Finibusterre, chiunque intenda narrare il Salento può farlo solo partendo dal crollo di un immaginario culturale che avviene in questo romanzo. Oppure può volgere lo sguardo verso un passato lontano. Perché un passato lontano può essere soltanto un reale immaginato.
È quello che accade ne L’ora di tutti di Maria Corti.
Un’altra fuga. Un altro sentire il narrare come un transito verso e dentro i territori dell’immaginazione, un distanziarsi dalla realtà per avere ogni libertà d’invenzione e di configurazione metaforica, di riscrittura della storia sulla base delle necessità della narrazione.
(Se Maria Corti non affonda in Terra d’Otranto la sua nascita, indubbiamente a questa terra è annodata tutta la sua scrittura creativa).
Nell’Ora di tutti il luogo ha una funzione marginale rispetto alle finalità del romanzo.
Se la scelta del luogo è determinata dalle suggestioni di un epos elaborato attraverso l’integrazione di documenti e tradizione popolare, la pregnanza semantica è data dall’articolazione del logos dei personaggi, dal loro proporsi sulla scena come varianti del rapporto dell’uomo con la Storia: dell’uomo di ogni tempo in ogni luogo.
Per fare questo Maria Corti ha bisogno di una materia che può sottrarsi a qualsiasi verifica e confronto con la realtà, che può adottare ogni visione dei fatti e sottoporli ad ogni revisione, ma, soprattutto, che offre ogni possibilità di invenzione di una memoria collettiva. Non è la memoria storica a dare origine al processo narrativo, ma è il processo narrativo a creare la memoria attraverso le voci dei personaggi, così come è il discorso dei personaggi a disegnare gli scenari che servono alla rappresentazione della memoria.
Nell’Ora di tutti, Otranto è soltanto un luogo mentale: uno dei luoghi mentali studiati da Maria Corti nel suo Per una enciclopedia della comunicazione letteraria (Bompiani, 1997).
Per analogia con le costruzioni della mente che nascono da idee individuali o di gruppo, analizzate dalla Corti nel saggio sui luoghi mentali, Otranto in quanto luogo narrato, è uno spazio geografico chiuso, un microuniverso trasformato in costruzione spaziale della coscienza, locus deputatus del conflitto tra Dio e demonio, tra il bene e il male.
La fuga di questo romanzo, allora, è verso un luogo ideale che, in quanto tale, non ha relazione né con la realtà del presente né con la realtà della storia, ma solo con le storie narrate che – come tutte le narrazioni – trovano il principio e la fine nella sfere della finzione.
Nell’Ora di tutti, Otranto è pura finzione. Le descrizioni del paesaggio sono sospese a mezz’aria. I fatti che accadono hanno la leggerezza di una leggenda; di una leggenda contengono gli elementi di invenzione e verosimiglianza. Tutto è collocato in una dimensione lontana. Quando il racconto si chiude ogni cosa è esattamente com’era quando è cominciato.
Tra le macerie di Finibusterre, dopo quasi trent’anni, non si è ancora cominciato a scavare.

   
   
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