Giugno 2005

Francesco antonio astore

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Illuminista. E rivoluzionario
Nicola Carducci
 
 

 

 

 

Astore condanna l’uso strumentale della religione fatto dal Borbone e dalla maggior parte del clero.

 

In apertura del volume di studi su Francesco Antonio Astore: l’intellettuale e il patriota lo storico Giuseppe Giarrizzo si pone il quesito se l’evento della Rivoluzione partenopea del 1799 abbia rappresentato «un passo decisivo del Risorgimento», oppure, in quanto rivoluzione passiva, abbia condotto il Mezzogiorno a «privarsi della sua naturale classe dirigente»; per concludere:
Dai fatti del ‘99, soprattutto se l’attenzione si sposta dalla capitale alle province, è possibile datare la rivelazione della nuova classe politica meridionale, per cui risulta smentita la tesi della frattura, e confermata invece quella del significato storico della rivoluzione come atto di nascita del Mezzogiorno contemporaneo (Considerazioni sulla Rivoluzione napoletana del 1799).
Il tema è davvero scottante alla luce del presente, la cui vicenda politica sembrerebbe voler non soltanto bloccare il processo storico in senso progressivo, ma addirittura risospingerlo indietro di un paio di secoli. Tempestivo dunque il più articolato intervento (“La rivoluzione napoletana del ‘99, tra Europa, Napoli e Terra d’Otranto”) di Mario Proto, che muove da un attacco a fondo contro chi, oggi, nega l’esistenza della questione meridionale, la quale invece, sulla base dei Rapporti Svimez, resta più grave di prima, e dunque va ripensata sulle tracce di quel tragico avvenimento, al quale è seguito «un tratto lungo di storia locale e nazionale» che ha visto il brigantaggio e la pratica corruttrice del moderatismo e del trasformismo.

Dettagliata è poi l’analisi del programma politico dei riformatori napoletani, sulla scorta delle indicazioni fornite dal Galanti e ancor più dal Palmieri, il quale, dal profondo Sud, nell’età dei lumi, dimostra di saper coniugare fisiocrazia e liberismo, Quesnay e Smith. L’appartenenza del Palmieri alla classe nobiliare, a giudizio di Proto, non costituiva di per sé «un importante impedimento ad immaginare progetti di riforma che colpissero sia i privilegi che la resistenza al cambiamento». Dalla ricognizione del pensiero di Genovesi, Filangieri, Cuoco, il nostro studioso desume gli elementi per individuare «le basi politiche dell’arretratezza meridionale».
La complessa e, per certi aspetti, amletica figura di Astore è l’argomento di Francesco Paolo Raimondi nel saggio “Francesco Antonio Astore fra illuminismo e tradizione”, la cui tesi di fondo ruota intorno al sostanziale moderatismo del suo grande conterraneo, sospeso – come a lui pare – tra illuminismo (che è superamento violento dell’ancien règime) e tradizione (che è supina accettazione dello statu quo): tesi intrinsecamente contraddittoria. Infatti se nella storia del Mezzogiorno di fine Settecento, i riformatori, che si riconoscono più o meno nelle idee illuministe, spianano la strada alla rivoluzione, non si può non concludere che l’adesione del riformatore Francesco Antonio Astore alla causa della repubblica del ‘99 lo connota di giacobinismo in re (senza perciò immaginarlo un Robespierre), se non in verbis, cui si appella il Raimondi per la sua tesi.
I convincimenti di Astore in fatto di fede religiosa restano nella intimità della coscienza, nel «foro interiore», che Raimondi invece vorrebbe esibire a sostegno della sua tesi del presunto moderatismo politico astoriano. Sussiste, certo, un’oggettiva «testuale ambiguità», che Raimondi ha buon gioco a riscontrare nelle opere di Astore; ma questa ambiguità – è da supporre – non va ricondotta al momento drammaticamente magmatico di quello scorcio di secolo nel Mezzogiorno? È lo stesso Raimondi a fornire la riprova, nel rinvenire in Astore, sulle orme della documentazione epistolare (diligentemente raccolta da Giuliana Iaccarino, presente nel citato volume degli Atti), un «pessimismo cupo al limite del medioevale contemptus mundi».

Come conciliare allora tale pessimismo cupo con l’utopia rivoluzionaria che vide Astore non spettatore ma tra i protagonisti delle vicende napoletane? Sia pure, Astore, «un genovesiano in ventiquattresimo», ma ciò non gli inibisce gli slanci di fede politica rivoluzionaria. Non si presume, con queste mie modeste considerazioni, di avere sciolto il nodo che, psicologicamente, riporta anche il nostro riformatore a quanto il Manzoni ebbe, nel suo romanzo, a constatare circa «il guazzabuglio del cuore umano».
Si è però convinti che Astore, come i Briganti, come Ignazio Ciaia, come Ignazio Falconieri, avverte, d’istinto, la necessità di una svolta nella storia sociale del Mezzogiorno, sui cui tempi e modi non ci si poteva che affidare alle illusioni suscitate dalla “Rivoluzione Madre”, l’Amazzone bella della Musa carducciana.
Condivisibile appare invece il giudizio di Raimondi sull’astoriana Filosofia dell’eloquenza:
Sovrabbondante e prolisso fino all’esasperazione, il testo pare privilegiare più le parole che le cose sovraccaricandosi tra l’altro del peso di quella noiosa erudizione che viene rimproverata agli altri;
e ciò con una singolare punta di acredine paesana. È assai meno condivisibile l’altro giudizio sul Catechismo repubblicano, testo emblematico del “giacobinismo” astoriano: «non si trovano [presume Raimondi] né segnali di autentica passione politica né indizi di seria riflessione teoretica», con la finale liquidazione salomonica della «improvvisa svolta del ‘99»:
l’idea repubblicana non era nell’Astore veramente sentita e si riduceva ad una vuota cornice, ad una pura scorza esteriore entro cui l’elemento veramente vitale rimaneva lo spirito religioso (ibidem).

Insomma, Astore sarebbe da annoverare tra «i martiri della fede cattolica» e non tra i martiri della «rivoluzione», se egli affrontò la morte per un’«idea repubblicana non veramente sentita». Quella di Astore sarebbe stata, insomma, né più né meno «voluptas pereundi». Mi si permetta il richiamo ad un mio scritto su Astore del lontano 1981 (L’Albero, n. 65, pp. 29-65), nel quale cercavo di spiegare le oscillazioni del comportamento di Astore con la considerazione che gli eventi del ‘99 partenopeo «sono di tale problematico ed eccezionale spessore che nell’impatto con essi non reggono le comuni misure di un giudizio moralistico sulle azioni umane».
Più lucida la relazione di Gino Rizzo (“Sulla Guida Scientifica”), nel riprendere e risolvere i due problemi sin qui tenzonanti tra il sì e il no: ossia l’inserimento accidentato del pensiero astoriano nell’alveo dell’illuminismo napoletano e la convinta, pur se tardiva, condivisione, con i genovesiani, degli ideali rivoluzionari che lo porteranno al sacrificio estremo. Scrive Rizzo:
L’Astore all’indomani della rivoluzione francese si faceva attento interprete dei timori e delle preoccupazioni di larghi strati della cultura cattolica napoletana, che egli riproponeva, con appassionato e partecipe fervore, nei modi dell’organico sistema filosofico-culturale (Guida Scientifica), su diffuse e avvertite posizioni di forte chiusura e netta intransigenza antilluministica. E pur tuttavia i conti con il secolo “illuminato e filosofico” non potevano chiudersi con questa prospettiva così severa e unidirezionale. L’Astore, al termine della Guida Scientifica, non poté esimersi dal tessere le lodi di quel suo secolo. Si tratta di accertamenti di gran peso… Tutti riconducibili al fondamentale riconoscimento di quella antidogmatica tensione conoscitiva che era stato il costante humus della cultura settecentesca e della quale lo stesso Astore era stato risentito e partecipe testimone sin dalla data del suo trasferimento a Napoli.
Ci si giustifichi la lunga citazione perché, come a me pare, fa giustizia di certo gusto iconoclasta che serpeggia in altri interventi compresi nel volume degli Atti. E non meno energica è infine la rivalutazione del consenso astoriano alla causa rivoluzionaria:
Quale vistosa testimonianza della personale adesione alla Repubblica napoletana con piena consapevolezza ideologica, aveva pubblicato Catechismo repubblicano e una traduzione del De’ diritti e de’ doveri del cittadino di G. Bonnot de Mably, inneggianti ai princìpi della rivoluzione francese ribaditi e condivisi;
e dunque:
nuovi ideali, nuovi principi, nuovi progetti erano sorti […] e l’Astore li condivise, appassionatamente, con speranze di rigenerazione politico-culturale, sino alla morte.
Sulla medesima linea d’interpretazione si è mosso di recente Leonardo La Puma, che ripropone in edizione critica il Catechismo repubblicano, con ampia esaustiva Introduzione e relativa ricca bibliografia (Piero Lacaita Editore, 2003).
Infine Giuliana Iaccarino, con il bel saggio sulla “Svolta del 1799”, dovrebbe, a mio parere, porre fine all’insistenza sulle “ombre” e richiamare l’attenzione piuttosto sulle “luci” che si irradiano dalla personalità culturale e ideologica di Astore. Numerosi e autorevoli sono gli studi della Iaccarino, opportunamente segnalati da La Puma, dalla esplorazione e decrittazione dell’epistolario astoriano inedito, di straordinario interesse per affondare lo sguardo nel «guazzabuglio del cuore umano», all’indagine sul rapporto tra l’intellettuale di Casarano e i lumi del Settecento.

Dall’analisi del Catechismo repubblicano, la studiosa rileva le peculiarità che lo staccano dagli altri Catechismi diffusi in quegli anni, per la «fondamentale esigenza di alfabetizzazione ai nuovi principi rivoluzionari». A proposito, poi, della traduzione di Mably, la Iaccarino sottolinea la profonda diversità dell’adesione di Astore agli ideali della rivoluzione da quella ateistico-materialistica di altri giacobini attivi nella Repubblica napoletana, perché, nel Catechismo, le proposte da lui formulate sono «in perfetta linea con le solide certezze cattolico-romane», da sempre professate.
Al tempo stesso, tuttavia, come opportunamente qui si chiarisce, Astore condanna l’uso strumentale della religione, fatto dal Borbone e dalla «maggior parte del clero», sicché, in definitiva, il suo “giacobinismo” (e il lemma non produca effetti schizofrenici) nella interiorità della coscienza dello «zelante cattolico» non confligge con l’estremismo del programma ufficiale della Repubblica. E ciò anche in forza della fermezza tetragona del «vero savio che prende il Mondo (stoicamente) come viene, e come va, riflette come da un’alta torre i fenomeni che gli si presentano».
Un contributo di riflessione, forse decisivo, fornisce Gino Pisanò (“Francesco Antonio Astore e gli illuministi salentini nella Napoli dell’ultimo Settecento”), col suo richiamo ad un’importante lettera del 22 dicembre 1798 (resa nota dalla Iaccarino) dell’Astore al concittadino e suo estimatore Giovan Battista Lezzi, nella quale gli confidava, a cuore aperto, le proprie disavventure domestiche, che lo avevano ridotto «al colmo della disperazione e delle disgrazie di ogni genere»; lo implorava quindi di intervenire presso persone «potenti», che, con l’assunzione di qualche incarico, o in altro modo, gli permettessero di «ritornare da morto in vita e farmi vivere a me stesso a dispetto della mia sorte funesta».
In seguito poi all’epilogo tragico della vita di Astore, il Lezzi aggiunge, in coda alla lettera stessa, una singolare glossa:
L’infelice autore di questa lettera, forse per la miseria […], si prestò alle mire dei patrioti e quindi a finir la vita con un capestro. Sapea di tutto, fuor che quello che era necessario a sapersi.
Icastico il commento di Pisanò: «Il Lezzi volutamente (perché convinto) ingenerava nei contemporanei il dubbio che l’adesione dell’Astore agli eventi del ‘99 fosse stata meditata e consapevole». Dubbio che in Benedetto Croce diverrà certezza, e prima ancora «fra biografi coevi e di poco seriori» alla tragedia della Repubblica.


   
   
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